
The people who have trusted us so far
Negli ultimi anni abbiamo osservato un’Arabia Saudita con un atteggiamento bellicoso nei confronti dei ribelli yemeniti huthi. Potrebbe essere considerata come una delle motivazioni che hanno spinto l’Arabia Saudita ad essere più disposta verso astronomiche spese militari? Può essere una ragione plausibile, oltre alla security policy possiamo? Ad esempio, il New York Times (20/5/017) ha raccontato le intese commerciali da 350 milioni di dollari in 10 anni tra lo stato arabo e gli USA. Per Trump è stata ancora l’opportunità per il rafforzamento della relazione bilaterale fra i due paesi e un modo per ricevere la più alta onorificenza assegnata ai capi di stato non musulmani.
Insieme a Trump è arrivata un importante delegazione di uomini di affari di cui fanno parte tra gli altri amministratori delegati di giganti come Boeing, General Electric, Lockkheed. Per i sauditi lo scopo di questo incontro è potenziare l’apparato militare saudita, con un investimento di centinaia di miliardi di dollari.
Riyadh comprerà armi e sistemi di difesa dagli Usa per 110miliardi di dollari. L’ obiettivo è però ancora più ambizioso ed è quello di arrivare alla cifra record di 350 miliardo di dollari, con la americana Lockheed Martin che ha già pronto per lo Stato saudita un sistema missilistico
Il 27 Aprile 2017, su NENA NEWS (NEAR EAST NEWS AGENCY) è stato riportato l’ultimo rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), che rivela che i paesi arabi, inclusi quelli del Nord Africa, restano tra i principali acquirenti di bombe, aerei e carri armati. Nel caso dell’Arabia Saudita, era e resta il paese arabo che nel 2016 ha speso di più in armi. Inoltre Riyadh, impegnata militarmente contro i ribelli huthi (sciiti) in Yemen, in questa poco onorevole classifica si trova al quarto posto per le spese militari nel mondo, con un budget per la difesa di 62,7 miliardi di dollari.
La domanda che ci poniamo è: chi paga queste spese? Perché lo fanno se il ritorno economico è incerto? Come questo atteggiamento può influenzare l’equilibrio di forze nella regione? Si pagherà con il petrolio saudita? Oppure i contribuenti sauditi, considerando che l’Arabia Saudita sta vivendo tempi di grande cambiamento politico, economico e sociale, sia su piano interno che esterno. È probabile che soltanto il futuro potrà aiutarci a rispondere queste domande, osservando il resultato di finale di questi avvenimenti.
A due anni dalla fine della guerra Israele e Hamas tornano a saggiare militarmente le loro posizioni.
Nella notte a cavallo del 26 e del 27 febbraio dalla Striscia di Gaza è stato lanciato un razzo verso l’area agricola del Neghev, a qualche ora dal lancio si ha la risposta di Israele: raid aerei su 5 obiettivi militari di Hamas e della Jihad islamica.
Il risultato dei raid, oltre alla distruzione degli obiettivi, è di 4 feriti, a quanto pare giovani inquadrati nelle forze militari di Hamas che presidiano la frontiera di Gaza.
Hamas ed Israele si accusano reciprocamente di essere la causa della progressiva escalation di violenza che si è verificata negli ultimi mesi, quello che è certo è che la situazione attuale ha contribuito a creare un profondo senso di angoscia sia tra la popolazione di Gaza sia tra le famiglie israeliane che vivono nelle vicinanze del confine.
Un senso di angoscia peggiorato sia dall’intensificarsi dei controlli aerei a bassa quota da parte del governo di Gaza, sia dai comunicati delle autorità israeliane che invitano la popolazione a tenersi lontani dai luoghi colpiti dagli attacchi visto il forte rischio della presenza di ordigni inesplosi.
Questa nuova ondata di attacchi fra le due nazioni potrebbe apparire in netto contrasto con le dichiarazioni di Netanyahu e Abu Mazen dal momento che entrambi si sono sempre detti disponibili sul trovare una soluzione pacifica al conflitto, anche se sistematicamente cercano alleati in direzioni diametralmente opposte, tuttavia va fatto notare che lo scorso 13 febbraio si sono tenute le elezioni interne al partito di Hamas, e il risultato più significativo è il rafforzamento del potere delle “Brigate Ezzedin al-Qassam”, il braccio armato di Hamas.
Questi episodi uniti ad alcuni aspetti della politica israeliana non fanno che accentuare il già forte malcontento, e sono di fatto la causa della forte preoccupazione della popolazione, sia palestinese che israeliana, per lo scoppio di un nuovo conflitto armato.
Quale immagine appare davanti ai nostri occhi se pensiamo all’Iraq? Guerra, violenza, milizie, crisi umanitarie, campi profughi – queste sono le immagini che i media ci offrono e attraverso le quali “conosciamo” il paese attualmente intrappolato in un conflitto le cui conseguenze sono ormai giunte ben oltre i suoi confini.
La mostra OVER MY EYES offre una prospettiva diversa e a noi non familiare dell’Iraq.
Attraverso gli occhi di una giovane generazione di fotografi locali, il progetto presenta frammenti meno frequentemente catturati di realtà che costituiscono la vita quotidiana del paese: dalla vastità dei confini montuosi settentrionali, a una serie di situazioni diverse in tutto il paese, con un flashback sbiadito della sua storia recente e delle conseguenze del conflitto in corso.
Con un accesso e una conoscenza senza precedenti dell’ambiente locale, i fotografi Aram Karim, Bnar Sardar, Hawre Khalid, Seivan M. Salim, Rawsht Twana, Twana Abdullah, Sebastian Meyer, Dario Bosio e Ali Arkady, ci avvicinano alla loro terra, alla sua gente, alle loro storie e ad una vita che va avanti nonostante la guerra.
Il titolo della mostra “OVER MY EYES”, scelto da Stefano Carini e Dario Bosio per il nuovo output di DARST (la piattaforma artistica con cui i due fondatori cercano di dare un nuovo senso e una nuova formula ai progetti di documentazione visiva) , deriva dalla traduzione del “Ser Chaw” curdo e dal “Ara 3iny” arabo, che sono entrambi usati per dire “sei il benvenuto”.
Entrambi reporter e photo editor, sono stati rispettivamente direttore e project manager di Metrography (la prima agenzia fotografica irachena) fin dall’arrivo dell’ISIS a Baghdad, quando il loro capo è stato rapito senza dare più notizie. Forti di questa decisiva esperienza sul campo, e avvalendosi dello sguardo privilegiato di una nuova generazione di autori locali e di un particolarissimo archivio fotografico, provano ora a esportare un’immagine dell’Iraq lontana da stereotipi e preconcetti, libera dalla gabbia delle news e complessa quanto nessuna organizzazione esterna potrebbe mai spiegare. Ospitata da DOX fino all’8 gennaio del prossimo anno, “Over My Eyes” non è solo un’articolatissima mostra ma anche un libro e una mappa multimediale online.

