
The people who have trusted us so far
Il campo profughi di Zaatari si trova nel nord della Giordania, non lontano dal confine con la Siria. Da quando è stato fondato, nel luglio del 2012, ha accolto mezzo milione di profughi scappati dalla guerra in Siria, scoppiata nel 2011. È diventato il terzo agglomerato più grande della Giordania, con una popolazione che ha raggiunto le 125mila persone: l’alto numero dei residenti ha permesso l’apertura di diverse attività che offrono di tutto, dai beni di prima necessità ai telefoni cellulari e ai vestiti da sposa.
Oggi, secondo le Nazioni Unite, la popolazione media si aggira intorno alle 79mila persone ed è in continua diminuzione. Molti dei profughi hanno deciso di raggiungere l’Europa o di tornare in Siria e, non essendoci nuovi ingressi, la popolazione è destinata a diminuire.
Questo cambiamento ha provocato un crollo anche economico delle attività produttive del campo. Centinaia di persone ogni giorno passano ore in fila davanti ai funzionari del governo a chiedere un permesso di quindici giorni per uscire dal campo e lavorare, altri scappano illegalmente rischiando di essere rimandati in Siria.
“Io non sono né Huthi né sunnita, sono una bambina di 7 anni morta di fame.
Mi chiamo Amal Hussain e ho vissuto, con la mia famiglia, in un campo profughi in una città dello Yemen, di cui non so il nome. Sono stata in ospedale per tre giorni e sono dovuta andar via perché il mio posto serviva ad altri feriti di guerra, in condizioni peggiori delle mie. Io sono morta tre giorni dopo nella mia tenda. Ora mia mamma è preoccupata per i miei fratelli e non sa come poter sopravvivere.”
Abbiamo provato ad immaginare i pensieri di Amal, bambina denutrita morta nel 2018, diventata il simbolo della terribile guerra che sta devastando lo Yemen.
Lo Yemen è un paese coinvolto in una guerra civile da anni. Nel corso del ventesimo secolo questo paese ha vissuto la divisione tra un governo dinastico a nord ed uno democratico a sud. Nel 1960 il sud si è ribellato alla colonizzazione britannica ed è riuscito a creare un vero e proprio regime comunista di stampo marxista (unico in tutto il mondo arabo). L’unificazione tra la parte settentrionale e meridionale del paese è avvenuta nel 1990 (a seguito del cedimento del blocco sovietico) dopo molti tentativi iniziati negli anni ’70. È stata voluta dai paesi occidentali ma è avvenuta solo su carta.
Lo Yemen, infatti, continua ad essere diviso in tre regioni ben distinte, ognuna delle quali con un’identità ed una storia differenti. La parte occidentale è suddivisa ancora tra nord e sud mentre nella regione orientale, chiamata “Hadramawt”, si trovano Al-Qaida ed il gruppo estremista noto come ISIS.
Nel 2015 è nata, nel nord dello Yemen, la fazione Huthi che crede nella grandezza della religione islamica e vuole diffonderla. È formata da sciiti zayditi e una minoranza sunnita. Gli Huthi si ribellano al governo centrale di Hadi, presidente dello Yemen, cercando di mettere in atto un colpo di stato. Hadi è scappato da Sana’a (la capitale) ad Aden (città portuale nel sud dello Yemen) e poi in Arabia Saudita. Arabia Saudita e paesi del golfo come Giordania, Marocco, Egitto ed Sudan sono scesi in guerra contro gli Huthi, sostenuti invece dall’Iran.
Dal 2015 in poi lo Yemen sta vivendo una guerra civile che lo porterà, nel 2022, ad essere il paese più povero al mondo, con il 78% di popolazione al di sotto della soglia di povertà (Asianews, rapporto del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo).
Molte famiglie non hanno casa e soldi, vivono in campi profughi lontani da centri di aiuto umanitario. Sono spesso vittime di epidemie, l’ultima delle quali, il colera, ha ucciso 2000 persone in soli 3 mesi. L’Arabia Saudita ha chiuso anche i corridoi umanitari condannando così i civili a una morte certa.
Come Amal Hussain ogni giorno muoiono centinaia di bambini malnutriti, senza un’identità precisa, che faticano a trovare la “parte giusta” da cui stare. Spesso i bambini che possono ricevere un’istruzione sono educati alla guerra e imparano slogan come “Dio è grande, morte all’America, morte a Israele”.
In Occidente non si parla della guerra dello Yemen al punto che per noi è solo una guerra silenziosa o, al più, un’eco lontana. Abbiamo notizie di questa realtà solo dal 14 settembre 2019, quando un drone ha bombardato due città petrolifere dell’Arabia Saudita, facendo così impennare i prezzi del petrolio.
Il nostro paese, insieme alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti continua a fornire armi all’Arabia Saudita, contribuendo così ad una catastrofe inevitabile di morte e sofferenza.
Gli abitanti di questo paese, dimenticato da tutti, vivono costantemente in condizioni di disagio, senza diritti e senza sapere chi sono. Come possono riuscire a capire “da che parte stare”? Come possono crearsi un’identità personale? E tu che stai leggendo questo articolo, prova a chiudere gli occhi un secondo, immaginati di nascere in un paese come questo, da solo, in un mondo incomprensibile dove non sei libero di scegliere; come puoi costruirti una tua identità?
Non si può raccontare la guerra in poche parole, possiamo solo provare, anche se forse senza successo, a metterci nei panni delle famiglie e delle persone che ogni giorno affrontano fame, epidemie e bombe.

