
The people who have trusted us so far
Nell’ultimo mese stiamo assistendo ad una forte presa di posizione della Turchia che riguarda la guerra in Siria, in particolare a Nord-Est, territorio al centro della zona dove abita la gran parte dell’etnia curda. Non è un mistero infatti che al presidente turco non vadano a genio i curdi, specialmente quando si mettono in testa di voler far politica, tanto che il Pkk è passato dall’essere un partito all’essere un gruppo di terroristi fuori legge. Riportiamo qui di seguito la testimonianza di un giornalista italiano fermato al confine tra Turchia ed Iraq (da poco nel nord dell’Iraq si è tenuto un referendum, seppur non riconosciuto, per l’indipendenza del Kurdistan iracheno).
“«Siamo dell’antiterrorismo, dobbiamo farle alcune domande, da questa parte prego». Inizia così un controllo subito venerdì scorso da chi scrive, alla frontiera tra Turchia e Kurdistan iracheno, di rientro in Italia dopo una decina di giorni a Erbil. Che il passaggio su questo tratto di confine fosse laborioso già si sapeva, ma nel caso in questione è parso chiaro che c’era qualcosa di insolito. Insolito perché dopo essermi visto negare il timbro di ingresso dall’operatore turco, sono stato accompagnato in una struttura poco lontana, dove ha avuto inizio qualcosa di molto simile a un interrogatorio.
Le domande si sono susseguite per circa 90 minuti. Non è normale, almeno da queste parti non mi era mai accaduto. Così come non era ancora accaduto di trovarmi a rispondere a quattro giovani agenti dell’antiterrorismo, ostinati a chiedere dove avessi «incontrato i membri del Pkk?», poi ancora se avevo «conosciuto persone ostili alla Turchia?», «di quali temi ti occupi principalmente… le tue posizioni politiche?», «hai incontrato qualcuno dell’Isis?» e così via, a lungo, con un’intensità crescente. Il tutto gestito dal gruppo dei quattro, assieme, per poi ricominciare dall’inizio, con le stesse domande poste singolarmente, a turno, aggiungendo la pretesa di visionare le immagini salvate nel telefono, le chiamate effettuate, le foto salvate nella reflex, i contatti di cittadini arabi… quindi la consegna del registratore audio per scaricare i contenuti… infine i bagagli. Il tutto alternato da improbabili telefonate «all’ufficio di Ankara» per conferme sulla veridicità delle mie risposte.
Nulla di estremo nell’atteggiamento degli agenti, sia chiaro, e alla fine la realtà dei fatti è stata una sola: tutti i documenti erano in regola e comprensibili, a partire da quel foglio con su scritto “assignment” e dal tesserino da giornalista. Dopo un’ora e mezza di torchio, i quattro capiscono e mi congedano «ci scusiamo ma è il nostro lavoro, è stato aumentato il livello di allerta per intercettare terroristi in fuga». Ammesso in Turchia dunque, portando con me un solo dubbio, in merito a quell’ultima frase: «intercettare terroristi in fuga». In fuga da cosa? Perché proprio in quel momento è stato aumentato il livello di sicurezza? Conoscenti transitati sulla stessa via pochi giorni prima non avevano avuto alcun problema. Il motivo dell’inasprimento dei controlli l’ho compreso il giorno seguente, dopo essere atterrato a Venezia.
Il tutto si è verificato poche ore prima dell’inizio dei bombardamenti aerei nell’enclave curda di Afrin, sul confine turco-siriano, cui è seguito l’attacco di terra. L’operazione avviata da Ankara e chiamata “Ramo d’Ulivo” era attesa da tempo, e punta a ridurre l’area sotto il controllo del Ypg, la milizia curda legata al partito Pyd, componente maggioritaria delle Syrian Democratic Forces (Sdf), principali alleati siriani degli Stati Uniti nella guerra allo Stato Islamico. All’avvio dell’operazione, annunciata da tempo da Erdoğan, mancava una motivazione valida. Questa è giunta il 13 gennaio, quando gli Stati Uniti hanno dichiarato di voler creare una “forza di sicurezza al confine” da 30mila uomini, metà dei quali appartenenti alle Sdf.
Dunque ancora la frontiera turca, dove dal 2011 a oggi sono transitati milioni di uomini, donne e bambini, siriani e iracheni, in fuga da alcuni dei conflitti più cruenti del nostro tempo. Sono stati loro ad alimentare l’esodo che abbiamo imparato a conoscere. Il più massiccio dall’epoca della Seconda guerra mondiale. Una marcia per la salvezza diretta in Europa, passata attraverso i sottoscala di Smirne a cucire giubbotti di salvataggio. Un giorno dopo l’altro con il capo chino, bambini inclusi, per accantonare quanto basta a soddisfare i passeur e proseguire il viaggio tra i flutti dell’Egeo, poi nel fitto di colonne arenate nel fango balcanico. Alla fine per molti è arrivata l’Europa, con le sue promesse disattese e una democrazia ingabbiata tra muri e contraddizioni.
