The people who have trusted us so far
Conoscere i Balcani significa scoprire un pezzo di Europa che troppo spesso viene considerato lontano ed estraneo, nonostante la vicinanza geografica. Il termine “Balcani”, non particolarmente apprezzato dalle popolazioni locali, deriva dalla lingua turca e in origine indicava genericamente una catena montuosa. Oggigiorno, con il termine Balcani si fa riferimento ad una regione situata ai margini sud orientali del continente europeo, area che da molti decenni è stata spesso caratterizzata da fenomeni di grave crisi ed instabilità sociale e politica. Da sempre infatti la regione è stata teatro di rivolte, scontri e sanguinose guerre tra gli Stati e tra le diverse comunità che vi abitano al loro interno, anche in periodi molto recenti.
Questa regione resta una parte emarginata dell’Europa, sulla quale non viene riposta abbastanza attenzione.
Nei secoli passati, l’area è stata dominata dai turchi ottomani, grazie ai quali le numerose culture presenti coesistevano tra di loro in un clima di stabilità, che ha iniziato tuttavia a vacillare con la caduta dell’Impero e con la conseguente conquista dell’autonomia dei Paesi che ne facevano parte.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, è nato il termine “balcanizzazione”, che si riferiva alla frammentazione dei territori imposta dalle potenze europee trascurando la composizione etnica dell’area.
Elemento che certamente accumula i vari gruppi etnici sono le lingue. Infatti, sebbene le lingue balcaniche derivino da famiglie linguistiche differenti, gli influssi storici della cultura greca e la dominazione turca hanno rappresentato un importante fattore di avvicinamento e di influenza per le varie lingue.
Per “penisola balcanica” oggi si intende l’insieme dei seguenti Stati: Grecia, parte della Turchia (la Tracia orientale), Bulgaria, Romania, Moldavia, le sei ex Repubbliche Jugoslave (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord), Albania e Kosovo.
Non essendo possibile analizzare nel dettaglio tutti gli Stati, verranno trattati soltanto alcuni di essi.
Recentemente, al centro dei dibattiti vi è principalmente il Kosovo. Quest’ultimo è uno dei più piccoli e recenti Stati della regione ed ha una storia molto travagliata. Dopo essersi autoproclamato indipendente dallo Stato serbo nel 1990, Belgrado reagì immediatamente con il pugno di ferro, attraverso attentati, episodi di pulizia etnico-religiosa e atti diretti alla repressione del movimento indipendentista kosovaro (UCK, cioè Ushtria Çlirimtare e Kosovës). Ciò vanificò la dichiarazione di indipendenza del Kosovo.
Nonostante vari tentativi di mettersi al tavolo delle trattative sotto la supervisione delle maggiori potenze mondiali, la situazione non si placò e nel 1999 la NATO inviò 50.000 soldati per assicurare stabilità e sicurezza alla regione, in attesa di un compromesso tra le parti.
Il processo di transizione apertosi allora non è ancora giunto a compimento: tutt’oggi vige il complesso sistema di amministrazione provvisoria dell’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), che assegna ampi poteri a un rappresentante speciale nominato dalle Nazioni Unite, tra le cui prerogative vi è quella di scegliere i giudici e di porre il veto sulle disposizioni di legge adottate dal governo. Sotto la supervisione del Rappresentante Speciale, operano le istituzioni provvisorie di presidenza, Governo e Assemblea parlamentare. Al termine di quasi un decennio di mediazioni fallite, nel febbraio 2008 ilParlamento kosovaro ha deciso di proclamare unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia. Alla scontata reazione di Belgrado (e, immediatamente dopo, di Mosca, sua storica alleata) ha fatto seguito quella della regione settentrionale del Kosovo, a maggioranza serba, che ha proclamato l’istituzione di un Parlamento parallelo, consolidando la propria posizione di semi-autonomia da Priština.
La situazione attuale in Kosovo si inserisce in un contesto già complesso politicamente, sia sul piano interno, che su quello internazionale che di fatto mina l’integrazione tra i Paesi.
In primo luogo, i Balcani risentono di influenze diverse: la Slovenia e la Croazia da sempre appartengono all’orbita occidentale, facendo le stesse parte anche dell’Unione europea, mentre il resto dei Paesi della regione storicamente oscilla tra la sfera d’influenza occidentale e quella russo-turca.
L’Albania e la Macedonia, ad esempio, stanno attuando delle riforme con l’obiettivo di entrare nell’Unione europea.
Tutt’altra linea segue il Montenegro, il quale tende ad avvicinarsi a ideali filo-russi e filo-serbi. Come conseguenza, il Paese non riconosce il Kosovo e il suo processo di adesione all’UE è andato in stallo.
La Serbia invece, in quanto Paese candidato, dovrebbe cercare di allinearsi alla politica estera dell’UE, ma è ancora lontana dal farlo. Disattendere tale aspettativa è una delle conseguenze di una complessa situazione geopolitica del Paese, fortemente diviso tra Est e Ovest, tra la vicinanza politica, culturale e religiosa con Mosca e il desiderio di accedere ai benefici che derivano dall’appartenenza all’Unione europea. Allo stesso modo la Bosnia ed Erzegovina sta cercando di entrare nell’Unione, nonostante si mantenga neutrale e non condanni l’azione militare russa.