2015 – Mosul, Iraq: arabi e curdi nuotano nell’acqua alla diga di Mosul © ALI ARKADY / VII FOTO

Nayef Nawaf, 11 anni, è di Faloja, è entrato in orfanotrofio nel 2015. Quando l’ISIS è arrivato a Faloja, suo padre e sua madre sono morti. I suoi parenti si sono uniti all’ISIS ma è fuggito a Baghdad, vivendo come un senzatetto. Era abituato da una famiglia a lavorare per portargli dei soldi. Poi è fuggito e si è unito alla casa dell’orfanotrofio. Baghdad, Iraq. 3 agosto 2015 © ALI ARKADY / VII FOTO

2014 – Shabaddin, Iraq Kurdistan – Confine Iran-Iraq. Un gran numero di contrabbandieri attraversa il fiume Shabaddin, il confine tra Iraq e Iran. L’esercito iraniano osserva da lontano dopo aver ricevuto una piccola tassa per evitare di creare problemi.
© ARAM KARIM / DARSTPROJECTS

2015 – Tanjero, Iraq – Jamal (17 anni), uno Yazida sfollato di Sinjar, fuma tabacco aromatizzato da una piccola pipa di narghilè all’interno della cabina di servizio
© SEBASTIAN MEYER

Anni ’70 – Luogo sconosciuto, Iraq – paesaggio
TWANA ABDULLAH / DARSTPROJECT

2013 – Shlake, Kurdistan iracheno – Confine Iraq-Siria – I contrabbandieri siriani nelle 4 ore di cammino verso la Siria
© ARAM KARIM / DARSTPROJECTS

Anni ’70 – Ranya, Iraq – Gli amici del fotografo camminano per le strade al tramonto
TWANA ABDULLAH / DARSTPROJECTS

1970s – Qaladze, Iraq – Una partita di calcio
TWANA ABDULLAH / DARSTPROJECTS

1978 – Qaladze, Iraq – Ritratto di un vicino
TWANA ABDULLAH / DARSTPROJECTS

1980 – Qaladze, Iraq – Un contadino porta l’erba per nutrire i suoi animali
TWANA ABDULLAH / DARSTPROJECTS

1980 – Kalar, Iraq – I turisti visitano le rovine della cittadella di Sherwana fuori dalla città di Kala
TWANA ABDULLAH / DARSTPROJECTS

2009 – Villaggio di Sune, Kurdistan iracheno, confine tra Iraq e Iran – Una famiglia del villaggio si prepara per un picnic
© ARAM KARIM / DARSTPROJECTS

1980s – Qaladze, Iraq – Ritratti presi nello studio del fotografo
TWANA ABDULLAH / DARSTPROJECT

2015, Zakho, Iraq – Jihan 20 anni
Da Sinon, zona Sinjar
SEIVAN M. SALIM / DARSTPROJECT