World Resources Institute (WRI) sta monitorando le riserve idriche dei più importanti bacini a livello mondiale grazie ad un sistema satellitare sviluppato per prevenire nuove allerte di siccità come quelle attuali presenti a Città del Capo in Sud Africa. Città del Capo ha recentemente conquistato titoli a livello mondiale lanciando un conto alla rovescia per il “dayzero”, ovvero il giorno in cui, a causa della estenuante siccità degli ultimi tre anni, i rubinetti saranno chiusi per tutti i cittadini, che potranno usufruire di soli 25 litri di acqua al giorno presso dei punti si distribuzione. Attualmente il “dayzero” si sta protraendo aspettando la stagione delle piogge, mentre i cittadini sono obbligati ad un ridotto consumo giornaliero di acqua.
L’organizzazione ambientale con sede negli Stati Uniti sta collaborando con l’istituto Deltares, il governo olandese e altri partner per costruire un sistema di allarme rapido per la sicurezza dell’acqua che miri ad anticipare la conseguente instabilità sociale, i danni economici e la relativa migrazione transfrontaliera.
Secondo i dati raccolti dai satelliti il declino più elevato è quello del secondo giacimento idrico più grande del Marocco, Al Massira, che si è ridotto del 60% in tre anni a causa della ricorrente siccità, dell’irrigazione in espansione e della crescente sete di città vicine come Casablanca. Nonostante le recenti piogge, il WRI ha dichiarato che l’acqua è al livello più basso nell’ultimo decennio. L’ultima volta che la diga è stata così esaurita, la produzione di grano è diminuita della metà e più di 700.000 persone ne sono state colpite. Inoltre la richiesta su questa fonte d’acqua crescerà ancora quest’anno, quando un nuovo progetto di trasferimento dell’acqua lo collegherà alla città di Marrakech.
Come il Marocco anche India, Spagna e Iraq vedono i loro più grandi giacimenti esaurirsi. In Iraq la diga di Mosul ha visto un declino più lento, ma ora scende anche del 60% dal picco degli anni ’90 a causa delle scarse precipitazioni e dei progetti idroelettrici turchi a monte del Tigri e dell’Eufrate. Le tensioni sono state evidenti anche in India per le assegnazioni di acqua per due bacini idrici collegati dal fiume Narmada. Le scarse piogge dello scorso anno hanno lasciato la diga a monte Indira Sagar un terzo inferiore alla media stagionale. Quando una parte di questa carenza è stata trasferita al giacimento a valle di Sardar Sarovar, ha causato un putiferio perché quest’ultima è una riserva acqua per 30 milioni di persone. Il mese scorso, il governo dello stato del Gujarat ha fermato l’irrigazione e ha invitato i contadini a non seminare colture. I rischi sociali sono più bassi nei paesi industrializzati che sono meno dipendenti dall’agricoltura e più resilienti dal punto di vista economico. La Spagna, poi, ha subito una grave siccità che ha contribuito a ridurre del 60% la superficie della diga di Buendia negli ultimi cinque anni. Ciò ha colpito la produzione di energia idroelettrica e ha spinto verso l’alto i prezzi dell’elettricità, ma gli effetti a catena sull’agricoltura sono limitati dal contributo relativamente piccolo – 3% – dell’agricoltura al PIL della nazione. Tutte e quattro le dighe si trovano a metà delle latitudini, le bande geografiche su entrambi i lati dei tropici, dove si prevede che i cambiamenti climatici renderanno la siccità più frequente e protratta. Con la scansione di più bacini nei prossimi mesi e anni, il WRI si aspetta che emergano più casi. Gennadii Donchyts, ricercatore senior di Deltares, ha affermato che il servizio di monitoraggio delle riserve continuerà a crescere di dimensioni man mano che le informazioni verranno aggiunte dai satelliti della NASA e dell’Agenzia spaziale europea che forniscono risoluzioni da 10 a 30 metri su base giornaliera.

S(Photo by Italian Navy / Marina Militare/Anadolu Agency/Getty Images)
Meno arrivi dalla Libia ma crescono la rotta algerina e tunisina
Il blocco delle partenze di migranti diretti in Italia dalla costa libica ha avuto come effetto quello di spingere queste persone a individuare soluzioni alternative per raggiungere l’Europa. La scelta, stando a quello che emerge dai numeri, è caduta su Algeria, Tunisia e in parte anche sulla Turchia. Destinazione, nei primi due casi: le spiagge della Sardegna e della Sicilia. A raccontare questa storia sono i dati raccolti dall’Unhcr (United Nations High Commissioner for Refugees). L’Agenzia Onu per i rifugiati ha monitorato gli arrivi fino al 6 settembre, dimostrando che il numero delle persone che hanno attraversato il Mediterraneo dalla Libia all’Italia è fortemente calato.
A luglio circa 11mila persone, salpate dalla Libia, hanno raggiunto le nostre coste. Ad agosto poco più di 2mila, il numero più basso degli ultimi quattro anni per lo stesso periodo di riferimento. Questa diminuzione è stata tuttavia accompagnata da un aumento degli arrivi da due paesi del Nord Africa. Il primo è l’Algeria: ad agosto 153 persone hanno puntato su questo paese per raggiungere l’Italia (a luglio nessuno). Segno più anche per la rotta che unisce la Tunisia con il nostro Paese: 166 persone a luglio; 366 ad agosto. I migranti hanno guardato anche alla Turchia: a luglio sono giunte in 314 da quel paese (ad agosto sono diventati 430). Segno meno – anche se non riguarda la Penisola italiana – per un’altra rotta di migrazione, quella che da Algeria e Marocco raggiunge la Spagna: 2.657 persone a luglio, 1.518 ad agosto. La maggior parte degli arrivi in Europa lungo la rotta del Mediterraneo, spiega inoltre il rapporto dell’agenzia Onu, sono costituti da persone di nazionalità siriana, marocchina e nigeriana.