I rapporti con l’Unione Europea e gli altri Stati esteri
Storicamente, i Paesi balcanici hanno sempre avuto un ruolo chiave negli scontri tra le varie potenze europee. Con la perdita di centralità del vecchio continente, la preoccupante situazione demografica ed una economia instabile, la regione ha perso la sua storica importanza strategica e ad oggi riveste solo uno scenario secondario, comunque importante, per i contrasti informali tra le potenze odierne.
L’UE è il gigante più vicino: costituisce il maggior partner economico per i Paesi, dominando le importazioni e le esportazioni, stanziando fondi e programmando investimenti, non riuscendo tuttavia a trasformare questo dominio economico in un’influenza politica concreta. Infatti, nonostante Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina siano candidati all’ingresso nell’UE, il processo si è rallentato, principalmente a causa delle varie ingerenze degli Stati membri (ad esempio, solo 22 membri su 27 riconoscono il Kosovo). Ciò alimenta un clima di sfiducia verso l’UE nei Paesi balcanici, rinforzato dalle difficoltà che questa incontra anche sulla gestione di altre questioni; il sogno di un’Europa unita passa decisamente in secondo piano, mentre cresce sempre più la necessità di azioni politiche concrete.
Oltreoceano, gli USA rappresentano i garanti della sicurezza nella regione; tutti i Paesi, ad eccezione della Serbia, hanno un legame più o meno esplicito con la NATO. Essi tendono a non interferire direttamente nelle vicende politiche, se non quando vengono “oltrepassati” certi limiti; in questo caso Washington agisce con prepotenza per ripristinare la situazione.
L’altro grande gigante del Novecento, la Russia, gode di uno storico legame con Belgrado e con le comunità ortodosse della regione. Essa cerca di interferire nella politica facendosi forte delle classi dirigenziali opposte al binomio USA-UE. A livello economico, essa possiede il predominio energetico, controllando i principali gasdotti della regione. Un altro storico partner, la Turchia, è invece il faro delle comunità islamiche, attratte dal suo modello di islam politico e con le quali essa cerca di intrecciare rapporti diplomatici. Nei recenti anni questi due storici partner hanno diversificato i loro rapporti, cercando anche realtà diverse e ottenendo risultati alterni.
Tale scenario lascia aperte molte opportunità di collaborazione e investimento per le potenze mondiali. Un Paese che ha saputo cogliere il potenziale dei Balcani è stata la Cina; entrata nell’area per la via economica, si muove principalmente costruendo rapporti informali con le classi dirigenziali, finanziando e promuovendo la costruzione di numerose infrastrutture nella regione, e, specialmente in Serbia, ha rafforzato la sua popolarità in seguito agli aiuti stanziati per la gestione della pandemia.
Ad oggi, i Balcani rimangono una regione fortemente instabile e tormentata, in costante balìa delle influenze occidentali e orientali, in cui anche i rapporti interni sono complessi. Risulta dunque difficile stabilire come si potrà evolvere questo scenario, ma con buona probabilità saranno le azioni delle grandi potenze ad avere un ruolo chiave nel futuro economico e politico della regione. Una possibile stabilizzazione della situazione si potrà avere solo quando i Paesi balcanici saranno in grado di far risuonare la propria voce e autodeterminarsi. Fondamentale sarà in particolare la capacità di dialogo con le potenze mondiali e di adeguamento agli standard previsti dall’Unione europea, al fine di un futuro ingresso.
Bibliografia e sitografia
Bonifati Lidia, Conoscere i Balcani: in essi c’è la nostra storia, in Lo Spiegone, 11 settembre 2017, https://lospiegone.com/2017/09/11/conoscere-i-balcani-in-essi-ce-la-nostra-storia/
De Munter André, I Balcani occidentali, Parlamento Europeo, aprile 2023, https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/168/i-balcani-occidentali
Fruscione Giorgio, Balcani: se l’Occidente sbaglia approccio sul dossier kosovaro, Istituto per gli Studi di politica internazionale, 6 settembre 2023, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/balcani-se-loccidente-sbaglia-approccio-sul-dossier-kosovaro-139711
Petrovic Nadan, Balcani: il retaggio storico, la crisi post-Covid e la sfida dell’allargamento, Centro Studi di Politica Internazionale, 6 luglio 2020, https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/dibattiti/la-ue-i-balcani-la-scommessa-dellallargamento/balcani-il-retaggio-storico
La storia dei Balcani, in Il labirinto del Kosovo, a cura di Laurana Lajolo, 28 giugno 1999, https://www.italia-liberazione.it/novecento/antecedenti.html
Penisola Balcanica, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/penisola-balcanica/
Balcani, Dizionario di Storia, 2010, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/balcani_(Dizionario-di-Storia)/
Kosovo, in Atlante Geopolitico, 2015, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/kosovo_(Atlante-Geopolitico)/
La tormentata storia dei Balcani, Istituto Italiano Edizioni Atlas, 2019, https://youtu.be/J03HVfhKghY
Continua incessantemente la guerra in Iraq, continua senza fermarsi un secondo e con la classica brutalità che caratterizza ogni guerra. Nel mese di dicembre l’esercito iracheno ha proseguito l’assedio alla città di Mosul, concentrando l’attacco nella parte Est della città, lo stato Islamico ha risposto difendendo duramente i punti strategici e rendendo durissima l’avanzata delle forze irachene. Allo stesso tempo nel mese di dicembre l’Isis ha organizzato svariati attacchi bomba a Baghdad uccidendo decine di civili.