2015 – Kirkuk, Iraq – Una vista del campo IDP di Laylan durante la notte. Il campo di Laylan si trova a 20 km a sud di Kirkuk. L’UNHCR e il comune di Kirkuk hanno costruito il campo con circa 1500 tende. Circa 8450 persone vivono nel campo
© HAWRE KHALID / DARSTPROJECTS
Nessuna sorpresa dai risultati delle elezioni parlamentari che si sono svolte il 4 Maggio in Algeria.
Primo partito, anche se in calo di consensi, si è confermato il Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) del presidente Abdelaziz Bouteflika, costretto su una sedia rotelle dal 2013, quando un ictus ha limitato la sua mobilità e capacità di parola (vedi http://www.operalapira.it/algeria-1/).
L’Fln ha conquistato 164 seggi su 462. Al secondo posto, con 97 seggi, il Raduno Nazionale per la Democrazia (Rnd), che molto probabilmente formera col Fln una coalizione di governo.
Molto bassa l’affluenza intorno al 38,2%. Gli elettori sono stati poco più di 8,5 milioni su un totale di 23,2 milioni di aventi diritto. Lo scarso interesse per le elezioni è dovuto alle difficoltà economiche del Paese legate al calo dei prezzi degli idrocarburi, dai quali il bilancio statale algerino dipende per il 60%. Per rispondere all’emergenza il governo ha adottato misure di austerità come il blocco di vari progetti di infrastrutture e nuove tasse.
L’isola di Cipro è attraversata da una crisi politica e sociale molto particolare, le cui motivazioni sono radicate nel tempo e nelle generazioni. Nei secoli, il territorio è passato di mano in mano, dalla divisione dell’Impero Romano, che l’ha lasciato in mano bizantina, da cui la presenza greca, fino al dominio ottomano tra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo, al quale invece si deve la presenza turca, per poi finire sotto il controllo inglese. Questo è un contesto di cui non si sente spesso parlare in Italia, nonostante la sua importanza geostrategica e il complesso rapporto presente tra le sue due “anime” contrapposte. La presenza di una doppia etnia (78% greca, 18% turca) ha fatto sì che si creasse una condizione politica particolare, vissuta spesso in sordina tra avvenimenti che hanno visto casi di pulizia etnica, fratture internazionali evitate all’ultimo momento e minacce militari delinearsi e a volte concretizzarsi con violenza (cfr. questo documento).
Cipro è la terza isola del mar Mediterraneo per estensione. Il 59% della sua superficie si trova sotto il controllo della Repubblica di Cipro, mentre la zona turco-cipriota a nord copre circa il 36% del territorio; il 5% è ancora sotto il controllo inglese. Per comprendere meglio la situazione attuale che caratterizza l’isola di Cipro è necessario tornare all’origine di quella che viene definita la “questione di Cipro”.
Nel 1960 l’isola raggiunse l’indipendenza dalla potenza coloniale britannica. L’accordo coinvolgeva Turchia, Grecia e Regno Unito e prevedeva la collaborazione tra la comunità turca e la comunità greca, che coabitavano nella stessa realtà, affiancando a un presidente greco-cipriota un vicepresidente turco-cipriota. Le frizioni tra le due etnie hanno portato, negli anni, alla formazione di due visioni contrapposte: quella dei greco-ciprioti di “ènosis”, ossia la riunificazione con la Grecia, e quella dei turco-ciprioti di “taksim”, che indica la separazione in due entità statali distinte. Queste tensioni sfociarono nel 1974 in un colpo di stato per mano della potenza greca, al quale seguì la risposta della Turchia, che inviò soldati dall’Anatolia nella parte nord dell’isola, tutt’oggi occupata. Le forze armate turche, dunque, sbarcarono per impedire la conquista e l’annessione alla Grecia e per tutelare i concittadini presenti sull’isola. Così nel 1979 la Turchia proclamò la nascita dello “Stato federato turco-cipriota”, attuale Repubblica turca di Cipro del Nord, riconosciuta a livello internazionale come stato a tutti gli effetti solo dalla Turchia. Tutti gli altri paesi membri delle Nazioni Unite non l’hanno riconosciuta, poiché è nata con l’uso della forza armata e della minaccia, violando il diritto internazionale. Al contrario, la Repubblica di Cipro (del Sud) è riconosciuta a livello internazionale e fa parte dell’Ue, oltre che del Commonwealth.
Le continue difficoltà nell’individuazione di un accordo hanno presentato un ostacolo potenziale all’entrata di Cipro nell’Unione europea, a cui il governo si era applicato dal 1997. Nel dicembre 2002, l’UE ha invitato formalmente Cipro ad associarsi dal 2004, insistendo che la partecipazione alla UE si sarebbe applicata all’isola intera, sperando che ciò fornisse un incentivo significativo per la riunificazione. Un piano delle Nazioni Unite promosso dal segretario generale Kofi Annan è stato sottoposto a entrambi i lati in referendum separati il 24 aprile 2004. Il lato greco in modo schiacciante ha rifiutato il programma di Annan (75,8% voti contrari) ed il lato turco ha votato in favore (64,9% voti favorevoli). La motivazione preponderante contro l’unificazione addotta da parte del lato greco è stata che il programma di Annan non prevedeva né il ritorno di tutti i rifugiati greco-ciprioti nelle loro case, né il rinvio in Turchia di tutti i coloni turchi, né il ritiro di tutte le truppe turche di occupazione, né la smilitarizzazione dell’isola. Nel valutare il risultato è interessante notare che mentre ai coloni turchi è stato permesso di votare, i rifugiati che erano fuggiti da Cipro non hanno avuto diritto di votare in un referendum che infine avrebbe determinato il loro futuro. Nel maggio 2004, Cipro è entrata nell’UE, anche se in pratica ciò si applica soltanto alla parte sud dell’isola.
Ad oggi, la situazione è in stallo e gli equilibri politici interni sono sempre delicati. L’ONU continua a lasciare sull’isola forza militare di mantenimento della pace, i militari presidiano stabilmente la “Linea Verde”, ovvero quell’area di circa 350 km2 che divide il nord turco e il sud greco, tagliando in due anche la capitale Nicosia. Tuttavia, dall’aprile del 2003 è possibile attraversare questa linea di separazione e nel 2008 è stato aperto il primo passaggio nel centro storico della capitale, in Ledra Street.
Un aspetto davvero importante riguardo la questione cipriota è la disomogeneità che caratterizza le due parti in cui l’isola si trova ad essere divisa.
Dopo la crisi degli anni ‘60, seguita alla secessione turca, l’economia cipriota ha vissuto un periodo di forte espansione, soprattutto nella parte greco-cipriota, grazie in primis al settore del turismo.
Tuttavia, la ricchezza non si è distribuita in modo omogeneo: la vita nella parte greca dell’isola risulta essere molto più agevole e vantaggiosa, rispetto a quanto accade invece nella parte nord (ad esempio i greco–ciprioti hanno un reddito pro capite annuo pari a 13.500 $ contro i 3.300 $ dei turco-ciprioti).
Un altro aspetto importante è il fatto che secondo i greco-ciprioti, il regime turco, nell’area occupata, sta deliberatamente e metodicamente sradicando ogni traccia dei 9.000 anni di cultura. Tanto per fare alcuni esempi, tutti i nomi greci delle località sono stati sostituiti con nomi turchi e le chiese, i monumenti, i cimiteri sono stati distrutti o dissacrati.
Come se non bastasse è in corso la costruzione di una barriera fisica atta a fermare i migranti siriani e afgani che si spostano dal nord dell’isola verso il sud (come si legge qui). Questo inasprisce ancora di più i rapporti tra le due fazioni, in un contesto che negli ultimi anni ha visto l’Europa esternalizzare i propri confini tramite diversi accordi con paesi come Libia e Turchia.
Dopo aver analizzato l’importante situazione ancora in corso che si trova dietro quest’isola, fatta di predominanze e conflitti riportiamo le parole del Papa, il quale guarda in alto alla ricerca della “migliore politica”, invitando a lavorare per il bene comune di ogni membro presente sulla terra, senza privilegi o esclusioni.
Nel paragrafo 154 dell’Enciclica “Fratelli tutti” spiega:
“Per rendere possibile lo sviluppo della comunità mondiale […] è necessaria la migliore politica posta al servizio del vero bene comune. […] Dio ha dato la Terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno […] la società mondiale non è il risultato della somma dei vari paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi, è la reciproca inclusione”.
La storia di Cipro ci racconta di una terra sempre in balia delle potenze continentali, e di un popolo che si trova ad essere oggetto di contese che lo deprivano di una vera identità, e della possibilità di essere padrone di sé stesso.