“Nei mesi scorsi la rotta via mare verso la Grecia ha guadagnato popolarità, gli arrivi via mare in Italia sono diminuiti e abbiamo assistito ad una crescente diversificazione dei viaggi intrapresi da migranti e rifugiati per raggiungere l’Europa”, riferisce Pascale Moreau, direttrice dell’Ufficio per l’Europa dell’Unhcr. Circa l’80 per cento degli arrivi via mare in Grecia sono costituiti da siriani, iracheni e afghani, di questi due terzi sono donne e bambini. Parallelamente, la Spagna ha visto un aumento del 90 per cento degli arrivi via terra e via mare nel terzo quadrimestre del 2017, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La maggior parte di questi – 7.700 persone – arriva da Marocco, Costa d’Avorio e Guinea, ma gli arrivi via terra sono costituiti per la maggior parte da siriani.
Il rapporto evidenzia inoltre la ripresa, nel corso dell’estate, degli arrivi in Romania dalla Turchia, attraverso il Mar Nero (per la prima volta dal febbraio del 2015) così come un massiccio incremento degli arrivi a Cipro da inizio anno. “Nonostante la riduzione degli arrivi attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, migliaia di persone continuano ad intraprendere viaggi disperati verso l’Europa”, spiega ancora Moreau, che ha sottolineato con profonda preoccupazione che al 20 novembre quasi 3.000 persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare e altre 57 via terra o ai confini europei nel 2017. I numeri effettivi potrebbero essere più alti, ha aggiunto.
Il rapporto sottolinea inoltre la difficile situazione che vivono molte donne e ragazze vittime di tratta e quella di 15.200 minori non accompagnati e separati che sono arrivati in Europa quest’anno. E mostra poi che i movimenti di persone che cercano di oltrepassare i confini terrestri continuano anche negli ultimi tre mesi, nonostante i respingimenti ad opera di alcuni Paesi. Queste pratiche dovrebbero essere investigate ed eliminate, si legge nel rapporto.
“L’Unhcr continua a chiedere maggiore accesso a vie legali e sicure, quali il ricongiungimento familiare e il reinsediamento in Europa. È importante anche assicurare che le persone abbiano accesso alle procedure di asilo nei paesi europei”, ha detto Moreau. “Siamo estremamente grati per i contributi finora effettuati dagli Stati, tuttavia serve ancora molto per soddisfare la richiesta di 40.000 posti di reinsediamento effettuata lo scorso settembre per i rifugiati che si trovano in 15 paesi prioritari lungo la rotta del Mediterraneo centrale”, ha concluso.
(Unhcr.Swissinfo,Ansa)
14 Febbraio 2017
“ Le scuole risorgono dalle macerie”
Si stima che 1,7 milioni di bambini attualmente in Siria non frequentano la scuola, è un elevato numero di potenziali giovani scolari che non conoscono la gioia di alzarsi al mattino col grembiule stirato che gli aspetta e una dolce merendina nello zainetto, il suono della campanella è stato sostituito dal frastuono delle bombe e la voce della maestra che ripete le tabelline e soffocata dalle grida di chi cerca di sopravvivere.
È alla luce di tutto questo che finalmente i primi giorni del mese di Febbraio è giunta la felice notizia della riapertura di 23 scuole primarie nelle zone orientali di Aleppo grazie all’aiuto del Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia ( UNICEF) che ha portato a termine questo obbiettivo con ottimi risultati permettendo a 6.5000 di tornare a scuola e terminare la loro formazione.
In tale progetto hanno preso vita molte iniziative come: un percorso formativo per gli insegnati con lo scopo di aiutare i bambini a recuperare i mesi e gli anni di scuola persi grazie allo sviluppo di un programma di apprendimento rapido, una campagna di sensibilizzazione per i bambini e le loro famiglie per informarli sui pericoli degli ordigni inesplosi, attività di supporto psicosociale per 35.000 bambini in rifugi e in altri siti, per aiutarli a riprendersi dagli orrori attraverso i quali sono passati, infine ha fornito i kit “scuole in una scatola” e kit ricreativi a 90.000 bambini a Idlib e nella zona rurale di Aleppo ovest.
Parafrasando le parole di Hanaa Singer, rappresentante dell’Unicef in Siria, è possibile affermare che la scuola, l’istruzione e l’educazione rappresenta per questi bambini non solo un’opportunità per crescere, giocare e imparare, ma soprattutto incarna la loro occasione per ritrovare quel senso di routine perduta, un vero e proprio ospedale per la loro anima dove poter riconquistare la loro infanzia.
“Riportare i bambini a scuola è una delle nostre maggiori priorità” afferma sempre Hanaa Singer, la quale ha messo tutto il suo impegno per garantire un nuovo futuro ai bambini siriani i quali finalmente avranno la possibilità di diventare uomini capaci di fare cose nuove e non semplicemente ripetere quello che le generazioni precedenti hanno fatto.
Deir Ezzor è caduta, e il 17 ottobre Raqqa è stata liberata. L’IS, che negli ultimi anni è riuscita a creare una forte paura nell’Occidente, mai come oggi è indebolito e prossimo alla fine. E, quasi certamente, tutto ciò non sarebbe stato possibile senza l’intervento dei Curdi e delle loro milizie.
I curdi sono un popolo che abita le regioni montuose a cavallo tra Turchia, Iraq, Siria, Iran e Armenia. Non hanno una vera e propria lingua né un’unica religione, sebbene per la maggior parte siano musulmani sunniti. Non avendo una propria patria, hanno però l’esigenza di crearla. Da cui il Kurdistan, che vorrebbe essere uno Stato indipendente e farsi spazio tra questi Paesi. I curdi, invece, sono rimasti “incastrati” dopo la prima guerra mondiale, con la sconfitta dell’Impero Ottomano, quando gli alleati occidentali, vincitori della guerra, previdero la creazione di uno stato curdo (nel Trattato di Sèvres del 1920) ma poi dimenticarono di dargli sostanza. Un popolo che sente, quindi, più forte l’appartenenza etnica di quella statale.