Ecco che i confini, incluso quello turco-iracheno, sono ora il luogo in cui intercettare eventuali «sostenitori dei terroristi» del Ypg (queste le parole usate dagli agenti), formazione considerata da Ankara un continuum del Pkk. Perquisizioni e interrogatori il metodo per smascherarli. Domande simili o quasi sono toccate ad altri colleghi, nelle ore o nei giorni seguenti. L’ho riscontrato spulciando in rete. Alcune delle loro testimonianze hanno trovato spazio nei canali opportuni, sui social, per condividere l’accaduto e magari informare quanti si stanno avvicinando alla Turchia meridionale. Proposito che condividiamo con questo post, augurandoci che per qualcuno possa essere un buon viatico.” (Emanuele Confortin, 28 Gennaio 2018)
Alla luce di questi fatti si potrebbe dire che nel Nord della Siria sia iniziata una nuova guerra. Sabato 20 gennaio soldati turchi e combattenti dell’Esercito libero siriano – coalizione di gruppi ribelli che per anni ha cercato di destituire il presidente Bashar al Assad – hanno cominciato un’operazione militare contro i curdi dell’Unità di protezione popolare (Ypg) nella zona di Afrin, nel nord-ovest della Siria. Il governo turco ha iniziato l’offensiva dopo che gli Stati Uniti avevano annunciato di voler aiutare i curdi – loro alleati nella guerra contro lo Stato Islamico – a dotarsi di una specie di guardia di frontiera per evitare l’infiltrazione dei terroristi nel loro territorio. La Turchia però aveva interpretato la mossa come un tentativo di rafforzare lo stato curdo, una cosa ritenuta inaccettabile, e aveva agito di conseguenza.
Finora le operazioni militari turche si sono limitate a obiettivi attorno ad Afrin, che si trova a 40 chilometri a nord di Aleppo e a circa 120 chilometri a ovest della principale area controllata dai curdi in Siria. Non è chiaro quanto territorio abbiano già conquistato i turchi e l’Esercito libero siriano, ma sembra che le operazioni stiano andando a rilento.
L’operazione militare ad Afrin sta provocando diverse tensioni tra paesi e gruppi presenti nel nord della Siria. Anzitutto sta creando molti problemi agli Stati Uniti, che sono alleati sia dei curdi siriani che della Turchia. Per il governo americano è indispensabile mantenere buoni rapporti con i curdi, che si sono dimostrati il suo alleato più prezioso nella guerra contro lo Stato Islamico; allo stesso tempo, rovinare le relazioni con la Turchia vorrebbe dire creare un problema enorme nella NATO (organizzazione di difesa di cui fanno parte anche i turchi) e rinunciare a un importante alleato nella politica del Medio Oriente. Finora gli Stati Uniti sono riusciti a tenere in piedi entrambe le alleanze, ma con l’operazione militare ad Afrin le cose potrebbero cambiare e gli americani potrebbero doversi schierare in maniera netta da una parte o dall’altra.
Un altro paese importante ad Afrin è la Russia, che è alleata di Assad e mantiene rapporti non conflittuali con i curdi. Non è ancora troppo chiaro quale sia la posizione dei russi nel conflitto iniziato nel nord della Siria: il governo russo ha probabilmente dato una specie di via libera alla Turchia, anche perché in caso contrario gli aerei da guerra turchi si sarebbero scontrati con quelli russi, che controllano lo spazio aereo sopra Afrin. La Russia però non ha confermato: probabilmente perché non vuole compromette del tutto i suoi rapporti con i curdi, ma anche perché la Turchia è avversaria del regime di Assad, che invece è amico dei russi (e infatti qualche giorno fa il governo siriano aveva minacciato di abbattere gli aerei turchi, se fossero arrivati ad Afrin). Secondo alcuni analisti, la Russia potrebbe avere chiesto in cambio alla Turchia di chiudere un occhio sugli attacchi del regime di Assad nella provincia siriana di Idlib, controllata dai ribelli.
Non è chiaro quanto durerà l’operazione turca in Siria. Il presidente ha detto ieri ad Ankara che la Turchia non si fermerà finché «il lavoro non sarà finito». L’idea prevalente è che l’operazione si stia verificando nell’area di influenza russa, con il via libera dei russi e la non totale opposizione degli americani. Rimane il dubbio che la Turchia non si voglia fermare solo ad Afrin, e a quel punto le posizioni delle grandi potenze coinvolte in Siria potrebbe cambiare.
Nella città di Mosul continua la guerra. Le forze governative stanno riconquistando gran parte della città. Nel mese di gennaio l’esercito iracheno ha liberato i quartieri est e adesso l’offensiva si concentra nel riprendere allo stato islamico la parte sud e la parte ovest.
La crudeltà dello scontro ha obbligato migliaia di civili ad evacuare la città, alcune fonti parlano di circa 75 mila profughi che adesso vivono nel deserto in condizioni proibitive, vivono in tendopoli senza acqua, corrente e nessuna forma di servizi. Il governo Iracheno ha chiesto infatti un ulteriore aiuto alle Nazioni Unite per affrontare il dramma di questi profughi.
Inoltre, proprio dalle Nazioni Unite è stato segnalato che ci sono 12 civili in cura presso la Croce Rossa Internazionale che sembrano essere stati colpiti da armi chimiche nella parte est della città.
Il nord dell’Iraq sta dunque vivendo le atrocità della guerra combattuta e sembra che la guerra non abbia una durata breve, infatti lo stato islamico sta continuando a difendersi duramente, anche con tecnologie sofisticate che rendono lenta l’avanzata irachena.
Le donne potranno prendere la patente e guidare nel Regno a partire dal giugno 2018.
Secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa ufficiale saudita Saudi Press Agency (SPA), il re saudita Salman ha concesso alle donne il permesso di guidare, facendo cadere definitivamente un tabù storico, che, a livello internazionale, era diventato il simbolo dell’oppressione delle donne nel Regno Saudita. La misura dovrebbe anche contribuire all’economia del Paese, cioè dando più possibilità alle donne di contribuire al nuovo piano economico saudita dei prossimi anni, favorendo l’integrazione di genere che vada nella direzione di creare condizioni che permettano alle donne di ottenere un proprio posto di lavoro. Rappresenta altresì un passo in linea con il cambiamento che sta affrontando l’Arabia Saudita a livello economico, per rendersi indipendente dal petrolio, e di apertura verso i giovani, iniziata con la nomina alla carica di vice primo ministro del 31enne Mohammed bin Salman.