Il 29 novembre è stato dichiarato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite la “Giornata internazionale della solidarietà con il popolo palestinese”. Ogni anno tale evento ricorda come il conflitto fra Israele e Palestina, cominciato nel 1967 con l’occupazione israeliana dei territori palestinesi della Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza, dopo 50 anni sia ancora fortemente irrisolto.
Le tensioni fra i due Paesi sono aumentate nuovamente dalla fine di Marzo 2018 quando sono stati lanciati 500 missili dalle milizie palestinesi di Hamas nel sud di Israele che ha risposto con 150 raid delle forze armate nella striscia di Gaza e con la “Grande marcia del ritorno” indetta da Hamas che ha provocato 62 morti e 3000 feriti. Tali cifre vanno ad aggiornare il conto salatissimo di questo conflitto: 3000 vittime palestinesi e 100 israeliane negli ultimi otto anni. Da marzo a metà dicembre lo scenario non è mutato; sono ormai all’ordine del giorno nuovi morti e lanci di missili e blitz armati dalla e verso la Striscia di Gaza, luogo di un conflitto che si sta trasformando in una vera e propria (nuova) guerra, situazione che ha spinto il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ad approvare una risoluzione che prevede l’istituzione di una commissione internazionale indipendente con il compito di indagare sulle violenze commesse a Gaza. Israele e Palestina si stanno infatti muovendo verso una “conclusione ad uno Stato di perpetua occupazione” che sancirebbe la negazione dei diritti inalienabili dell’uomo sanciti dall’Assemblea Generale per il popolo “occupato”, quali il diritto di autodeterminazione dei popoli, il diritto alla sovranità nazionale e il diritto di tornare alle proprietà abbandonate. Per questo motivo le Nazioni Unite hanno ricordato il 29 novembre la necessità di risolvere il conflitto con la cosiddetta “soluzione a due Stati” che si basa sulla pacifica e armoniosa convivenza di due nazioni riconosciute con confini definiti e sicuri, con Gerusalemme capitale di entrambi. Questa risoluzione è condivisa da numerosi attori della comunità internazionale in aggiunta all’Onu tra cui il Papa e l’ex segretario di Stato americano John Kerry che significativamente si era astenuto sul voto alla risoluzione dei nuovi insediamenti israeliani a Gerusalemme Est del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, si ricordi che gli Usa riconoscono ufficialmente Gerusalemme come capitale d’Israele oltre che ad essere due nazioni “amiche”. La posizione delle Nazioni Unite non è tuttavia nuova anzi, si potrebbe dire che sia stata all’origine delle tensioni fra Israele, Palestina e il mondo arabo. Infatti bisogna risalire alla data fondamentale del 29 novembre 1947 quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per risolvere le diatribe fra arabi ed ebrei, ha approvato la risoluzione n. 181 che prevedeva il piano della spartizione della Palestina in due stati indipendenti, uno ebraico e l’altro arabo: i risultati ottenuti rispecchiano la situazione attuale. Gli eventi che ne sono invero derivati – la proclamazione del moderno Stato d’Israele nel 14 maggio 1948, il rifiuto di tale risoluzione dalla totalità dei rappresentanti palestinesi e di numerosi stati arabi, i continui conflitti arabo-israeliani fino a quello odierno – hanno di fatto dimostrato l’inattuabilità di questa (non) soluzione: la migliore per tutti gli attori internazionali in quanto promuove la pace e principi di solidarietà, tranne che per Israele e Palestina.
Il 14 novembre del 2017 è stata rilasciata dalla CNN un’inchiesta sul mercato di esseri umani in Libia.
L’inchiesta ha riportato l’attenzione del mondo su un problema purtroppo già noto: quello delle violenze compiute sui migranti che attraverso la Libia tentano di arrivare in Europa.
Il video girato con uno smartphone mostrava la vendita all’asta di un uomo per 400 dollari. Un nigeriano di circa 25 anni descritto dal “battitore dell’asta” come un “ragazzo grosso e forte adatto per il lavoro in fattoria”. La giornalista della CNN, Nima Elbagir, ha assistito – durante le sue indagini in Libia – alla vendita di oltre una decina di persone, avvenuta in un edificio dismesso nelle vicinanze di Tripoli, capitale della Libia. Ciò che maggiormente ha sconvolto la giornalista non sono le molte testimonianze di uomini venduti all’asta e poi finiti nei centri di detenzione, ma l’indifferenza che circonda il perpetuarsi della disumana vendita di esseri umani. Le testimonianze raccolte dalla CNN sono state consegnate alle autorità libiche, le quali hanno dichiarato che inizieranno un’indagine per trovare i responsabili. Nasr Hazan, dell’agenzia libica che si occupa dell’immigrazione illegale e che ha sede a Tripoli, ha detto di sapere della presenza di diversi gruppi di trafficanti di esseri umani che agiscono nel paese, ma ha aggiunto di non avere mai assistito a un’asta per la vendita di schiavi.
La violenza sui migranti è un problema ben conosciuto ai paesi membri dell’Ue, così come dalle altre nazioni e dalle organizzazioni umanitarie che da tempo, attraverso i loro rapporti, raccontano le terribili condizioni dei centri di detenzione libici sparsi principalmente lungo le coste, luogo di prigionia per centinai di migranti.
Nel trattare la questione dei maltrattamenti sui migranti, non possiamo non citare il ruolo svolto dall’Italia. Difatti gli accordi stipulati dal governo italiano con alcune milizie libiche hanno lo scopo di arginare la partenza dei migranti dalla Libia verso l’Italia e l’Europa. Ma la campagna contro l’azione delle navi di soccorso delle ong nel Mediterraneo ha avuto l’effetto di lasciare sempre più persone alla mercé dei trafficanti libici.
Tali accordi sono stati valutati molto negativamente dall’Alto commissariato per i diritti umani dell’ONU. Il commissario Reid Raad al Hussein, ha addirittura definito “disumana” la collaborazione tra Unione Europea e Libia per la gestione dei flussi migratori dall’Africa.
In Libia le milizie armate hanno riempito il vuoto di potere che si è creato dalla caduta del regime di Gheddafi e il paese da cinque anni è senza un governo stabile. Oltre agli apparati statali “ufficiali”, molte zono sono controllate direttamente da milizie. Alcuni servizi sono gestiti direttamente da queste forze politiche e militari: tra questi, ad esempio, ci sono i centri di detenzione in cui stazionano i migranti che tentano di salpare dalla Libia verso i paesi europei.
L’Italia – come riportato dagli osservatori internazionali – ha stretto i propri accordi non solo con il governo riconosciuto ma anche direttamente con le milizie, ritenute partner poco affidabili. La collaborazione tra l’Italia e la Libia, tra le altre cose, prevede anche la fornitura di aiuti umanitari: nella situazione attuale questi aiuti (generi di prima necessità, kit medici) vengono distribuiti a soggetti – come la milizia Al Ammu – che ha avuto un’implicazione diretta nella gestione dei flussi migratori. Inoltre, non è ben chiaro se gli accordi tra il Governo e le attuali autorità libiche preveda anche forniture di armi.