In Iraq si è svolto, il 25 settembre 2017, un referendum per l’indipendenza del Kurdistan, e il 92% si è pronunciato favorevole. In Turchia crescono le tensioni, mai mancate, tra Erdogan e il popolo curdo.
La presenza dell’IS in Siria, invece, ha paradossalmente creato una maggiore, sebbene momentanea, autonomia del popolo curdo.
Prima dell’intervento contro Daesh, i curdi avevano già preso parte alla primavera araba e alla successiva opposizione ad Assad. Anzi, la rivolta popolare contro il regime siriano per i curdi è stata l’occasione di portare la propria lotta a un livello superiore e di seguire un corso indipendente. Ha preso le distanze sia dalle forze del regime Baath, partito politico panarabo, sia dalle forze di opposizione, mostrando di posizionarsi come terza forza, una forza che propone una soluzione. All’inizio, durante le manifestazioni nazionali del venerdì, sia le forze del regime Baath, sia quelle dell’opposizione cercavano di tirare i curdi ciascuno dalla propria parte. I curdi si sono organizzati politicamente e, dopo aver sviluppato le loro attività nella società civile, hanno rafforzato le loro forze di legittima autodifesa (YPG), fondate nel 2004 e riconosciute ufficialmente nel 2011. Tutte le unità legate alle YPG hanno successivamente preso posizione lungo i confini del Kurdistan occidentale.
Alla fine del 2014 l’Is ha stretto d’assedio Kobane. I civili e i combattenti curdi, bloccati in città, sembravano spacciati. La Turchia, al cui confine si trova Kobane, ha chiuso i suoi confini intrappolando gli abitanti della città. È stato in quel momento che i politici curdi iracheni hanno fatto pressione sugli Stati Uniti e la Turchia perché alcuni dei loro combattenti potessero attraversare il confine turco ed entrare a Kobane. Hanno anche chiesto agli Stati Uniti di bombardare alcuni dei bersagli più importanti dell’Is e di fornire aiuti militari ai combattenti curdi, le Unità di protezione popolare (Ypg). La combinazione tra il supporto aereo statunitense e la determinazione dei combattenti delle Ypg ha respinto i miliziani dell’Is, che sono rientrati a Raqqa. E, da allora ad oggi, i combattenti delle Ypg e Ypj sono stati centrali nel conflitto, anche grazie alle armi fornite dagli USA.
Va sottolineato che le donne hanno svolto e svolgono un ruolo centrale, tanto da avere una propria organizzazione militare (Ypj, Unità di Protezione delle Donne). Il loro ruolo, oltre ad essere efficacemente pratico, ha una forte potenza simbolica: l’obiettivo di queste donne, difatti, è anche di cambiare l’immagine femminile proposta dall’Isis e a cui si sentono relegate.
I curdi siriani hanno spesso ribadito che, alla fine del conflitto, non vorranno indipendenza ma una maggiore autonomia dal governo centrale di Assad, Nel 2014 hanno dichiarato che gli Stati Uniti stavano aprendo la strada alla nascita di una Siria federale. Per dimostrare di non essere una forza esclusivamente curda, i combattenti curdi insieme ad altre unità hanno creato il gruppo Forze democratiche siriane, il cui organo politico è diventato il Consiglio democratico siriano. L’associazione con il separatismo curdo è sparita, ma la bandiera del Kurdistan e gli emblemi politici curdi sono ancora presenti tra i combattenti e negli uffici dei leader.
L’avvicinarsi della fine dell’Is, però, fa tornare in luce tutti gli interessi locali, e sono in molti ad opporsi a un’eccessiva autonomia curda. Le truppe turche sono pronte a stroncare l’ascesa di un’enclave curda in Siria, mentre le forze irachene potrebbero intervenire per scongiurare l’indipendenza di un Kurdistan iracheno. Gli Stati Uniti si oppongono all’affermazione dell’indipendenza curda, e si limitano a usare i curdi, sia in Iraq sia in Siria, per raggiungere i loro obiettivi. Anche se la mancanza di alternative ha spinto i curdi siriani nell’orbita statunitense, il loro obiettivo resta quello garantire la crescita del potere curdo in Siria. Non è chiaro se riusciranno a utilizzare gli americani a loro favore. La storia ci suggerisce che una volta persa la loro utilità, saranno messi da parte senza tante cerimonie.
Il Libano è tornato all’attenzione dell’opinione pubblica in seguito all’esplosione di 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio nel porto di Beirut, il 4 agosto 2020. Esplosione che ha provocato 217 morti, oltre 7000 feriti e 300mila sfollati, segnando una delle pagine più drammatiche della storia recente del Paese. Secondo la Banca Mondiale, l’esplosione ha causato danni per circa quattro miliardi di dollari. Infatti, il 90% delle importazioni del Paese, avveniva attraverso il porto di Beirut, snodo economico cruciale del Libano. La maggior parte delle riserve alimentari sono state distrutte ed ancora oggi più di un milione di persone sul territorio libanese si trova in una condizione di povertà assoluta e incertezza alimentare. Le disuguaglianze sociali sono tangibili ed evidentissime e di conseguenza, a fronte di pochi cittadini che possono permettersi di scappare o andarsene, ce ne sono tantissimi intrappolati in un luogo che li costringe a condizioni di vita estremamente misere. Nel Paese ci sono inoltre più di due milioni di rifugiati, in particolare siriani e palestinesi.
Chiaramente, la gestione dell’emergenza ha portato alla luce con maggiore forza una crisi economica che già da anni incombe sul Libano, che già altre volte aveva versato in condizioni di dissesto finanziario. Il debito pubblico del Paese supera il 100% del PIL da decenni, e oggi sfiora il 180%. E dal 2018 Beirut attraversa una recessione che in tre anni ha spazzato via il 40% del reddito pro capite e la valuta locale ha subito una svalutazione del 90% nei confronti del dollaro.