Si tratta di un cambio di paradigma e innanzitutto di un passo avanti, dopo che il 17 aprile 2017 il re Salman aveva concesso alcune attenuanti alle leggi sulla tutela maschile sulle donne, consentendo loro di avere accesso ai servizi governativi anche se non sono in possesso del permesso del tutore, a meno che questo non sia richiesto da regolamenti già esistenti. Il tutore, o wali, può essere il marito o un parente di sesso maschile.
Secondo la rivista italiana “sicurezza internazionale.luiss.it”, al di là della singola conquista, rimangono molte limitazioni che le donne saudite sono costrette ad affrontare ogni giorno. La riforma annunciata martedì 26 settembre 2017, non implica, infatti, che le donne in Arabia Saudita abbiano raggiunto la completa emancipazione dai vincoli imposti dal patriarcato. Nella società saudita, il potere, l’autorità e i beni materiali restano concentrati nelle mani dell’uomo più anziano e trasmessi per via maschile.
Vi sono almeno cinque comportamenti che le donne saudite non possono adottare. Il primo comportamento è costituito dall’indossare gli abiti che preferiscono. In pubblico, le donne saudite sono obbligate a indossare l’abaya, un vestito lungo e nero. Molte indossano il velo integrale. Nel luglio 2017, una modella è stata arrestata dalle autorità saudite per aver camminato in pubblico, indossando una minigonna.
Il secondo comportamento che le donne saudite non possono adottare è interagire con gli uomini. Le donne accedono agli edifici pubblici utilizzando entrate separate rispetto a quelle degli uomini, incluse le università, gli uffici e le banche.
Il terzo comportamento è viaggiare e sottoporsi ad alcuni trattamenti medici senza il permesso del tutore. In base alla legge della tutela maschile, introdotta nell’aprile 2017, alle donne non è consentito lasciare il Regno senza il consenso del proprio tutore.
Il quarto comportamento che non è concesso alle donne in Arabia Saudita è camminare liberamente in un luogo pubblico, essendo sempre oggetto delle attenzioni della polizia religiosa saudita, l’autorità che garantisce il rispetto dei principi della Sharia, la legge islamica. In Arabia Saudita, ha il compito di controllare che gli abiti e i comportamenti delle donne in pubblico siano conformi alla legge.
Il quinto comportamento che le donne non possono adottare è curare un paziente maschio. Al contrario, i medici uomini possono curare pazienti donne, se ottengono il consenso del loro tutore. Proprio a causa di tale vincolo, nel marzo 2002, 15 ragazze morirono intrappolate in un dormitorio perché la polizia religiosa negò il consenso ai pompieri uomini di salvarle dall’edificio in fiamme, dal momento che le giovani non indossavano l’abaya e non avevano il consenso dei propri tutori.
A un mese dalla conferenza di Palermo, nata coll’idea di dare un nuovo impulso al processo di stabilizzazione della Libia mediante un piano d’azione più concreto delle poche direttive concordate al vertice di Parigi, convocato dal premier francese Macron lo scorso Maggio, è ormai tempo di fare un bilancio dei risultati ottenuti e di ciò che ha rappresentato per gli attori politici sulla scena.
Lo stesso fatto che ci siano stati o meno dei risultati è stato più volte messo in dubbio nelle settimane successive alle due giornate del 12 e 13 Novembre, date della conferenza, e l’argomento è stato in molte occasioni motivo di scontro. E’ innegabile però che, almeno dal punto di vista della presenza, una certa rilevanza l’abbia avuta: trenta i Paesi presenti, di cui dieci coi propri capi di Stato e gli altri rappresentati da ministri e viceministri. D’altra parte, è anche necessario sottolineare l’assenza di numerosi leader mondiali che avevano fin dall’inizio sostenuto il progetto, tra cui spiccano il presidente USA Donald Trump, Macron e il presidente russo Putin. Notevole difficoltà è stata riscontrata anche nella gestione delle delegazioni libiche, essendo stato difficile mettere insieme i leader di fazioni in lotta da anni. A questo bisogna aggiungere l’incertezza riguardante la partecipazione al vertice dell’uomo forte della cirenaica, Khalifa Haftar, il potente generale appoggiato da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia e Russia che controlla la Cirenaica e l’Esercito nazionale libico: alla fine c’è stata, ma questi ha potuto sostanzialmente scegliere chi vedere bilateralmente, evitando invece di prendere parte a sedute plenarie. E’ avvenuta anche la tanto agognata stretta di mano tra lui e il capo del governo libico d’unità nazionale al Sarraj (sostenuto dalle Nazioni Unite) davanti al premier italiano Giuseppe Conte, che assicura che la conferenza non sia stata solamente una vetrina politica.
Se guardiamo ai contenuti del vertice, la diplomazia italiana pare aver comunque ottenuto alcuni risultati.
Innanzitutto un accordo sulla data delle elezioni politiche in Libia, spostate dal 10 Dicembre alla primavera del 2019. Inoltre l’Italia ha lavorato alla creazione di un consenso attorno a un nuovo percorso condiviso con le Nazioni Unite, senza imporre nuove condizioni o scadenze (linea d’azione che si è sempre rivelata controproducente). Il contributo di idee e indirizzo del nostro Paese si è manifestato principalmente nell’enfasi sulla necessità di ricostituire le istituzioni economico-finanziarie libiche e di coinvolgere maggiormente gli attori militari che hanno il controllo reale del terreno e di tutte quelle parti di paese che erano rimaste escluse precedentemente; da qui la convocazione a inizio 2019 di una conferenza nazionale. Ovviamente ciò va letto anche nell’ottica della volontà di tutelare gli interessi italiani sul suolo libico.