Secondo un rapporto Unicef del febbraio 2017 in Libia vengono sistematicamente violati ogni giorno i diritti umani. Le violenze avvengono ai check point che i migranti devono superare per tentare di raggiungere le coste libiche, o più spesso nei centri di detenzione. Fino ad oggi ne sono stati individuati 34, all’interno dei quali sono detenute tra le 4mila e le 7mila persone. Di questi, 24 sono gestiti dal dipartimento del governo libico che si occupa dell’immigrazione illegale. Gli osservatori Unicef affermano di aver visitato alcuni di questi centri, ma nessuno di quelli gestiti direttamente dalle milizie.
È stato riconosciuto che le violazioni di diritti sono gravi e trasversali: sia per i migranti “in viaggio” che per quelli detenuti si parla di riduzione in schiavitù o limitazioni delle libertà personali e di violenze, anche sessuali. Questi crimini riguardano in modo indistinto uomini, donne e bambini: ¬-stando al rapporto Unicef, dei 181mila migranti arrivati in Italia nel 2016 usando la rotta del Mediterraneo centrale, 28mila erano minori, circa il 16 per cento del totale; di questi, il 90 per cento erano minori non accompagnati, un numero due volte più grande rispetto a quello registrato nel 2015.
Da segnalare che uno dei punti degli accordi stretti tra il governo italiano e le autorità libiche prevede proprio il miglioramento delle condizioni di vita nei centri di detenzione. Tra gli altri aspetti salienti c’è quello della formazione della marina libica, un lavoro che viene svolto in modo congiunto da vari paesi dell’area UE.
Il 18 marzo 2016 i 28 leader europei hanno trovato un accordo con la Turchia sul piano per la gestione dell’arrivo dei migranti sulle coste greche. Dopo l’approvazione dell’allora premier turco Ahmet Davutoğlu, l’accordo ha ricevuto il via libera finale. Cosa prevede tale accordo?
1. Respingimento dei migranti in Turchia.
I migranti e i profughi sulla rotta balcanica, siriani compresi, vengono rimandati in Turchia se non presentano domanda d’asilo presso le autorità greche. Per rispettare le leggi internazionali, i migranti vengono “registrati senza indugi e le richieste d’asilo sono esaminate individualmente dalle autorità greche”. Chi non vuole essere registrato e chi vede respinta la sua domanda torna in Turchia. Secondo il piano, era una “misura temporanea e straordinaria, necessaria per porre fine alle sofferenze umane e ripristinare l’ordine pubblico”. È stata stabilita una data di ingresso dei profughi in Grecia, il 20 marzo 2016, che è servita per decidere chi avrebbe avuto il diritto di restare e chi invece sarebbe stato riportato in Turchia. L’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) assiste i respingimenti, in base a una clausola del trattato. Tutti i costi sono coperti dall’Unione europea. L’Unione inoltre “accetta l’impegno di Ankara che i migranti tornati in Turchia verranno protetti in base agli standard internazionali”.
2. Canali umanitari.
Per ogni profugo siriano che viene rimandato in Turchia dalle isole greche un altro siriano viene trasferito dalla Turchia all’Unione europea attraverso dei canali umanitari. Donne e bambini hanno la precedenza in base ai “criteri di vulnerabilità stabiliti dall’Onu”. La priorità è assicurata anche a coloro che non sono già stati deportati dalla Grecia. L’Europa mette a disposizione 18mila posti già concordati per accogliere i profughi dei canali umanitari. Rimane in piedi inoltre il piano di ricollocamento dei richiedenti asilo dall’Italia e dalla Grecia, che finora non è mai decollato.
3. Liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi.
La Turchia chiede anche la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi a partire dal 1 giugno 2016. Entro ottobre 2016 sarebbe potuto non essere più necessario per i turchi chiedere un visto per entrare nell’Unione europea. A patto che fossero state rispettate tutte le condizioni richieste dall’Unione europea. Nella pratica è stato quasi impossibile per Ankara soddisfare le 72 richieste avanzate da Bruxelles in tempi brevi.
4. Aiuti economici alla Turchia.
L’Unione europea ha deciso di accelerare il versamento di tre miliardi di euro di aiuti alla Turchia, già approvati nel vertice di novembre 2015, per la gestione dei campi profughi. Inoltre l’Unione si impegna a mobilitare “fino a un massimo di altri tre miliardi entro fine 2018”, ma solo dopo che i primi tre miliardi fossero stati spesi.
5. L’adesione della Turchia all’Unione europea.
L’Unione europea “si prepara a decidere l’apertura di nuovi capitoli” sull’adesione della Turchia all’Unione europea ferma da tempo, “non appena possibile”.
A un anno dall’accordo tra Unione europea e Turchia sui migranti, Bruxelles stava facendo di tutto per non rimetterlo in discussione, nonostante avesse provocato una situazione umanitaria disastrosa in Grecia e nei Balcani. La Turchia, invece, minacciò di rivedere i termini dell’accordo. Il 13 marzo 2017 – nel pieno di una crisi diplomatica con diversi paesi dell’Unione europea, tra cui i Paesi Bassi e la Germania – il ministro per gli affari europei di Ankara, Ömer Çelik, ha affermato che la Turchia avrebbe dovuto rimettere in discussione la clausola “sul transito via terra” dei migranti.
Tuttavia, con un referendum costituzionale alle porte (16 aprile 2017), la minaccia terroristica e l’instabilità interna, sembrava improbabile che Ankara passasse dalle minacce ai fatti riaprendo la frontiera con la Siria o spingendo i 2,9 milioni di profughi siriani che vivono sul suo territorio a mettersi in viaggio verso l’Europa.
Da quando l’Unione europea ha concesso alla Turchia i tre miliardi di euro per fermare l’arrivo dei migranti sulle coste greche, il numero delle persone che hanno affrontato la traversata dell’Egeo si è ridotto a 1.500 nel gennaio del 2017 (nello stesso periodo del 2016 erano state 70mila). I motivi, come spiega Patrick Kingsley sul New York Times, sono diversi.
In primo luogo la Turchia ha chiuso le frontiere ai profughi siriani: se nel 2015 ai cittadini siriani non serviva il visto per entrare nel paese, ora non è più così. Inoltre il confine tra Siria e Turchia è più controllato che in passato per il timore che gruppi terroristici attivi nella guerra siriana possano organizzare attentati oltre il confine. Ankara, infatti, dall’agosto del 2016 è in guerra contro il gruppo Stato Islamico in Siria e contro le milizie curdosiriane (Unità di protezione popolare, Ypg), considerate un gruppo terroristico dai turchi.