Quello che era uno dei Paesi più ricchi del Medio Oriente, pur con tanti problemi, a marzo dell’anno scorso ha dichiarato bancarotta per la prima volta nella sua storia.
La situazione, a due anni da questo accadimento disastroso, è tutt’altro che in ripresa. Il Paese è al collasso politico ed economico. La principale forza politico-militare libanese resta Hezbollah, organizzazione sciita e filo iraniana. Mancano le risorse per far fronte alle esigenze primarie degli abitanti, come i farmaci o la corrente elettrica, che in molte città o quartieri non è ancora stata ripristinata. Così, le strade sono al buio, negli ospedali non è possibile operare, nelle case non si può utilizzare alcun elettrodomestico, la conservazione dei cibi non è quasi più possibile, gli ascensori non funzionano. Le condizioni sanitarie sono drammatiche. I medici scappano altrove, quelli che rimangono devono trovare carburante di contrabbando per poter operare o tenere accesi i macchinari per analisi ed esami.
La situazione in Libano non accenna a migliorare. Nelle ultime ore, durante un incontro con il sottosegretario generale delle Nazioni Unite, Amina Mohammad, Il primo ministro libanese, Najib Miqati, ha chiesto il sostegno delle Nazioni Unite alla sicurezza alimentare del Libano, secondo il piano Onu per far fronte alle ripercussioni della la guerra in Ucraina. Infatti, la guerra tra Ucraina e Russia, sta avendo conseguenze devastanti in Libano aumentando la situazione di povertà estrema in cui versa la popolazione. Nell’incontro con il sottosegretario generale dell’Onu, Miqati ha anche invitato le Nazioni Unite a “sostenere il Libano nell’affrontare le molteplici sfide derivanti dalla crisi degli sfollati siriani”, una crisi che ha colpito il Paese dall’inizio della guerra in Siria nel 2011 in tutti i settori: sociale, economico, sicurezza e politico.
1) Per approfondire, “Hezbollah in Libano: tra politica e lotta armata”, pubblicato sempre su questa pagina il 4 Marzo 2021.
Fonti consultate
- https://www.internazionale.it/reportage/helene-sallon/2022/03/07/libano-generatori
- http://www.vita.it/it/article/2021/10/20/il-libano-al-collasso/160808/
- https://www.agenzianova.com/news/libano-il-premier-miqati-chiede-sostegno-onu-sulla-sicurezza-alimentare/
- https://open.spotify.com/show/6fGIRvQ13zu1g1lyesyiqk

Negli ultimi mesi le decennali tensioni tra Israele ed Iran hanno raggiunto un punto critico mai raggiunto finora. Le cause di questa situazione sono da rintracciare in Siria e nella guerra che si è combattuta.
I rapporti fra Israele ed Iran si sono incrinati successivamente alla rivoluzione islamica iraniana del 1979 che ha trasformato l’Iran in una repubblica islamica sciita su principi religiosi. La figura simbolo del cambio di politica estera è rappresentata dall’ayatollah Ali Khamenei che nel 1981 è succeduto alla carica di Presidente dell’Iran al capo della rivoluzione Ruhollah Khomeini, e che oggi, dal 1989, mantiene la carica di Guida Suprema del Paese. Khamenei ha sempre incarnato una politica anti-occidentale, soprattutto contro gli Stati Uniti, e mirata all’affermazione dell’Iran in Medio Oriente. Il periodo in cui i rapporti fra Israele ed Iran si deteriorano definitivamente è quello seguente alla caduta del regime di Saddam Hussein nel 1991, in cui la retorica iraniana avvia la propria opera di demonizzazione verso gli USA e Israele che continua ancora. Infatti la Guida Suprema Khamenei insieme ai suoi collaboratori, non hanno mai nascosto le loro convinzioni rilasciando numerose dichiarazioni, dai caratteri molto forti, in cui annunciavano senza mezzi termini la distruzione d’Israele. Da questi accadimenti, Israele individua nell’Iran una seria minaccia alla propria sicurezza e all’equilibrio in Medio Oriente, e rafforza i propri confini soprattutto verso il Libano dove è nota la collaborazione fra l’Iran e il gruppo militare sciita Hezbollah che attacca ripetutamente il territorio israeliano. Le tensioni aumentano in occasione degli eventi che seguono lo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011 che vedono l’Iran intervenire attivamente nel conflitto insieme ad Hezbollah, con la possibilità di creare basi militari in Siria da cui attaccare Israele. La reazione dello stato ebraico, che fino a quel momento non era intervenuto, non si fa attendere e, oltre a definire delle “linee rosse” sull’espansione iraniana in territorio siriano superate le quali afferma di lanciare un’offensiva militare, si realizza in bombardamenti contro veicoli trasportanti armi e agenti operativi di Hezbollah o più recentemente contro basi militari e depositi di armi iraniani presenti specialmente nel sud della Siria. In agosto l’esercito israeliano ha affermato di aver compiuto, solo nell’ultimo anno e mezzo, oltre 200 raid aerei in territorio siriano, numero che, specialmente con l’aumento delle tensioni negli ultimi mesi, presenta oggi un bilancio molto più alto; attacchi che il governo israeliano non ha mai confermato. Il riferimento all’aumento delle tensioni fra Israele ed Iran si precisa in data 8 maggio 2018 quando il presidente americano Donald Trump ha deciso di uscire dall’accordo sul nucleare del 2015 del 2015 – il trattato, di 100 pagine e 5 allegati, prevedeva la rimozione delle sanzioni internazionali imposte all’Iran (eliminazione e non sospensione), a fronte di una serie di restrizioni al programma nucleare di Teheran – promosso dal suo predecessore Barack Obama, e di rinnovare le sanzioni contro l’Iran, assecondando in questo modo le preoccupazioni del governo israeliano. Infatti, lo stato ebraico si è sempre preoccupato della possibilità che Teheran si possa dotare di armi nucleari e si è fatto