E’ necessario aggiungere che la posizione dell’Italia è mutata moltissimo nell’ultimo anno e nelle ultime settimane. In particolare, il governo Conte ha scelto di aprire più chiaramente al dialogo con il generale Haftar (nuovamente in Italia pochi giorni fa) col chiaro scopo di tutelarci in caso di una sua vittoria, anche se marginale, alle prossime elezioni politiche. Molti però hanno interpretato l’apertura italiana come una debolezza o una tacita ammissione dell’impossibilità di sostenere a lungo la propria strategia di supporto a Serraj e all’impegno delle Nazioni Unite nel paese. Il “permissivismo” italiano legato alla partecipazione di Haftar a Palermo ha spazientito la delegazione turca che ha voluto dare un segnale di dissenso abbandonando i lavori. Effettivamente Haftar è stato spesso causa di tensioni col suo comportamento: “Non parteciperemo alla conferenza neanche se durasse cento anni. Non ho nulla a che fare con questo evento”, aveva dichiarato a una tv libica, per poi arrivare a Palermo per ultimo. “Sono qui solo per incontrare il premier e dopo partirò immediatamente: vedo che ci sono tutti, ma non ho nulla a che fare con loro”. E, infatti, l’incontro con al Serraj è avvenuto quasi in privato dei lavori veri e propri, svoltisi senza la partecipazione del generale.
L’ultima nota dolente riguarda il tema immigrazione, che è stato pressoché ignorato, generando una profonda delusione nelle organizzazioni umanitarie.
A conti fatti, la conferenza di Palermo non è stata di certo un punto di svolta nella risoluzione della crisi libica. E’ anche vero che forse era illecito aspettarselo: dall’idea si è passati al concreto in tempi strettissimi, probabilmente troppo per l’organizzazione che invece sarebbe stata necessaria per portare al raggiungimento di risultati più incisivi. Inoltre è evidente che una soluzione definitiva non sarà mai raggiunta se non si riusciranno a coinvolgere nuovamente nella trattativa i grandi Paesi come gli Stati Uniti, che potrebbero svolgere una funzione di mediazione tra gli interessi, spesso divergenti, degli attori europei; sfortunatamente ad oggi sembrano molto lontani dal voler adempire a questo compito.
Ciò che è certo è che l’Italia al momento è la nazione più chiamata a ricoprire un ruolo fondamentale nella risoluzione di questo conflitto; il punto sta nel capire come, e nel guadagnare una credibilità internazionale sufficiente a convincere gli altri grandi della Terra a promuovere una linea politica (e non solo) che possa portare la Libia fuori da una terribile situazione che si trascina ormai da troppo tempo.
Il 2016 potrebbe vedere il crollo di un ponte tra Occidente e Oriente, costruito a partire dal 3 ottobre 2005, quando il Consiglio dell’Unione europea diede il via ai negoziati per l’adesione della Turchia. A undici anni di distanza quel progetto, coltivato con speranza e coraggio mentre gli Stati Uniti muovevano guerra a est, rischia di naufragare nei nazionalismi, negli appelli populisti, nella megalomania di leadership logorate dal tempo e dalla Storia, ucciso dall’embrione di una nuova Guerra fredda tra Usa e Russia. Il ricorso al plebiscito è tipico di questa fase, poiché consente alle leadership di scrollarsi di dosso responsabilità precise per caricarle sulle spalle dell’elettore chiamandoli a raccolto attorno alla difesa orgogliosa di una identità. “Aspetteremo massimo no alla ne dell’anno, poi sarà il popolo a decidere se vuole aspettare ancora per entrare in Europa”, ha detto Recep Tayyp Erdogan, lanciando un messaggio chiaro alle istituzioni europee che avevano sospeso il negoziato dopo l’arresto, avvenuto il 4 novembre scorso, di Selahattin Demirtas e altri esponenti del filocurdo “Partito democratico del popolo” (Hdp), una delle principali opposizioni parlamentari. La giornata in cui Ankara ricomincia a guardare decisamente a Oriente, e a trovare lì il sostegno che a Occidente non riceve, è il 15 luglio 2016. La notte del tentato colpo di Stato il presidente turco – bloccato in un resort a Marmaris, sulla costa – riceve la solidarietà immediata da Vladimir Putin mentre sia Barack Obama che i vertici di Bruxelles sembrano voler attendere l’esito dell’iniziativa golpista prima di esprimersi. Nei giorni seguenti Erdogan lavora al ristabilirsi di normali relazioni con il Cremlino, con cui aveva ingaggiato un braccio di ferro a causa dell’abbattimento di un jet russo a poca distanza da dal confine tra Turchia e Siria. Nei mesi successivi a quell’incidente Mosca aveva imposto sanzioni economiche alla Turchia e sospese la trattativa sul progetto Turkish Stream per la costruzione di un gasdotto che trasporti il metano russo in Europa attraverso l’Anatolia e il Mar Nero. La pace è stata siglata definitivamente il 10 ottobre scorso a Ankara, sulla scia del gas, con la firma di un accordo che ridà fiato geopolitico a una Turchia sempre meno vicina all’Europa. Tra la Turchia e la Russia, spiega Valeria Giannotta, accademica in Turchia e analista del centro italiano per il Medio Oriente (Cipmo), “permangono alcune ruggini relative alla crisi ucraina e a quella siriana, con quest’ultima che vede i due paesi contrapposti principalmente sul sostegno al presidente siriano, Bashar Assad, ma il picco della tensione è alle spalle: Ankara non avrebbe potuto mettere in sicurezza il lungo confine con la Siria senza il beneplacito russo”. Muti i vertici europei, Erdogan consolida i propri sospetti contro gli Stati Uniti, alleati nella Nato, che ospitano in Pennsylvanya colui che Ankara considera l’organizzatore del golpe: Fehtullah Gulen, capo di una setta islamista che con il presidente turco aveva computo un comune percorso politico prima di diventarne acerrimo nemico. La purga che comincerà immediatamente dopo il tentato golpe mette nel mirino i “gulenisti”, cioè gli uomini e le donne che Erdogan considera fedeli al predicatore e infedeli alla Turchia, identificata con se stesso in una megalomania sempre più travolgente. Il braccio di ferro, adesso e con soddisfazione di Putin, è con Washington, a cui viene presentata una richiesta di estradizione di Gulen e che l’amministrazione Obama non si sogna di prendere in considerazione, soprattutto in una fase di transizione che vedrà Donald Trump ereditare la patata bollente. “Un nuovo capitolo delle relazioni con Washington sarà aperto se sarà estradato Fehtullah Gulen”, ha detto il premier turco, Binali Yildirim, subito dopo l’elezione del magnate americano alla Casa Bianca, che sembra, da quel che è emerso durante la campagna elettorale, voler ristabilire quell’antico e invisibile muro tra Oriente e Occidente, quotidianamente scavalcato, però, da uomini e merci sull’onda della globalizzazione.