La tensione resta massima, si teme che il conflitto duri ancora alcuni mesi e che molti civili decano di scappare dalle zone più colpite.
Di seguito un report sulla situazione aggiornata al 18 gennaio 2017 del quotidiano “La Stampa”:
“Il capo delle forze anti-terrorismo, le unità d’élite dell’esercito iracheno, generale Talib al-Sheghati ha annunciato la liberazione della “sponda sinistra” di Mosul, cioè la parte a Est del fiume Tigri della capitale del Califfato in Iraq.
L’annuncio arriva a tre mesi dall’inizio dell’offensiva. Nella battaglia sulla sponda Est sarebbero stati uccisi, secondo il comando iracheno, 3300 combattenti dell’Isis, circa un terzo del contingente che difendeva l’intera zona di Mosul. Le perdite irachene sarebbero fra i 1000 e 2000 morti, ma non ci sono dati ufficiali.
I jihadisti si stanno fortificando a Ovest del fiume dove ci sarà l’ultima resistenza, anche perché l’Intelligence irachena ora ritiene che Al-Baghdadi sia ancora in città e ha scarsissime possibilità di sfuggire all’assedio. Tutte le principali vie di fuga verso la Siria sono state tagliate.”
Il 18 marzo 2016 i 28 leader europei hanno trovato un accordo con la Turchia sul piano per la gestione dell’arrivo dei migranti sulle coste greche. Dopo l’approvazione dell’allora premier turco Ahmet Davutoğlu, l’accordo ha ricevuto il via libera finale. Cosa prevede tale accordo?
1. Respingimento dei migranti in Turchia.
I migranti e i profughi sulla rotta balcanica, siriani compresi, vengono rimandati in Turchia se non presentano domanda d’asilo presso le autorità greche. Per rispettare le leggi internazionali, i migranti vengono “registrati senza indugi e le richieste d’asilo sono esaminate individualmente dalle autorità greche”. Chi non vuole essere registrato e chi vede respinta la sua domanda torna in Turchia. Secondo il piano, era una “misura temporanea e straordinaria, necessaria per porre fine alle sofferenze umane e ripristinare l’ordine pubblico”. È stata stabilita una data di ingresso dei profughi in Grecia, il 20 marzo 2016, che è servita per decidere chi avrebbe avuto il diritto di restare e chi invece sarebbe stato riportato in Turchia. L’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) assiste i respingimenti, in base a una clausola del trattato. Tutti i costi sono coperti dall’Unione europea. L’Unione inoltre “accetta l’impegno di Ankara che i migranti tornati in Turchia verranno protetti in base agli standard internazionali”.
2. Canali umanitari.
Per ogni profugo siriano che viene rimandato in Turchia dalle isole greche un altro siriano viene trasferito dalla Turchia all’Unione europea attraverso dei canali umanitari. Donne e bambini hanno la precedenza in base ai “criteri di vulnerabilità stabiliti dall’Onu”. La priorità è assicurata anche a coloro che non sono già stati deportati dalla Grecia. L’Europa mette a disposizione 18mila posti già concordati per accogliere i profughi dei canali umanitari. Rimane in piedi inoltre il piano di ricollocamento dei richiedenti asilo dall’Italia e dalla Grecia, che finora non è mai decollato.
3. Liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi.
La Turchia chiede anche la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi a partire dal 1 giugno 2016. Entro ottobre 2016 sarebbe potuto non essere più necessario per i turchi chiedere un visto per entrare nell’Unione europea. A patto che fossero state rispettate tutte le condizioni richieste dall’Unione europea. Nella pratica è stato quasi impossibile per Ankara soddisfare le 72 richieste avanzate da Bruxelles in tempi brevi.
4. Aiuti economici alla Turchia.
L’Unione europea ha deciso di accelerare il versamento di tre miliardi di euro di aiuti alla Turchia, già approvati nel vertice di novembre 2015, per la gestione dei campi profughi. Inoltre l’Unione si impegna a mobilitare “fino a un massimo di altri tre miliardi entro fine 2018”, ma solo dopo che i primi tre miliardi fossero stati spesi.
5. L’adesione della Turchia all’Unione europea.
L’Unione europea “si prepara a decidere l’apertura di nuovi capitoli” sull’adesione della Turchia all’Unione europea ferma da tempo, “non appena possibile”.