sostenitore di una linea d’azione dura contro lo stato guidato dal Presidente Hassam Rouhani. La reazione del governo iracheno è stata molto netta, dichiarando che, in mancanza di nuovi negoziati per salvare l’accordo, di essere pronti a riprendere il prima possibile l’arricchimento dell’uranio. Il secondo evento critico fra Tel Aviv e Teheran è stato l’annuncio degli Stati Uniti di cominciare a ritirare le proprie truppe dal territorio siriano a gennaio di quest’anno. Questa notizia ha generato forte preoccupazione in Israele per le possibilità delle milizie irachene e di Hezbollah di estendere la propria presenza e libertà d’azione in Siria e di rivolgerle contro Israele. Difatti queste preoccupazioni si sono tradotte in realtà: nella notte di domenica 20 gennaio il sistema di difesa aereo israeliano ha intercettato in volo un missile terra-terra iraniano diretto contro le alture del Golan che, come sostiene il portavoce militare israeliano, sia di fabbricazione iraniana e che non sia mai stato usato nella guerra in Siria ma intromesso in territorio siriano con l’unico intento di attaccare Israele. La risposta d’Israele non si è fatta attendere e il 21 gennaio è stato effettuato un raid aereo contro postazioni iraniane nei pressi di Damasco, provocando 11 morti. La novità è stata che per la prima volta Israele ha ufficialmente dichiarato il raid, indicando chiaramente l’Iran come nemico da combattere in nome dell’autodifesa. Dall’altra parte lo stato iraniano non ha mancato l’occasione per lanciare una nuova minaccia: “siamo impazienti di combattere il regime sionista ed eliminarlo dalla Terra” a cui ha replicato il premier israeliano Benjamin Netanyahu “non possiamo ignorare le esplicite dichiarazioni di Teheran sulla sua intenzione di distruggerci così come sostenuto dal comandante dell’aviazione iraniana. Israele dunque non può soprassedere sugli atti di aggressione dell’Iran e ai suoi tentativi di rafforzarsi militarmente in Siria. Chi cerca di colpirci, noi lo colpiamo. Chi minaccia di distruggerci subirà le conseguenze”. Perciò, in questo momento la situazione in Siria e le tensioni, critiche, fra Israele ed Iran sono molto vicine al punto di rottura. Non è tuttavia un caso che la linea dura recentemente adottata dal primo ministro israeliano Netanyahu avvenga in piena campagna elettorale in vista delle elezioni parlamentari del 9 Aprile.
La guerra sta svolgendo al termine, siamo a un punto di svolta. L’esercito iracheno è a pochi metri dal centro di Mosul. Si avvicina la fine della sanguinosa guerra contro il gruppo Stato islamico (Is). Il capo della polizia federale ha annunciato che le forze irachene controllano il ponte di ferro sul fiume Tigri, e che si trovano ormai ad appena 800 metri dalla Grande moschea, il luogo dove il leader dell’Is Abu Bakr al Baghdadi fece la sua prima e ultima apparizione per proclamarsi califfo dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante.
Sorge dunque un grosso interrogativo su quello che sarà il futuro dell’Iraq. La nazione appare adesso in forte stato di debolezza, non è chiaro a nessuno quale saranno le posizioni adottate dagli uomini di potere che adesso sono tutti coalizzati contro il nemico comune, lo Stato Islamico. Inoltre, si teme che il cambio di presidenza negli Stati Uniti esponga l’Iraq ad un nuovo controllo politico manovrato dalla potenza americana, che potrebbe usare il controllo del paese per fare guerra all’Iran. Intanto, come riporta Internazionale “Il primo ministro Haider al Abadi è da poco tornato da un’importante visita negli Stati Uniti, dove ha incontrato il presidente Donald Trump e i suoi collaboratori. Non ha dichiarato nulla, ma sembra che Washington comincerà a fare pressioni sull’Iran dall’Iraq chiedendo una riduzione delle milizie sciite (sostenute da Teheran) dopo la fine della battaglia di Mosul.”
Sicuramente nei prossimi mesi l’Iraq si risveglierà dalla fine del conflitto con le ferite che lascia una guerra e con una situazione politica confusa e per niente chiara. Risolvere quest’incertezza, sarà il primo passo per una ricostruzione solida del paese.
“Il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo […] perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2, 8-15).
Il giardino dell’Eden, il paradiso terrestre: scorrendo le pagine del libro della Genesi, non sempre ci si accorge di un preciso riferimento riguardo la collocazione della prima dimora dell’uomo, che corrisponderebbe all’attuale Iraq. L’antica terra della Mesopotamia, culla della civiltà, al giorno d’oggi è lacerata da estrema violenza e odio. L’espansione fulminea e inaspettata (anche se sicuramente non imprevedibile) dell’ISIS nel corso di pochi mesi ha infatti ridotto l’Iraq a uno stato paragonabile ad un inferno creato dagli uomini. Anche col passare degli anni la pace sembra essere lontana dal paese, dove migliaia di anni fa visse il “padre dei popoli” e grande patriarca delle tre religioni che dal suo nome prendono l’appellativo di “abramitiche”.
All’inizio degli anni 2000 nel paese è scoppiata la seconda guerra del Golfo con l’invasione da parte di una coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti d’America, culminata nella destituzione del governo sunnita di Saddam Hussein (poi giustiziato) e l’istituzione di un governo sciita. Il cambio al vertice ha provocato molti malumori nella popolazione (a maggioranza sunnita), che non si sentiva più rappresentata, ed ha provocato l’insorgere di spinte sempre più estremiste in alcune zone del Paese. L’estremizzazione di questa situazione ha favorito la nascita di quello che poi sarebbe stato conosciuto come ISIS, inizialmente solo un ambiguo concorrente di al-Qāʿida.