In questo quadro si inserisce la delusione definitiva di Ankara verso l’Europa: undici anni non sono bastati a Bruxelles per far fare un passo in avanti al negoziato. Sono stati aperti solo 16 capitoli negoziali su 33 e ne è stato chiuso solo uno. Si è trattato, spiega l’ex ambasciatore italiano in Turchia Carlo Marsili, in una analisi per il Cipmo, di “una sorta di “Trexit”, che lascia la Turchia fuori dall’Ue prima di esserci entrata: per inciso, la recente decisione del governo turco di dire addio all’ora solare (allineandosi quindi a Mosca e Teheran), per quanto motivata con il risparmio energetico, simbolizza il sempre maggiore distacco dall’Europa. In Turchia nessuno crede più seriamente all’adesione e probabilmente l’idea non interessa più. Le sue ambizioni sono diventate globali e per certi aspetti più orientali che occidentali”. E, probabilmente, la pace con Israele, che ha nominato oggi il primo ambasciatore dopo la ripresa dei contatti diplomatici tra i due paesi interrotti nel 2010 in seguito alla crisi causata dalla Freedom Flotilla, arriva a segnare un punto di svolta per una maggiore libertà di azione di Ankara nella regione mediorientale. Non è bastata dunque la promessa di 6,3 miliardi di dollari fatta dall’Ue ad Ankara affinché quest’ultima gestisse i flussi dei migranti senza alcun monitoraggio dal punto di vista dei diritti umani, secondo l’accusa delle ong internazionali- a dissipare i sospetti del Bosforo sull’inattendibilità della leadership europea. Nonostante quell’accordo “tenga nel mar Egeo”, come ha riconosciuto il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, non è arrivata la contropartita dei visti per l’area Schengen, la cui abolizione era attesa da Ankara per la ne di ottobre e della quale non si sa più nulla. Le purghe in atto, che sono andate ben al di là della ricerca dei “gulenisti”, non aiutano a restituire un clima di fiducia. L’Unione europea “ha preso alcuni impegni collegati all’evoluzione della situazione politica turca – ha ricordato Gentiloni – il meccanismo europeo di concessione dei visti è collegato a una serie numerosa di condizioni, ma quando si sentono discorsi sulla reintroduzione della pena di morte e si vedono operazioni come l’arresto dei leader dell’opposizione parlamentare, ci si domanda se in queste condizioni potranno essere rispettate o meno”. In ogni caso, ha ribadito il capo della Farnesina, “a chiudere la porta non saremo noi”. Il parlamento europeo ha approvato il 24 novembre 2016 a larga maggioranza una risoluzione che chiede la sospensione dei negoziati per l’adesione della Turchia alla Ue. Il documento, sostenuto da conservatori, socialisti, liberali e verdi, ha ottenuto il via libera con 479 voti a favore, 37 contrari e 107 astensioni. “Le misure repressive adottate dal governo turco nel quadro dello stato di emergenza – si afferma nel testo – sono sproporzionate, attentano ai diritti e alle libertà fondamentali sanciti nella costituzione turca e minacciano i valori democratici dell’Unione europea”. I negoziati per l’adesione di Ankara all’Ue sono cominciati nel 2005. La risoluzione approvata oggi non ha valore vincolante. A opporsi a una sospensione delle trattative sono stati finora sia la maggior parte degli Stati membri dell’Unione che Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue. Il ministero turco per gli Affari europei ha commentato con un comunicato: la votazione non ha effetti pratici, visto che è il Consiglio europeo l’unica istituzione a poter decidere la sospensione. “Anche se una decisione che suggerisce di sospendere i negoziati con la Turchia è presa dal Parlamento europeo – si legge nel comunicato – questa decisione non è vincolante da un punto di vista giuridico”. Ieri anche il presidente Recep Tayyip Erdogan si era espresso in proposito. “Lo dico in anticipo – diceva Erdogan – il voto non ha per noi alcun valore, qualunque sia il risultato”. Il presidente turco ha aggiunto che la votazione è una prova che l’Europa “prende le parti” delle organizzazioni terroristiche.