D’altronde, anche se i profughi avessero dovuto rimettersi in viaggio dalla Turchia verso l’Europa, beneficiando di una maggiore tolleranza del governo turco, avrebbero trovato una situazione completamente diversa rispetto ad un anno prima. L’accordo prevedeva infatti che i profughi arrivati in Grecia dalla Turchia dopo il 20 marzo del 2016 fossero rinchiusi negli hotspot sulle isole di Samo, Lesbo e Chio in attesa di essere identificati ed eventualmente rimandati in Turchia. Nell’aprile del 2016 la Grecia ha riformato la legge sull’asilo per permettere la detenzione amministrativa dei migranti irregolari in attesa che la loro domanda d’asilo sia valutata dai funzionari dell’agenzia europea per l’asilo (Easo).
I funzionari europei devono stabilire caso per caso se il richiedente asilo può essere rimandato in Turchia senza correre rischi per la sua incolumità. Amnesty International in un rapporto ha denunciato che alcuni profughi siriani sarebbero stati respinti alla frontiera nell’ottobre del 2016 senza che gli sia stata data la possibilità di chiedere asilo in Grecia, infrangendo il diritto internazionale sui respingimenti.
Alcune deportazioni dalla Grecia alla Turchia sono state bloccate dai ricorsi alla corte d’appello, che ha bocciato le decisioni dei funzionari dell’Easo valutando che la Turchia non fosse un paese sicuro per rimandare indietro i profughi. Molti migranti, dopo mesi di attesa hanno fatto domanda per essere rimpatriati volontariamente nei loro paesi d’origine.
Secondo le autorità greche, nel marzo del 2017 in Grecia 14.371 persone erano trattenute negli hotspot sulle isole in condizioni disumane, ben oltre la capienza complessiva dei campi che sarebbe di 7.450 posti. Sulla terraferma circa 50mila persone (soprattutto siriani, afgani e iracheni) vivevano da mesi nei campi profughi in attesa che la richiesta d’asilo, di ricollocamento o di ricongiungimento familiare fosse esaminata dalle autorità. “In questo contesto dobbiamo considerare che la Commissione europea ha chiesto ai paesi membri di riprendere i trasferimenti verso la Grecia dei profughi che sono riusciti ad arrivare in altri paesi d’Europa in base al regolamento di Dublino. I trasferimenti erano stati sospesi nel 2011 perché il sistema di accoglienza greco era stato giudicato carente dalla stessa Commissione, ma riprenderanno a metà marzo [2017, ndr], in una situazione sul campo in Grecia che è folle”, spiega la giornalista e scrittrice Daniela Padoan dell’associazione Diritti e frontiere.
Dalla Grecia sono stati spostati in altri paesi europei fino al 2017 solo 9.610 profughi dei 160mila previsti dal programma di ricollocamento dell’Agenda europea sull’immigrazione del maggio del 2015. Per questo molti profughi continuano a mettersi in viaggio lungo la rotta balcanica affidandosi a passeurs e trafficanti. Ma sulla loro strada trovano recinzioni, filo spinato e guardie di frontiera a bloccarli con arresti, minacce e violenze. Nell’ultimo anno 25mila persone hanno percorso questa rotta, affrontando pericoli, difficoltà e umiliazioni. E rischiando la vita. Nel primo anno, almeno 140 persone sono morte sulla rotta balcanica o nella traversata dell’Egeo.
Due anni fa, subito dopo l’accordo, l’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere (Msf) dichiarò che non avrebbe più accettato finanziamenti dall’Unione europea, perché voleva denunciare la disumanità e il cinismo delle politiche europee sull’immigrazione. A un anno di distanza, Msf rinnovò la sua denuncia in un rapporto in cui sottolinea le conseguenze delle politiche europee sulla vita e sulla salute di migliaia di persone, in particolare in Grecia e in Serbia.
Oggi, a due anni dalla firma dell’accordo l’Unione europea rivendica: “L’accordo con la Turchia è efficacie”, e ancora “Un vero successo, il nostro intervento ha cambiato la vita di oltre 1 milione di rifugiati, l’Ue è riuscita e sta riuscendo ad accogliere i rifugiati, a rispondere ai loro bisogni quotidiani di base, a provvedere alle cure mediche e a permettere che i bambini continuino ad andare a scuola, così da evitare il pericolo che la piccola generazione di immigrati sia perduta” (Christos Stylianides, commissario per gli Aiuti umanitari, 9 marzo 2018).
Queste parole arrivano mentre 13mila richiedenti asilo ancora intrappolati nelle isole e nel frattempo la Spagna propone a Frontex un accordo Ue-Marocco che sembra la brutta copia di quello turco.
Fonte: Internazionale
Continua incessantemente la guerra in Iraq, continua senza fermarsi un secondo e con la classica brutalità che caratterizza ogni guerra. Nel mese di dicembre l’esercito iracheno ha proseguito l’assedio alla città di Mosul, concentrando l’attacco nella parte Est della città, lo stato Islamico ha risposto difendendo duramente i punti strategici e rendendo durissima l’avanzata delle forze irachene. Allo stesso tempo nel mese di dicembre l’Isis ha organizzato svariati attacchi bomba a Baghdad uccidendo decine di civili.
La tensione resta massima, si teme che il conflitto duri ancora alcuni mesi e che molti civili decano di scappare dalle zone più colpite.
Di seguito un report sulla situazione aggiornata al 18 gennaio 2017 del quotidiano “La Stampa”:
“Il capo delle forze anti-terrorismo, le unità d’élite dell’esercito iracheno, generale Talib al-Sheghati ha annunciato la liberazione della “sponda sinistra” di Mosul, cioè la parte a Est del fiume Tigri della capitale del Califfato in Iraq.
L’annuncio arriva a tre mesi dall’inizio dell’offensiva. Nella battaglia sulla sponda Est sarebbero stati uccisi, secondo il comando iracheno, 3300 combattenti dell’Isis, circa un terzo del contingente che difendeva l’intera zona di Mosul. Le perdite irachene sarebbero fra i 1000 e 2000 morti, ma non ci sono dati ufficiali.
I jihadisti si stanno fortificando a Ovest del fiume dove ci sarà l’ultima resistenza, anche perché l’Intelligence irachena ora ritiene che Al-Baghdadi sia ancora in città e ha scarsissime possibilità di sfuggire all’assedio. Tutte le principali vie di fuga verso la Siria sono state tagliate.”