Dopo la morte di Hussein, dal 2012 al 2017 in Iraq si è combattuta una guerra civile (al pari forse di quella siriana, ma sicuramente messa in ombra da quest’ultima) che ha visto dapprima il dilagare Daesh, che proprio a Mosul aveva trovato la capitale, poi la riconquista irachena.
I cittadini iracheni si trovano in difficoltà tutt’oggi. La guerra ha causato numerosi danni sia all’industria che all’agricoltura rendendo il paese dipendente dalla vendita del petrolio, la sua unica fonte di profitto, grazie al quale lo stato può acquistare beni di prima necessità come medicine e alimenti. Un altro grave problema, che ha causato un alto tasso di disoccupazione in tutta la nazione, è la corruzione e la mancanza di leggi che regolano il mercato ed il lavoro . Per questa ragione ad ottobre dell’anno scorso molti cittadini sono scesi in piazza per protestare contro l’attuale governo che ha reagito reprimendo le proteste in maniera violenta causando numerosi morti e feriti. Non solo: il popolo si ribella ad un governo sciita strettamente legato all’Iran, tanto che le truppe irachene sono spesso addestrate in Iran, basti pensare al fatto che il raid aereo americano che ha ucciso il generale iraniano Soleimani è avvenuto proprio a Baghdad. In assenza di una vera e propria leadership nazionale l’Iraq, sin dall’inizio dell’anno corrente, si trova sempre più coinvolto nello scontro tra l’Iran e gli USA, venendo colpito da numerosi attacchi missilistici che peggiorano la situazione nel paese. La diffusione di Covid-19 su questo sfondo mette il paese sull’orlo del precipizio, aggiungendo alle sue sofferenze la minaccia di un eventuale collasso del sistema sanitario.
È proprio in questo contesto che è necessario raccontare della sofferenza della popolazione cristiana presente nel paese (rappresentata prevalentemente dai cattolici di riti orientali, come quelli della Chiesa cattolica caldea e sira, ma anche da fedeli delle Chiese ortodosse orientali). Dopo l’invasione americana del 2003 e il caos della guerra civile il numero dei cristiani iracheni si è ridotto di più dell’83%. La maggior parte di essi è dovuta fuggire in seguito alle numerosissime minacce degli estremisti islamici, culminanti alla fine nella violenza perpetrata dai terroristi dell’ISIS. Quelli che hanno avuto il coraggio di rimanere non hanno altra scelta che essere sempre pronti al martirio in assenza di protezione adeguata. Stando ai dati dell’associazione “Open Doors”, l’Iraq occupa uno dei primi posti al mondo tra i paesi dove i diritti dei cristiani sono maggiormente lesi.
La terra irachena, impregnata di sangue, rimane una ferita dolorosa sul corpo della famiglia umana. L’immenso caos creatosi anche a causa dell’ipocrisia, della mancante responsabilità, dell’egoismo e dell’assenza di valori che caratterizzano il sistema internazionale, persiste ormai da decenni. Eppure, se si può individuare un segno di speranza in un tale contesto, quello è rappresentato proprio dalla perseguitata e marginalizzata minoranza cristiana. Infatti, è proprio nel contesto della sua sofferenza immensa che si sviluppa quello che viene definito come “ecumenismo dei martiri”, cioè la testimonianza comune di fedeli di varie Chiese che prescinde dalle differenze confessionali pur di preservare la sostanza della fede in condizioni estreme. È proprio dall’unità dei cristiani, in quanto presupposto per la convivenza pacifica tra tutti i figli di Abramo, che può iniziare una vera trasfigurazione del mondo. Finché ognuno di noi non si impegna a realizzare, per quanto è possibile, questi compiti fondamentali, la sofferenza dell’Iraq deve essere davanti agli occhi di tutti come un monito all’azione, alla preghiera e alla solidarietà.

Nell’ultimo mese stiamo assistendo ad una forte presa di posizione della Turchia che riguarda la guerra in Siria, in particolare a Nord-Est, territorio al centro della zona dove abita la gran parte dell’etnia curda. Non è un mistero infatti che al presidente turco non vadano a genio i curdi, specialmente quando si mettono in testa di voler far politica, tanto che il Pkk è passato dall’essere un partito all’essere un gruppo di terroristi fuori legge. Riportiamo qui di seguito la testimonianza di un giornalista italiano fermato al confine tra Turchia ed Iraq (da poco nel nord dell’Iraq si è tenuto un referendum, seppur non riconosciuto, per l’indipendenza del Kurdistan iracheno).
“«Siamo dell’antiterrorismo, dobbiamo farle alcune domande, da questa parte prego». Inizia così un controllo subito venerdì scorso da chi scrive, alla frontiera tra Turchia e Kurdistan iracheno, di rientro in Italia dopo una decina di giorni a Erbil. Che il passaggio su questo tratto di confine fosse laborioso già si sapeva, ma nel caso in questione è parso chiaro che c’era qualcosa di insolito. Insolito perché dopo essermi visto negare il timbro di ingresso dall’operatore turco, sono stato accompagnato in una struttura poco lontana, dove ha avuto inizio qualcosa di molto simile a un interrogatorio.
Le domande si sono susseguite per circa 90 minuti. Non è normale, almeno da queste parti non mi era mai accaduto. Così come non era ancora accaduto di trovarmi a rispondere a quattro giovani agenti dell’antiterrorismo, ostinati a chiedere dove avessi «incontrato i membri del Pkk?», poi ancora se avevo «conosciuto persone ostili alla Turchia?», «di quali temi ti occupi principalmente… le tue posizioni politiche?», «hai incontrato qualcuno dell’Isis?» e così via, a lungo, con un’intensità crescente. Il tutto gestito dal gruppo dei quattro, assieme, per poi ricominciare dall’inizio, con le stesse domande poste singolarmente, a turno, aggiungendo la pretesa di visionare le immagini salvate nel telefono, le chiamate effettuate, le foto salvate nella reflex, i contatti di cittadini arabi… quindi la consegna del registratore audio per scaricare i contenuti… infine i bagagli. Il tutto alternato da improbabili telefonate «all’ufficio di Ankara» per conferme sulla veridicità delle mie risposte.