A un anno dall’accordo tra Unione europea e Turchia sui migranti, Bruxelles stava facendo di tutto per non rimetterlo in discussione, nonostante avesse provocato una situazione umanitaria disastrosa in Grecia e nei Balcani. La Turchia, invece, minacciò di rivedere i termini dell’accordo. Il 13 marzo 2017 – nel pieno di una crisi diplomatica con diversi paesi dell’Unione europea, tra cui i Paesi Bassi e la Germania – il ministro per gli affari europei di Ankara, Ömer Çelik, ha affermato che la Turchia avrebbe dovuto rimettere in discussione la clausola “sul transito via terra” dei migranti.
Tuttavia, con un referendum costituzionale alle porte (16 aprile 2017), la minaccia terroristica e l’instabilità interna, sembrava improbabile che Ankara passasse dalle minacce ai fatti riaprendo la frontiera con la Siria o spingendo i 2,9 milioni di profughi siriani che vivono sul suo territorio a mettersi in viaggio verso l’Europa.
Da quando l’Unione europea ha concesso alla Turchia i tre miliardi di euro per fermare l’arrivo dei migranti sulle coste greche, il numero delle persone che hanno affrontato la traversata dell’Egeo si è ridotto a 1.500 nel gennaio del 2017 (nello stesso periodo del 2016 erano state 70mila). I motivi, come spiega Patrick Kingsley sul New York Times, sono diversi.
In primo luogo la Turchia ha chiuso le frontiere ai profughi siriani: se nel 2015 ai cittadini siriani non serviva il visto per entrare nel paese, ora non è più così. Inoltre il confine tra Siria e Turchia è più controllato che in passato per il timore che gruppi terroristici attivi nella guerra siriana possano organizzare attentati oltre il confine. Ankara, infatti, dall’agosto del 2016 è in guerra contro il gruppo Stato Islamico in Siria e contro le milizie curdosiriane (Unità di protezione popolare, Ypg), considerate un gruppo terroristico dai turchi.
D’altronde, anche se i profughi avessero dovuto rimettersi in viaggio dalla Turchia verso l’Europa, beneficiando di una maggiore tolleranza del governo turco, avrebbero trovato una situazione completamente diversa rispetto ad un anno prima. L’accordo prevedeva infatti che i profughi arrivati in Grecia dalla Turchia dopo il 20 marzo del 2016 fossero rinchiusi negli hotspot sulle isole di Samo, Lesbo e Chio in attesa di essere identificati ed eventualmente rimandati in Turchia. Nell’aprile del 2016 la Grecia ha riformato la legge sull’asilo per permettere la detenzione amministrativa dei migranti irregolari in attesa che la loro domanda d’asilo sia valutata dai funzionari dell’agenzia europea per l’asilo (Easo).
I funzionari europei devono stabilire caso per caso se il richiedente asilo può essere rimandato in Turchia senza correre rischi per la sua incolumità. Amnesty International in un rapporto ha denunciato che alcuni profughi siriani sarebbero stati respinti alla frontiera nell’ottobre del 2016 senza che gli sia stata data la possibilità di chiedere asilo in Grecia, infrangendo il diritto internazionale sui respingimenti.
Alcune deportazioni dalla Grecia alla Turchia sono state bloccate dai ricorsi alla corte d’appello, che ha bocciato le decisioni dei funzionari dell’Easo valutando che la Turchia non fosse un paese sicuro per rimandare indietro i profughi. Molti migranti, dopo mesi di attesa hanno fatto domanda per essere rimpatriati volontariamente nei loro paesi d’origine.
Secondo le autorità greche, nel marzo del 2017 in Grecia 14.371 persone erano trattenute negli hotspot sulle isole in condizioni disumane, ben oltre la capienza complessiva dei campi che sarebbe di 7.450 posti. Sulla terraferma circa 50mila persone (soprattutto siriani, afgani e iracheni) vivevano da mesi nei campi profughi in attesa che la richiesta d’asilo, di ricollocamento o di ricongiungimento familiare fosse esaminata dalle autorità. “In questo contesto dobbiamo considerare che la Commissione europea ha chiesto ai paesi membri di riprendere i trasferimenti verso la Grecia dei profughi che sono riusciti ad arrivare in altri paesi d’Europa in base al regolamento di Dublino. I trasferimenti erano stati sospesi nel 2011 perché il sistema di accoglienza greco era stato giudicato carente dalla stessa Commissione, ma riprenderanno a metà marzo [2017, ndr], in una situazione sul campo in Grecia che è folle”, spiega la giornalista e scrittrice Daniela Padoan dell’associazione Diritti e frontiere.
Dalla Grecia sono stati spostati in altri paesi europei fino al 2017 solo 9.610 profughi dei 160mila previsti dal programma di ricollocamento dell’Agenda europea sull’immigrazione del maggio del 2015. Per questo molti profughi continuano a mettersi in viaggio lungo la rotta balcanica affidandosi a passeurs e trafficanti. Ma sulla loro strada trovano recinzioni, filo spinato e guardie di frontiera a bloccarli con arresti, minacce e violenze. Nell’ultimo anno 25mila persone hanno percorso questa rotta, affrontando pericoli, difficoltà e umiliazioni. E rischiando la vita. Nel primo anno, almeno 140 persone sono morte sulla rotta balcanica o nella traversata dell’Egeo.