Durante la settimana, mentre sfoglio le notizie che riguardano la Siria, sono sempre più tempestata da violente immagini di morte e di distruzione e il mio sguardo rigetta quelle pagine di articoli in cui, riga dopo riga, i numeri di decaduti e dispersi aumenta tanto da poter definire Aleppo come “un gigantesco cimitero”. Poi la mia attenzione è caduta su questa testata “ Gli Angeli della Siria” che mi ha portato a scoprire quale sia il vero significato della Misericordia. Con questo appellativo si fa riferimento a tutti quei medici, infermieri, giornalisti e altre persone comuni mosse dall’amore verso il prossimo che continuamente rischiamo la propria vita sia per salvare innocenti vite negli ospedali da campo che per poter rendere il mondo consapevole dei massacri che ogni giorno i cittadini siriani sono costretti a subire. Il giornalista Asmae Dechan racconta la storia della giovane infermiera Maha, l’esperto medico Abdullah, la ginecologa Alya e il giornalista Mazen. Sono nomi che a noi lettori non dicono niente ma dietro i quali in realtà si celano uomini e donne che di nascosto cambiano e salvano la vita di molte persone. Le loro giornate sono una continua sfida contro la sorte quando continuamente attraversano il confine fra Siria e Turchia per portare nel paese in guerra medicine, materiale sanitario o altri beni di prima necessità o per tentare di far recapitare ai colleghi siriani fotocamere o droni di ultima generazione per documentare gli orrori a cui sono sottomessi. Questi eroi vengono definiti medici e giornalisti “frontalieri”, dei “contrabbandieri che non si fanno pagare” ma che continuamente sono costretti a nascondersi e sfuggire dai cecchini o dalle forze armate per paura di essere intercettati, seguiti e poi uccisi come è successo al medico Firas mentre rientrava ad Aleppo. Mi ha particolarmente colpita la testimonianza del giornalista Mazen il quale afferma che “non è vero che ci si fa l’abitudine alla clandestinità. Muoversi come se fossimo dei ladri o dei criminali e sentirci fuori legge non è piacevole. In una società civile chi dà voce agli oppressi come facciamo noi giornalisti e chi soccorre vite umane come fanno i medici, dovrebbe essere considerato una persona nobile d’animo. Nella Siria di al Assad non è così”. Ebbene, sono proprio questi eroi clandestini che trascorrono la loro vita nella penombra che mettono in luce il volto umano della guerra, quello spiraglio di speranza che fa capire a noi che siamo lontani che dopo tutto laggiù c’è anche chi combatte senza armi e la cui bontà d’animo risuona nei cuori di chi salvano con un’intensità assai più potente di una bomba.
Il turismo in Tunisia comprende attrazioni che vanno dalla sua città cosmopolita nonché capitale Tunisi alle antiche rovine di Cartagine, i tradizionali quartieri musulmano ed ebraico di Jerba, ed infine località costiere al di fuori di Monastir (Tunisia). Secondo il New York Times, la Tunisia è “nota per le sue spiagge dorate, il tempo soleggiato e i lussi a prezzi accessibili Secondo il giornalista Garrett Nagle, autore del libro “Advanced Geography” l’industria turistica tunisina trae benefici “dalla sua posizione mediterranea e dalla sua tradizione vacanziera in pacchetti low cost con partenze da tutta l’Europa occidentale”[2]. Lo sviluppo del turismo risale agli anni ’60 del XX secolo, grazie agli sforzi congiunti di governo e gruppi privati; nel 1962, il turismo, con 52.000 entrate e 4.000 posti letto, ha avuto un fatturato di due milioni di dollari ed è diventato la principale fonte di valuta estera nel paese. Tuttavia, non è generalmente meta di turisti americani, che non si fidano più molto delle destinazioni del Medio Oriente dal momento in cui si son verificati gli attentati dell’11 settembre 2001.
Fino a poco tempo fa l’attrazione principale della Tunisia era costituita dalla sua costa nord-est, tutt’attorno intorno a Tunisi; tuttavia, il 7º piano di sviluppo nazionale datato 1989 ha creato diverse nuove aree turistiche, tra cui il villaggio di Port El-Kantaoui. Il settore del turismo rappresenta oggi il 6,5% del Prodotto interno lordo (PIL) della Tunisia ed offre 340.000 posti di lavoro, di cui 85.000 sono posti di lavoro diretti, coprendo l’11.5% della popolazione attiva, con una quota elevata di lavoro stagionale. Francia, Germania, Italia e Regno Unito sono i quattro mercati turistici tradizionali del paese, anche se la Tunisia ha perso circa 500.000 turisti provenienti dalla Germania dopo l’11 settembre. Dal 2003-2004 ha riguadagnato porzioni di turisti, e nel 2007 ha visto gli arrivi in aumento del 3% circa rispetto a quelli dell’anno precedente.
Il turismo in Tunisia ha subito duri colpi dopo l’attentato al museo nazionale del Bardo e l’attentato di Susa del 2015. Oggi Tunisia punta su 7 milioni visitatori nel 2017 Il ministro del Turismo tunisino, Selma Elloumi Rekik :
Se non avremo problemi di sicurezza potremmo accogliere 7 milioni di turisti stranieri nel 2017, per arrivare a 10 milioni entro il 2020. E’ quanto ha affermato il ministro del Turismo tunisino, Selma Elloumi Rekik, alla radio locale Mosaique Fm snocciolando una serie di dati positivi relativi alla ripresa del settore e alle prospettive del post Conferenza per gli investimenti “Tunisia 2020”. In quell’occasione infatti numerose catene alberghiere si sono impegnate a tornare in Tunisia e a farne una base per il loro business. Tunisia 2020 secondo il ministro ha saputo rilanciare l’immagine della Tunisia con conseguenze positive per il turismo.
Nell’ultimo mese stiamo assistendo ad una forte presa di posizione della Turchia che riguarda la guerra in Siria, in particolare a Nord-Est, territorio al centro della zona dove abita la gran parte dell’etnia curda. Non è un mistero infatti che al presidente turco non vadano a genio i curdi, specialmente quando si mettono in testa di voler far politica, tanto che il Pkk è passato dall’essere un partito all’essere un gruppo di terroristi fuori legge. Riportiamo qui di seguito la testimonianza di un giornalista italiano fermato al confine tra Turchia ed Iraq (da poco nel nord dell’Iraq si è tenuto un referendum, seppur non riconosciuto, per l’indipendenza del Kurdistan iracheno).
“«Siamo dell’antiterrorismo, dobbiamo farle alcune domande, da questa parte prego». Inizia così un controllo subito venerdì scorso da chi scrive, alla frontiera tra Turchia e Kurdistan iracheno, di rientro in Italia dopo una decina di giorni a Erbil. Che il passaggio su questo tratto di confine fosse laborioso già si sapeva, ma nel caso in questione è parso chiaro che c’era qualcosa di insolito. Insolito perché dopo essermi visto negare il timbro di ingresso dall’operatore turco, sono stato accompagnato in una struttura poco lontana, dove ha avuto inizio qualcosa di molto simile a un interrogatorio.
Le domande si sono susseguite per circa 90 minuti. Non è normale, almeno da queste parti non mi era mai accaduto. Così come non era ancora accaduto di trovarmi a rispondere a quattro giovani agenti dell’antiterrorismo, ostinati a chiedere dove avessi «incontrato i membri del Pkk?», poi ancora se avevo «conosciuto persone ostili alla Turchia?», «di quali temi ti occupi principalmente… le tue posizioni politiche?», «hai incontrato qualcuno dell’Isis?» e così via, a lungo, con un’intensità crescente. Il tutto gestito dal gruppo dei quattro, assieme, per poi ricominciare dall’inizio, con le stesse domande poste singolarmente, a turno, aggiungendo la pretesa di visionare le immagini salvate nel telefono, le chiamate effettuate, le foto salvate nella reflex, i contatti di cittadini arabi… quindi la consegna del registratore audio per scaricare i contenuti… infine i bagagli. Il tutto alternato da improbabili telefonate «all’ufficio di Ankara» per conferme sulla veridicità delle mie risposte.