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“Io non sono né Huthi né sunnita, sono una bambina di 7 anni morta di fame.
Mi chiamo Amal Hussain e ho vissuto, con la mia famiglia, in un campo profughi in una città dello Yemen, di cui non so il nome. Sono stata in ospedale per tre giorni e sono dovuta andar via perché il mio posto serviva ad altri feriti di guerra, in condizioni peggiori delle mie. Io sono morta tre giorni dopo nella mia tenda. Ora mia mamma è preoccupata per i miei fratelli e non sa come poter sopravvivere.”
Abbiamo provato ad immaginare i pensieri di Amal, bambina denutrita morta nel 2018, diventata il simbolo della terribile guerra che sta devastando lo Yemen.
Lo Yemen è un paese coinvolto in una guerra civile da anni. Nel corso del ventesimo secolo questo paese ha vissuto la divisione tra un governo dinastico a nord ed uno democratico a sud. Nel 1960 il sud si è ribellato alla colonizzazione britannica ed è riuscito a creare un vero e proprio regime comunista di stampo marxista (unico in tutto il mondo arabo). L’unificazione tra la parte settentrionale e meridionale del paese è avvenuta nel 1990 (a seguito del cedimento del blocco sovietico) dopo molti tentativi iniziati negli anni ’70. È stata voluta dai paesi occidentali ma è avvenuta solo su carta.
Lo Yemen, infatti, continua ad essere diviso in tre regioni ben distinte, ognuna delle quali con un’identità ed una storia differenti. La parte occidentale è suddivisa ancora tra nord e sud mentre nella regione orientale, chiamata “Hadramawt”, si trovano Al-Qaida ed il gruppo estremista noto come ISIS.
Nel 2015 è nata, nel nord dello Yemen, la fazione Huthi che crede nella grandezza della religione islamica e vuole diffonderla. È formata da sciiti zayditi e una minoranza sunnita. Gli Huthi si ribellano al governo centrale di Hadi, presidente dello Yemen, cercando di mettere in atto un colpo di stato. Hadi è scappato da Sana’a (la capitale) ad Aden (città portuale nel sud dello Yemen) e poi in Arabia Saudita. Arabia Saudita e paesi del golfo come Giordania, Marocco, Egitto ed Sudan sono scesi in guerra contro gli Huthi, sostenuti invece dall’Iran.
Dal 2015 in poi lo Yemen sta vivendo una guerra civile che lo porterà, nel 2022, ad essere il paese più povero al mondo, con il 78% di popolazione al di sotto della soglia di povertà (Asianews, rapporto del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo).
Molte famiglie non hanno casa e soldi, vivono in campi profughi lontani da centri di aiuto umanitario. Sono spesso vittime di epidemie, l’ultima delle quali, il colera, ha ucciso 2000 persone in soli 3 mesi. L’Arabia Saudita ha chiuso anche i corridoi umanitari condannando così i civili a una morte certa.
Come Amal Hussain ogni giorno muoiono centinaia di bambini malnutriti, senza un’identità precisa, che faticano a trovare la “parte giusta” da cui stare. Spesso i bambini che possono ricevere un’istruzione sono educati alla guerra e imparano slogan come “Dio è grande, morte all’America, morte a Israele”.
In Occidente non si parla della guerra dello Yemen al punto che per noi è solo una guerra silenziosa o, al più, un’eco lontana. Abbiamo notizie di questa realtà solo dal 14 settembre 2019, quando un drone ha bombardato due città petrolifere dell’Arabia Saudita, facendo così impennare i prezzi del petrolio.
Il nostro paese, insieme alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti continua a fornire armi all’Arabia Saudita, contribuendo così ad una catastrofe inevitabile di morte e sofferenza.
Gli abitanti di questo paese, dimenticato da tutti, vivono costantemente in condizioni di disagio, senza diritti e senza sapere chi sono. Come possono riuscire a capire “da che parte stare”? Come possono crearsi un’identità personale? E tu che stai leggendo questo articolo, prova a chiudere gli occhi un secondo, immaginati di nascere in un paese come questo, da solo, in un mondo incomprensibile dove non sei libero di scegliere; come puoi costruirti una tua identità?
Non si può raccontare la guerra in poche parole, possiamo solo provare, anche se forse senza successo, a metterci nei panni delle famiglie e delle persone che ogni giorno affrontano fame, epidemie e bombe.

Negli ultimi anni abbiamo osservato un’Arabia Saudita con un atteggiamento bellicoso nei confronti dei ribelli yemeniti huthi. Potrebbe essere considerata come una delle motivazioni che hanno spinto l’Arabia Saudita ad essere più disposta verso astronomiche spese militari? Può essere una ragione plausibile, oltre alla security policy possiamo? Ad esempio, il New York Times (20/5/017) ha raccontato le intese commerciali da 350 milioni di dollari in 10 anni tra lo stato arabo e gli USA. Per Trump è stata ancora l’opportunità per il rafforzamento della relazione bilaterale fra i due paesi e un modo per ricevere la più alta onorificenza assegnata ai capi di stato non musulmani.
Insieme a Trump è arrivata un importante delegazione di uomini di affari di cui fanno parte tra gli altri amministratori delegati di giganti come Boeing, General Electric, Lockkheed. Per i sauditi lo scopo di questo incontro è potenziare l’apparato militare saudita, con un investimento di centinaia di miliardi di dollari.