Due anni fa, subito dopo l’accordo, l’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere (Msf) dichiarò che non avrebbe più accettato finanziamenti dall’Unione europea, perché voleva denunciare la disumanità e il cinismo delle politiche europee sull’immigrazione. A un anno di distanza, Msf rinnovò la sua denuncia in un rapporto in cui sottolinea le conseguenze delle politiche europee sulla vita e sulla salute di migliaia di persone, in particolare in Grecia e in Serbia.
Oggi, a due anni dalla firma dell’accordo l’Unione europea rivendica: “L’accordo con la Turchia è efficacie”, e ancora “Un vero successo, il nostro intervento ha cambiato la vita di oltre 1 milione di rifugiati, l’Ue è riuscita e sta riuscendo ad accogliere i rifugiati, a rispondere ai loro bisogni quotidiani di base, a provvedere alle cure mediche e a permettere che i bambini continuino ad andare a scuola, così da evitare il pericolo che la piccola generazione di immigrati sia perduta” (Christos Stylianides, commissario per gli Aiuti umanitari, 9 marzo 2018).
Queste parole arrivano mentre 13mila richiedenti asilo ancora intrappolati nelle isole e nel frattempo la Spagna propone a Frontex un accordo Ue-Marocco che sembra la brutta copia di quello turco.
Fonte: Internazionale
Nella città di Mosul continua la guerra. Le forze governative stanno riconquistando gran parte della città. Nel mese di gennaio l’esercito iracheno ha liberato i quartieri est e adesso l’offensiva si concentra nel riprendere allo stato islamico la parte sud e la parte ovest.
La crudeltà dello scontro ha obbligato migliaia di civili ad evacuare la città, alcune fonti parlano di circa 75 mila profughi che adesso vivono nel deserto in condizioni proibitive, vivono in tendopoli senza acqua, corrente e nessuna forma di servizi. Il governo Iracheno ha chiesto infatti un ulteriore aiuto alle Nazioni Unite per affrontare il dramma di questi profughi.
Inoltre, proprio dalle Nazioni Unite è stato segnalato che ci sono 12 civili in cura presso la Croce Rossa Internazionale che sembrano essere stati colpiti da armi chimiche nella parte est della città.
Il nord dell’Iraq sta dunque vivendo le atrocità della guerra combattuta e sembra che la guerra non abbia una durata breve, infatti lo stato islamico sta continuando a difendersi duramente, anche con tecnologie sofisticate che rendono lenta l’avanzata irachena.
Nessuna sorpresa dai risultati delle elezioni parlamentari che si sono svolte il 4 Maggio in Algeria.
Primo partito, anche se in calo di consensi, si è confermato il Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) del presidente Abdelaziz Bouteflika, costretto su una sedia rotelle dal 2013, quando un ictus ha limitato la sua mobilità e capacità di parola (vedi http://www.operalapira.it/algeria-1/).
L’Fln ha conquistato 164 seggi su 462. Al secondo posto, con 97 seggi, il Raduno Nazionale per la Democrazia (Rnd), che molto probabilmente formera col Fln una coalizione di governo.
Molto bassa l’affluenza intorno al 38,2%. Gli elettori sono stati poco più di 8,5 milioni su un totale di 23,2 milioni di aventi diritto. Lo scarso interesse per le elezioni è dovuto alle difficoltà economiche del Paese legate al calo dei prezzi degli idrocarburi, dai quali il bilancio statale algerino dipende per il 60%. Per rispondere all’emergenza il governo ha adottato misure di austerità come il blocco di vari progetti di infrastrutture e nuove tasse.
Nel più affollato campo profughi palestinese, Ayn al Hilwe, alla periferia di Sidone, nell’ultimo mese si sono create delle fazioni rivali che hanno iniziato a fare dei veri e propri scontri armati. Per ora si contano almeno un morto e diversi feriti. Gli scontri sono avvenuti tra miliziani di Fatah, il partito del presidente Abu Mazen e un insieme di sigle estremiste. Le agenzie delle nazioni unite sono state costrette a sospendere i servizi scolastici e sanitari. Adesso è considerato uno dei campi meno sicuri del paese a causa della presenza di gruppi etremisti e sigle radicali che giorno dopo giorno continuano a crescere. Le forze di sicurezza libanese credono anche che all’interno del campo si nascondano pericolosi terroristi provenienti dalla Siria che hanno trovato un luogo sicuro e protetto.
Oltre alla presenza di questi gruppi anche il muro che circonda il campo non aiuta a mantenere un clima tranquillo e di pace, anzi è un elemento di forte tensione dato che trasmette l’idea di prigione.