Nulla di estremo nell’atteggiamento degli agenti, sia chiaro, e alla fine la realtà dei fatti è stata una sola: tutti i documenti erano in regola e comprensibili, a partire da quel foglio con su scritto “assignment” e dal tesserino da giornalista. Dopo un’ora e mezza di torchio, i quattro capiscono e mi congedano «ci scusiamo ma è il nostro lavoro, è stato aumentato il livello di allerta per intercettare terroristi in fuga». Ammesso in Turchia dunque, portando con me un solo dubbio, in merito a quell’ultima frase: «intercettare terroristi in fuga». In fuga da cosa? Perché proprio in quel momento è stato aumentato il livello di sicurezza? Conoscenti transitati sulla stessa via pochi giorni prima non avevano avuto alcun problema. Il motivo dell’inasprimento dei controlli l’ho compreso il giorno seguente, dopo essere atterrato a Venezia.
Il tutto si è verificato poche ore prima dell’inizio dei bombardamenti aerei nell’enclave curda di Afrin, sul confine turco-siriano, cui è seguito l’attacco di terra. L’operazione avviata da Ankara e chiamata “Ramo d’Ulivo” era attesa da tempo, e punta a ridurre l’area sotto il controllo del Ypg, la milizia curda legata al partito Pyd, componente maggioritaria delle Syrian Democratic Forces (Sdf), principali alleati siriani degli Stati Uniti nella guerra allo Stato Islamico. All’avvio dell’operazione, annunciata da tempo da Erdoğan, mancava una motivazione valida. Questa è giunta il 13 gennaio, quando gli Stati Uniti hanno dichiarato di voler creare una “forza di sicurezza al confine” da 30mila uomini, metà dei quali appartenenti alle Sdf.
Dunque ancora la frontiera turca, dove dal 2011 a oggi sono transitati milioni di uomini, donne e bambini, siriani e iracheni, in fuga da alcuni dei conflitti più cruenti del nostro tempo. Sono stati loro ad alimentare l’esodo che abbiamo imparato a conoscere. Il più massiccio dall’epoca della Seconda guerra mondiale. Una marcia per la salvezza diretta in Europa, passata attraverso i sottoscala di Smirne a cucire giubbotti di salvataggio. Un giorno dopo l’altro con il capo chino, bambini inclusi, per accantonare quanto basta a soddisfare i passeur e proseguire il viaggio tra i flutti dell’Egeo, poi nel fitto di colonne arenate nel fango balcanico. Alla fine per molti è arrivata l’Europa, con le sue promesse disattese e una democrazia ingabbiata tra muri e contraddizioni.
Ecco che i confini, incluso quello turco-iracheno, sono ora il luogo in cui intercettare eventuali «sostenitori dei terroristi» del Ypg (queste le parole usate dagli agenti), formazione considerata da Ankara un continuum del Pkk. Perquisizioni e interrogatori il metodo per smascherarli. Domande simili o quasi sono toccate ad altri colleghi, nelle ore o nei giorni seguenti. L’ho riscontrato spulciando in rete. Alcune delle loro testimonianze hanno trovato spazio nei canali opportuni, sui social, per condividere l’accaduto e magari informare quanti si stanno avvicinando alla Turchia meridionale. Proposito che condividiamo con questo post, augurandoci che per qualcuno possa essere un buon viatico.” (Emanuele Confortin, 28 Gennaio 2018)
Alla luce di questi fatti si potrebbe dire che nel Nord della Siria sia iniziata una nuova guerra. Sabato 20 gennaio soldati turchi e combattenti dell’Esercito libero siriano – coalizione di gruppi ribelli che per anni ha cercato di destituire il presidente Bashar al Assad – hanno cominciato un’operazione militare contro i curdi dell’Unità di protezione popolare (Ypg) nella zona di Afrin, nel nord-ovest della Siria. Il governo turco ha iniziato l’offensiva dopo che gli Stati Uniti avevano annunciato di voler aiutare i curdi – loro alleati nella guerra contro lo Stato Islamico – a dotarsi di una specie di guardia di frontiera per evitare l’infiltrazione dei terroristi nel loro territorio. La Turchia però aveva interpretato la mossa come un tentativo di rafforzare lo stato curdo, una cosa ritenuta inaccettabile, e aveva agito di conseguenza.
Finora le operazioni militari turche si sono limitate a obiettivi attorno ad Afrin, che si trova a 40 chilometri a nord di Aleppo e a circa 120 chilometri a ovest della principale area controllata dai curdi in Siria. Non è chiaro quanto territorio abbiano già conquistato i turchi e l’Esercito libero siriano, ma sembra che le operazioni stiano andando a rilento.
L’operazione militare ad Afrin sta provocando diverse tensioni tra paesi e gruppi presenti nel nord della Siria. Anzitutto sta creando molti problemi agli Stati Uniti, che sono alleati sia dei curdi siriani che della Turchia. Per il governo americano è indispensabile mantenere buoni rapporti con i curdi, che si sono dimostrati il suo alleato più prezioso nella guerra contro lo Stato Islamico; allo stesso tempo, rovinare le relazioni con la Turchia vorrebbe dire creare un problema enorme nella NATO (organizzazione di difesa di cui fanno parte anche i turchi) e rinunciare a un importante alleato nella politica del Medio Oriente. Finora gli Stati Uniti sono riusciti a tenere in piedi entrambe le alleanze, ma con l’operazione militare ad Afrin le cose potrebbero cambiare e gli americani potrebbero doversi schierare in maniera netta da una parte o dall’altra.
Un altro paese importante ad Afrin è la Russia, che è alleata di Assad e mantiene rapporti non conflittuali con i curdi. Non è ancora troppo chiaro quale sia la posizione dei russi nel conflitto iniziato nel nord della Siria: il governo russo ha probabilmente dato una specie di via libera alla Turchia, anche perché in caso contrario gli aerei da guerra turchi si sarebbero scontrati con quelli russi, che controllano lo spazio aereo sopra Afrin. La Russia però non ha confermato: probabilmente perché non vuole compromette del tutto i suoi rapporti con i curdi, ma anche perché la Turchia è avversaria del regime di Assad, che invece è amico dei russi (e infatti qualche giorno fa il governo siriano aveva minacciato di abbattere gli aerei turchi, se fossero arrivati ad Afrin). Secondo alcuni analisti, la Russia potrebbe avere chiesto in cambio alla Turchia di chiudere un occhio sugli attacchi del regime di Assad nella provincia siriana di Idlib, controllata dai ribelli.
Non è chiaro quanto durerà l’operazione turca in Siria. Il presidente ha detto ieri ad Ankara che la Turchia non si fermerà finché «il lavoro non sarà finito». L’idea prevalente è che l’operazione si stia verificando nell’area di influenza russa, con il via libera dei russi e la non totale opposizione degli americani. Rimane il dubbio che la Turchia non si voglia fermare solo ad Afrin, e a quel punto le posizioni delle grandi potenze coinvolte in Siria potrebbe cambiare.