Riyadh comprerà armi e sistemi di difesa dagli Usa per 110miliardi di dollari. L’ obiettivo è però ancora più ambizioso ed è quello di arrivare alla cifra record di 350 miliardo di dollari, con la americana Lockheed Martin che ha già pronto per lo Stato saudita un sistema missilistico
Il 27 Aprile 2017, su NENA NEWS (NEAR EAST NEWS AGENCY) è stato riportato l’ultimo rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), che rivela che i paesi arabi, inclusi quelli del Nord Africa, restano tra i principali acquirenti di bombe, aerei e carri armati. Nel caso dell’Arabia Saudita, era e resta il paese arabo che nel 2016 ha speso di più in armi. Inoltre Riyadh, impegnata militarmente contro i ribelli huthi (sciiti) in Yemen, in questa poco onorevole classifica si trova al quarto posto per le spese militari nel mondo, con un budget per la difesa di 62,7 miliardi di dollari.
La domanda che ci poniamo è: chi paga queste spese? Perché lo fanno se il ritorno economico è incerto? Come questo atteggiamento può influenzare l’equilibrio di forze nella regione? Si pagherà con il petrolio saudita? Oppure i contribuenti sauditi, considerando che l’Arabia Saudita sta vivendo tempi di grande cambiamento politico, economico e sociale, sia su piano interno che esterno. È probabile che soltanto il futuro potrà aiutarci a rispondere queste domande, osservando il resultato di finale di questi avvenimenti.
In questo periodo in cui mi tengo aggiornata sulla realtà del Libano, riesco a comprendere quanto sia difficile vivere in situazioni scomode , in situazioni difficili. In Italia la cultura, le tradizioni, le oppressioni alle volte vengono sottovalutate o anche non considerate come se ormai non importasse più tenerne di conto soprattutto per quanto riguarda la famiglia, i doveri o gli obblighi. Siamo un paese abbastanza libero di vivere la propria vita senza divieti e obbligazioni. Resto sconcertata e forse anche un po’ allibita di come in tantissimi paesi ancora il culto della tradizione venga rispettato in maniera estremamente rigida.
Il libano infatti è un paese che poggia la sua esistenza su tre colonne: la famiglia, la religione e la Nazione, pur di preservare l’onore e di non deludere o disonorare la famiglia si è capaci e disposti a vendersi.
Un evento importantissimo questo mese è stata l’abolizione dell’articolo 522 del codice penale che da una statistica dell’associazione Abaad per i diritti delle donne emerge che solo l’1% dei libanesi intervistati era a conoscenza dell’esistenza di questa legge.
Questa legge garantiva l’immunità agli stupratori che sposano le loro vittime, si basava sul permettere un matrimonio riparatorio a seguito di uno stupro.
Questo traguardo è stato visto come uno dei risultati che piano piano porterà finalmente al raggiungimento della parità giuridica tra uomo e donna. Manca soltanto che il Parlamento libanese renda effettiva l’abrogazione.
La situazione della donna in Libano non resta comunque facile, anche se può indossare abiti eleganti e scarpe con il tacco, guidare macchine o sottoporsi alla chirurgia plastica la sua libertà di essere donna non va oltre a questo. La donna libanese non ha diritti e ciò crea una profonda disuguaglianza nei confronti dell’uomo libanese. “la donna si trova quindi compressa in un sistema-nazione dove famiglia, legge e confessionalismi remano contro l’uguaglianza di genere”.
Come evidenzia l’articolo, “Libano: non è un paese per donne” di Davide Lemmi, “E’ un circolo vizioso: il paese-piramide è fondato sull’uomo, ogni tentativo di sovvertire il sistema da parte della donna è sentito come pericolo alle fondamenta della nazione. Il Libano è molte cose: i cocktail di Mar Mikhael convivono con la mancanza di diritti, gli abiti succinti condividono il futuro con la discriminazione.”
http://www.lindro.it/libano-non-e-un-paese-per-donne/
http://www.eastonline.eu/it/opinioni/open-doors/libano-articolo-522-matrimonio-immunita-stupro
Meghnia, in Algeria, e Oujda, in Marocco: a dividerle 40 chilometri di fossato, largo 7 metri, e una griglia.
La città algerina è l’ultima tappa per i migranti che hanno attraversato il deserto del Sahara, dopo aver affrontato numerosi gruppi di ribelli o passanti, pronti anche ad uccidere pur di guadagnare. Qui devono decidere se regolarizzarsi in Marocco, oppure proseguire verso l’Europa.
Nel primo caso è sufficiente pagare una “tassa” di 300 euro per accedere al “ghetto” subsahariano della città, per poi dover scappare sperando di non essere catturati dalle guardie o attaccati dai cani dei militari. Nel prezzo sono inclusi il viaggio per il Marocco e il passante, anche se la certezza di passare dall’altro lato non c’è, perché fino a quando non si riesce ad attraversare la griglia e il fossato, non è possibile sperare di arrivare.
Nel secondo caso, invece, il confine è controllato sia dalla guardia frontiera marocchina che da quella algerina. Il prezzo da pagare se si è catturati è prevalentemente fisico: bastonate, stupri, cadute libere nel fossato. Dopo l’attraversata del fossato largo 7 metri, deve esser scavalcata una barriera molto alta, e una volta dal lato marocchino, comincia la nuova fuga per 20 chilometri per raggiungere la città di Oujda: è necessario nascondersi di giorno e scappare in piena notte per evitare di essere catturati dai militari marocchini. Il tutto per una paga di 20 euro a tratta.
Per approfondimenti è disponibile una video-intervista di “Occhio della guerra”.
“In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra” (Is 19, 24).