Durante la prima metà mi Marzo c’è stato un incontro a Roma fra il presidente del Libano, Aoun e Papa Francesco. Uno dei punti fondamentali di questo incontro è stata la situazione dei migranti, dato che il Libano ha accolto circa un milione di rifugiati siriani a fronte di una popolazione di sei milioni di abitanti. Sono stati trattate anche le relazioni bilaterali tra la Santa Sede ed il Libano sottolineando il ruolo storico ed istituzionale della chiesa nella vita del paese; non poteva mancare un riferimento alla situazione siriana inerente appunto al continuo arrivo di profughi, con particolare attenzione agli sforzi internazionali per una soluzione politica al conflitto.
L’incontro si è concluso con uno scambio di doni dove il Papa ha donato un ramoscello di ulivo in bronzo mentre Aoun una statua raffigurante il Gesù Bambino di Praga avvolto in un vestito dai colori nazionali libanesi.
Il presidente del Libano è rimasto soddisfatto da questo incontro infatti ha reso noto come il Libano <<occupi un posto particolare nel cuore di Papa Francesco che risponderà all’invito di visitare il paese dei Cedri>>.S
Giovedì la Commissione Parlamentare per un Iran Democratico ha tenuto una conferenza dal titolo “Iran 2019: prospettive”, durante la quale è stato richiesto all’Unione Europea di adottare una politica decisa per quanto riguarda le minacce terroristiche del regime iraniano ed il deterioramento dei diritti umani.
L’incontro, tenutosi nella Sala Colbert, è stato inaugurato dal deputato francese André Chassaigne, che ha espresso la sua preoccupazione circa la situazione di diritti umani in Iran, definendola “catastrofica”, ed ha attirato l’attenzione sulle oltre 3.600 esecuzioni avvenute in Iran sotto la presidenza di Hassan Rouhani.
La presidente eletta del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI), la Sig.ra Maryam Rajavi, ha esortato il governo francese ad avviare una politica coraggiosa in seno all’Unione Europe in sostegno del popolo iraniano e nel rispetto della sua lotta per la libertà e la democrazia.
La Sig.ra Rajavi ha spiegato: “Il rovesciamento del regime, che costituisce il desiderio del popolo iraniano, non è mai stato così alla nostra portata. I mullah hanno un disperato bisogno di relazioni politiche e commerciali con l’Europa, tuttavia non possono rinunciare a portare avanti operazioni terroristiche nel cuore della stessa, dal momento che sono molto più deboli di quanto si creda; non conoscono altra strada se non quella della repressione e della creazione di crisi.”
La presidente ha chiesto ai partecipanti di esaminare il record di Rouhani, ricordando: “Migliaia di esecuzioni, i massacri ad Ashraf e Liberty [gli ex campi dei Mojahedin in Iraq]; lo spreco delle entrate del paese nelle guerre della regione; le operazioni terroristiche del Ministero delle Informazioni e della Sicurezza (MOIS), sono tutte attività che sono state portate avanti sotto suo ordine, come anche il programma missilistico del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica; operazioni, tutte, che hanno portato all’impoverimento della maggioranza del popolo iraniano.”
La Sig.ra Rajavi ha aggiunto: “Uno sviluppo di significativa importanza è stato, in Iran, la formazione delle Unità di Resistenza. Queste sono costituite da membri e simpatizzanti della Resistenza Iraniana provenienti dalle nuove generazioni, amanti della libertà.” La vasta rete delle Unità di Resistenza dei Mojahedin all’interno del paese sta promuovendo le proteste quotidiane del popolo.
La Sig.ra Rajavi ha proseguito: “Oltre a portare avanti complotti terroristici, i mullah hanno sistematicamente diffuso falsità contro la Resistenza Iraniana, temendo l’impatto dei Mojahedin e della Resistenza sulle rivolte.”
La presidente ha sottolineato: “La politica di accomodamento nei confronti dei mullah deve giungere al termine. Sperare in investimenti in ed accordi commerciali con l’Iran è un’illusione.”
La Sig.ra Ravi ha aggiunto: “Distogliere lo sguardo dalla Resistenza Iraniana non costituisce solo un danno per il popolo iraniano, ma anche un danno per il Medio Oriente ed il mondo, che sarebbero così privati della chiave per risolvere il problema iraniano.”
La presidente ha avvertito: “Il principale ostacolo al progresso dell’Iran e la causa principale delle guerre e della crisi della regione sarà così rimossa. Noi godiamo del supporto del popolo nell’instaurazione di un repubblica basata sulla separazione tra religione e stato, sulla parità di genere, sull’abolizione della pena di morte, su un sistema giudiziario indipendente, sull’autonomia per i gruppi etnici, su una politica estera basata su una coesistenza pacifica, e su un Iran non nucleare.”
Il parlamentare Frédéric Reiss, rivolgendosi alla Sig.ra Rajavi, ha dichiarato: “Lei rappresenta la vera alternativa, ed ha il nostro sostegno. Mettiamo in discussione l’UE, che continua a credere nelle virtù del dialogo [con il regime iraniano]. Io sostengo la lotta per la libertà in Iran.”
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L’inizio delle tensioni fra Israele ed Iran si rintraccia nel 1979 con la rivoluzione khomeinista rappresentata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini, che ha trasformato l’Iran in una Repubblica islamica guidata da religiosi sciiti, e con l’elezione alla carica di Presidente dell’Iran dell’ayatollah Ali Khamenei nel 1981 a cui è seguita quella di Guida Suprema dal 1989 che mantiene tuttora.
Una varietà infinita di colori, sapori, bellezze naturali, architettoniche ed artistiche; una ricchezza culturale che affonda le proprie radici in una delle civiltà più antiche del pianeta. Queste sono le caratteristiche dell’antica Persia, oggi Iran: una sorta di locus amoenus che pare scomparire dietro la rovinosa burrasca politico-economica che scuote il paese. Il rumoroso raid americano di gennaio a Baghdad è stato infatti solo la naturale conseguenza di tensioni che persistono da anni e che solo nel 2015 sembravano essersi allentate, grazie al Piano d’azione congiunto globale, più conosciuto come accordo sul nucleare iraniano.
Nel 2018 gli USA sono usciti unilateralmente dal patto rilanciando le sanzioni economiche contro il Paese mediorientale. Dunque, una nazione con potenziale economico fra i più elevati al mondo (dovuto, tra le altre cose, ai giacimenti di petrolio) vive paradossalmente il dramma della povertà.
L’Iran è reduce dalle recenti elezioni parlamentari dello scorso 21 febbraio, i cui principali connotati sono stati da una parte la bassissima affluenza, complice l’epidemia di coronavirus che vede l’Iran tra i paesi più colpiti insieme alla Cina e all’Italia, e dall’altra la ribalta dei conservatori sui riformisti di Rouhani, che rappresenta la maggioranza uscente. Erano stati infatti i riformisti ad accordarsi con gli Stati Uniti sul nucleare; inoltre la morte del generale Qasem Soleimani, considerato un modello da parte di molti iraniani, specialmente fra i giovani, ha suscitato una forte reazione conservatrice nella popolazione. Era considerato un simbolo di stabilità e forza, in paragone all’amministrazione politica nella quale gran parte della popolazione aveva ed ha perso la fiducia, specialmente dopo il voltafaccia USA.
Il risultato di questi ultimi concitati anni è un paese in emergenza, con un governo riformista non sostenuto dal parlamento fortemente conservatore.
Questo complicato contesto è oggetto principale della discussione internazionale, senza però che ci sia un effettivo interesse da parte dei media di raccontare come sia vivere in Iran. Fariba Hachtroudi, scrittrice iraniana, si batte da molti anni per raccontare un paese diverso. Sostiene infatti che in Europa non ci sia una profonda conoscenza di cosa accada in Medioriente. “Cosa bisogna fare dunque? Venire in Iran e dare un’immagine esatta di ciò che accade in questo paese”, dice in un’intervista rilasciata ad arabpress.eu. La scrittrice denuncia un paese pieno di contraddizioni: da un lato, la cultura è considerata un fondamento portante della società, l’istruzione giovanile è diffusa e di ottimo livello; dall’altro, la forte corruzione, la privazione di molte libertà personali e la forte instabilità economica hanno portato il popolo all’esasperazione. Essere iraniani nel 2020, dunque, significa dover convivere ogni giorno con la sensazione di essere seduti su un forziere d’oro, senza possederne le chiavi. Fariba confida nel popolo iraniano, è convinta che possa salvarsi da solo e che anzi nessun paese estero debba intervenire. È però anche molto lucida nel rendersi conto che se dovesse crollare completamente l’equilibrio fra il popolo e lo stato, l’Iran si vedrebbe esposto alle interferenze dei paesi esteri, pronti a sostenere una fazione piuttosto che l’altra, approfittando della situazione politica per ottenere benefici sull’importazione di petrolio. Fariba si rivolge a noi, chiedendoci di non fermarci alla superficie dei fatti di cronaca, ma di spingerci oltre e non considerare il Medioriente come una fonte di ricchezza, ma come la casa di persone con un volto, una storia, e una complicatissima vita da affrontare. L’invito principale che ci fa è quello di non confondere il popolo con il governo che, in paesi come l’Iran, sono ben lungi da essere la medesima cosa.
Jean-Paul Sartre disse che “quando il ricco fa la guerra, è il povero a morire”. Per l’Iran non si parla di una guerra in campo aperto, ma di una guerra di stampo politico-economico. Di qualsiasi genere di guerra si parli, infine, sono sempre i più deboli a scontare le pene conseguenti alle scelte dei più forti.
Meno arrivi dalla Libia ma crescono la rotta algerina e tunisina
Il blocco delle partenze di migranti diretti in Italia dalla costa libica ha avuto come effetto quello di spingere queste persone a individuare soluzioni alternative per raggiungere l’Europa. La scelta, stando a quello che emerge dai numeri, è caduta su Algeria, Tunisia e in parte anche sulla Turchia. Destinazione, nei primi due casi: le spiagge della Sardegna e della Sicilia. A raccontare questa storia sono i dati raccolti dall’Unhcr (United Nations High Commissioner for Refugees). L’Agenzia Onu per i rifugiati ha monitorato gli arrivi fino al 6 settembre, dimostrando che il numero delle persone che hanno attraversato il Mediterraneo dalla Libia all’Italia è fortemente calato.