È sempre attuale il pericolo di abituarsi al fatto che dall’altra parte del Mediterraneo ormai da più di sette decenni continua un conflitto senza fine. A causa della persistenza del conflitto israelo-palestinese questo è percepito da molti come uno sfondo della cronaca internazionale che a volte porta qualche notizia da prima pagina, però alla fine rimane soltanto uno sfondo. È perfino troppo facile dimenticare che il “Mare Nostrum” è davvero piccolo e che qualsiasi avvenimento su una piccola striscia di terra, da secoli ritenuta sacra dai discendenti spirituali della famiglia di Abramo, ha da sempre influenzato e continua ad influenzare la situazione generale nella regione.
Di fronte a questo contesto sono pochi quelli che riescono a penetrare la cortina dell’indifferenza generale verso il conflitto arabo-israeliano – un’indifferenza che si nasconde a volte dietro a tantissime iniziative politiche, pubblicazioni e discussioni che a parole mirano a porre fine alla guerra, però in realtà spesso non sono altro che pubblicità per singoli politici o giornalisti; a volte, paradossalmente, alibi per aggressività ed odio Una che ci è riuscita è Manuela Dviri, la mamma di un giovane soldato israeliano ucciso nel 1998 nel Libano. Dalla tormentosa esperienza della madre che ha perso il figlio – vittima di una guerra infinita – nasce il progetto “Saving Children”, nell’ambito del quale vengono salvati migliaia di bambini malati palestinesi che altrimenti non avrebbero avuto la possibilità di essere curati. Pur essendo attaccata su molti fronti, Manuela continua questo progetto, nonché tanti altri, che ha come scopo quello di dare inizio alla collaborazione tra i due popoli, partendo dalle esigenze di base e da cose molto semplici. Manuela non ha paura di scrivere della sua amicizia con donne arabe, che nel corso dell’Intifada del 2000 (la seconda Intifada) si sono trovate dall’altra parte delle barricate e che spesso sono state vittime delle stesse violenze e devono convivere con lo stesso dolore. Analizzando la situazione in Israele, ha più volte scritto e parlato della tragedia della “dolorosa rassegnazione” che porta al “costruire un muro e dimenticare chi c’è dall’altra parte”.
Si potrebbero citare numerosi altri esempi di organizzazioni e progetti che cercano di promuovere la reciproca conoscenza e la riconciliazione tra Israele e Palestina. Basti ricordare The Parents Circle Families Forum – un’organizzazione che riunisce le famiglie che hanno perso un membro nel corso del conflitto. Non è per niente facile tentare di stabilire questo tipo di dialogo. Però il dialogo, per quanto difficilissimo, non ha alternative.
Si potrebbe chiedere chi ha un’identità più salda e matura: un giovane che, avendo perso un parente, va a incontrare qualcuno che ha sofferto lo stesso dolore “dall’altra parte”, oppure un estremista pronto a uccidere persone innocenti pur di intimidire il presunto nemico? La madre inconsolabile che invece di chiudersi nell’immenso dolore si adopera per la promozione del dialogo oppure il politico che usa gli slogan radicali nel tentativo di ottenere popolarità? La risposta sembra ovvia, eppure la cattiva abitudine di paragonare le perdite delle parti rimane troppo forte, come se la sofferenza umana potesse essere calcolata e paragonata.
Non giova a nessuno fare i conti; è sempre vero, come diceva Dostoevskij, che niente al mondo vale una lacrima, anche una sola lacrima, di una bambina martoriata. Ciò non riguarda soltanto Israele e Palestina: troppo spesso anche noi in Occidente siamo pronti ad accettare pregiudizi ed opinioni stereotipati o semplificati su quel conflitto che rimane per molti una realtà incompresa, se non del tutto ignorata.
La guerra tra i figli della stessa famiglia abramitica, rimane una ferita sanguinante, addirittura nel cuore del Mediterraneo. Una piaga che non può essere curata se ognuno di noi non si accinge a chiedere “pace per Gerusalemme” (Sal. 122, 6) e a conoscere meglio quella realtà, per molti versi incredibilmente vicina alla nostra.

La guerra sta svolgendo al termine, siamo a un punto di svolta. L’esercito iracheno è a pochi metri dal centro di Mosul. Si avvicina la fine della sanguinosa guerra contro il gruppo Stato islamico (Is). Il capo della polizia federale ha annunciato che le forze irachene controllano il ponte di ferro sul fiume Tigri, e che si trovano ormai ad appena 800 metri dalla Grande moschea, il luogo dove il leader dell’Is Abu Bakr al Baghdadi fece la sua prima e ultima apparizione per proclamarsi califfo dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante.
Sorge dunque un grosso interrogativo su quello che sarà il futuro dell’Iraq. La nazione appare adesso in forte stato di debolezza, non è chiaro a nessuno quale saranno le posizioni adottate dagli uomini di potere che adesso sono tutti coalizzati contro il nemico comune, lo Stato Islamico. Inoltre, si teme che il cambio di presidenza negli Stati Uniti esponga l’Iraq ad un nuovo controllo politico manovrato dalla potenza americana, che potrebbe usare il controllo del paese per fare guerra all’Iran. Intanto, come riporta Internazionale “Il primo ministro Haider al Abadi è da poco tornato da un’importante visita negli Stati Uniti, dove ha incontrato il presidente Donald Trump e i suoi collaboratori. Non ha dichiarato nulla, ma sembra che Washington comincerà a fare pressioni sull’Iran dall’Iraq chiedendo una riduzione delle milizie sciite (sostenute da Teheran) dopo la fine della battaglia di Mosul.”
Sicuramente nei prossimi mesi l’Iraq si risveglierà dalla fine del conflitto con le ferite che lascia una guerra e con una situazione politica confusa e per niente chiara. Risolvere quest’incertezza, sarà il primo passo per una ricostruzione solida del paese.