A luglio circa 11mila persone, salpate dalla Libia, hanno raggiunto le nostre coste. Ad agosto poco più di 2mila, il numero più basso degli ultimi quattro anni per lo stesso periodo di riferimento. Questa diminuzione è stata tuttavia accompagnata da un aumento degli arrivi da due paesi del Nord Africa. Il primo è l’Algeria: ad agosto 153 persone hanno puntato su questo paese per raggiungere l’Italia (a luglio nessuno). Segno più anche per la rotta che unisce la Tunisia con il nostro Paese: 166 persone a luglio; 366 ad agosto. I migranti hanno guardato anche alla Turchia: a luglio sono giunte in 314 da quel paese (ad agosto sono diventati 430). Segno meno – anche se non riguarda la Penisola italiana – per un’altra rotta di migrazione, quella che da Algeria e Marocco raggiunge la Spagna: 2.657 persone a luglio, 1.518 ad agosto. La maggior parte degli arrivi in Europa lungo la rotta del Mediterraneo, spiega inoltre il rapporto dell’agenzia Onu, sono costituti da persone di nazionalità siriana, marocchina e nigeriana.
“Nei mesi scorsi la rotta via mare verso la Grecia ha guadagnato popolarità, gli arrivi via mare in Italia sono diminuiti e abbiamo assistito ad una crescente diversificazione dei viaggi intrapresi da migranti e rifugiati per raggiungere l’Europa”, riferisce Pascale Moreau, direttrice dell’Ufficio per l’Europa dell’Unhcr. Circa l’80 per cento degli arrivi via mare in Grecia sono costituiti da siriani, iracheni e afghani, di questi due terzi sono donne e bambini. Parallelamente, la Spagna ha visto un aumento del 90 per cento degli arrivi via terra e via mare nel terzo quadrimestre del 2017, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La maggior parte di questi – 7.700 persone – arriva da Marocco, Costa d’Avorio e Guinea, ma gli arrivi via terra sono costituiti per la maggior parte da siriani.
Il rapporto evidenzia inoltre la ripresa, nel corso dell’estate, degli arrivi in Romania dalla Turchia, attraverso il Mar Nero (per la prima volta dal febbraio del 2015) così come un massiccio incremento degli arrivi a Cipro da inizio anno. “Nonostante la riduzione degli arrivi attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, migliaia di persone continuano ad intraprendere viaggi disperati verso l’Europa”, spiega ancora Moreau, che ha sottolineato con profonda preoccupazione che al 20 novembre quasi 3.000 persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare e altre 57 via terra o ai confini europei nel 2017. I numeri effettivi potrebbero essere più alti, ha aggiunto.
Il rapporto sottolinea inoltre la difficile situazione che vivono molte donne e ragazze vittime di tratta e quella di 15.200 minori non accompagnati e separati che sono arrivati in Europa quest’anno. E mostra poi che i movimenti di persone che cercano di oltrepassare i confini terrestri continuano anche negli ultimi tre mesi, nonostante i respingimenti ad opera di alcuni Paesi. Queste pratiche dovrebbero essere investigate ed eliminate, si legge nel rapporto.
“L’Unhcr continua a chiedere maggiore accesso a vie legali e sicure, quali il ricongiungimento familiare e il reinsediamento in Europa. È importante anche assicurare che le persone abbiano accesso alle procedure di asilo nei paesi europei”, ha detto Moreau. “Siamo estremamente grati per i contributi finora effettuati dagli Stati, tuttavia serve ancora molto per soddisfare la richiesta di 40.000 posti di reinsediamento effettuata lo scorso settembre per i rifugiati che si trovano in 15 paesi prioritari lungo la rotta del Mediterraneo centrale”, ha concluso.
(Unhcr.Swissinfo,Ansa)
Dopo il divieto di produzione e vendita del burka in Marocco (vedi https://www.operalapira.it/marocco-5/) , l’Algeria ha deciso di proibire sia in tv che in radio la presenza di predicatori religiosi dai toni estremisti, dei salafiti, dei veggenti e dei medici ciarlatani.
L’Autorità di regolazione dell’Audiovisivo (Arav), insediatasi circa un anno fa, ha pubblicato un documento che elenca le regole che i canali radio televisivi devono osservare riguardo al trattamento di argomenti religiosi.
Questo provvedimento è stato dovuto all’aver visto moltiplicarsi i passaggi di questi predicatori sulle tv algerine, e mira “a liberare la fede dai ciarlatani e da ogni sorta di fantasmagoria”.
“Non è ammissibile che la religione possa essere fatta oggetto di speculazione o manipolazione mediatica a fini politici o partigiani. Speriamo con il tempo di vedere i nostri predicatori tornare spontaneamente ad attenersi ad un discorso dottrinale conforme alle credenze locali e a far prova di non adesione a correnti di pensiero ostili alla modernità, alla concordia civile o alle nostre tradizioni ancestrali, ivi compreso il nostro modo di vestire”, indica in un comunicato l’Arav.