Nulla di estremo nell’atteggiamento degli agenti, sia chiaro, e alla fine la realtà dei fatti è stata una sola: tutti i documenti erano in regola e comprensibili, a partire da quel foglio con su scritto “assignment” e dal tesserino da giornalista. Dopo un’ora e mezza di torchio, i quattro capiscono e mi congedano «ci scusiamo ma è il nostro lavoro, è stato aumentato il livello di allerta per intercettare terroristi in fuga». Ammesso in Turchia dunque, portando con me un solo dubbio, in merito a quell’ultima frase: «intercettare terroristi in fuga». In fuga da cosa? Perché proprio in quel momento è stato aumentato il livello di sicurezza? Conoscenti transitati sulla stessa via pochi giorni prima non avevano avuto alcun problema. Il motivo dell’inasprimento dei controlli l’ho compreso il giorno seguente, dopo essere atterrato a Venezia.
Il tutto si è verificato poche ore prima dell’inizio dei bombardamenti aerei nell’enclave curda di Afrin, sul confine turco-siriano, cui è seguito l’attacco di terra. L’operazione avviata da Ankara e chiamata “Ramo d’Ulivo” era attesa da tempo, e punta a ridurre l’area sotto il controllo del Ypg, la milizia curda legata al partito Pyd, componente maggioritaria delle Syrian Democratic Forces (Sdf), principali alleati siriani degli Stati Uniti nella guerra allo Stato Islamico. All’avvio dell’operazione, annunciata da tempo da Erdoğan, mancava una motivazione valida. Questa è giunta il 13 gennaio, quando gli Stati Uniti hanno dichiarato di voler creare una “forza di sicurezza al confine” da 30mila uomini, metà dei quali appartenenti alle Sdf.
Dunque ancora la frontiera turca, dove dal 2011 a oggi sono transitati milioni di uomini, donne e bambini, siriani e iracheni, in fuga da alcuni dei conflitti più cruenti del nostro tempo. Sono stati loro ad alimentare l’esodo che abbiamo imparato a conoscere. Il più massiccio dall’epoca della Seconda guerra mondiale. Una marcia per la salvezza diretta in Europa, passata attraverso i sottoscala di Smirne a cucire giubbotti di salvataggio. Un giorno dopo l’altro con il capo chino, bambini inclusi, per accantonare quanto basta a soddisfare i passeur e proseguire il viaggio tra i flutti dell’Egeo, poi nel fitto di colonne arenate nel fango balcanico. Alla fine per molti è arrivata l’Europa, con le sue promesse disattese e una democrazia ingabbiata tra muri e contraddizioni.
Ecco che i confini, incluso quello turco-iracheno, sono ora il luogo in cui intercettare eventuali «sostenitori dei terroristi» del Ypg (queste le parole usate dagli agenti), formazione considerata da Ankara un continuum del Pkk. Perquisizioni e interrogatori il metodo per smascherarli. Domande simili o quasi sono toccate ad altri colleghi, nelle ore o nei giorni seguenti. L’ho riscontrato spulciando in rete. Alcune delle loro testimonianze hanno trovato spazio nei canali opportuni, sui social, per condividere l’accaduto e magari informare quanti si stanno avvicinando alla Turchia meridionale. Proposito che condividiamo con questo post, augurandoci che per qualcuno possa essere un buon viatico.” (Emanuele Confortin, 28 Gennaio 2018)
Alla luce di questi fatti si potrebbe dire che nel Nord della Siria sia iniziata una nuova guerra. Sabato 20 gennaio soldati turchi e combattenti dell’Esercito libero siriano – coalizione di gruppi ribelli che per anni ha cercato di destituire il presidente Bashar al Assad – hanno cominciato un’operazione militare contro i curdi dell’Unità di protezione popolare (Ypg) nella zona di Afrin, nel nord-ovest della Siria. Il governo turco ha iniziato l’offensiva dopo che gli Stati Uniti avevano annunciato di voler aiutare i curdi – loro alleati nella guerra contro lo Stato Islamico – a dotarsi di una specie di guardia di frontiera per evitare l’infiltrazione dei terroristi nel loro territorio. La Turchia però aveva interpretato la mossa come un tentativo di rafforzare lo stato curdo, una cosa ritenuta inaccettabile, e aveva agito di conseguenza.
Finora le operazioni militari turche si sono limitate a obiettivi attorno ad Afrin, che si trova a 40 chilometri a nord di Aleppo e a circa 120 chilometri a ovest della principale area controllata dai curdi in Siria. Non è chiaro quanto territorio abbiano già conquistato i turchi e l’Esercito libero siriano, ma sembra che le operazioni stiano andando a rilento.
L’operazione militare ad Afrin sta provocando diverse tensioni tra paesi e gruppi presenti nel nord della Siria. Anzitutto sta creando molti problemi agli Stati Uniti, che sono alleati sia dei curdi siriani che della Turchia. Per il governo americano è indispensabile mantenere buoni rapporti con i curdi, che si sono dimostrati il suo alleato più prezioso nella guerra contro lo Stato Islamico; allo stesso tempo, rovinare le relazioni con la Turchia vorrebbe dire creare un problema enorme nella NATO (organizzazione di difesa di cui fanno parte anche i turchi) e rinunciare a un importante alleato nella politica del Medio Oriente. Finora gli Stati Uniti sono riusciti a tenere in piedi entrambe le alleanze, ma con l’operazione militare ad Afrin le cose potrebbero cambiare e gli americani potrebbero doversi schierare in maniera netta da una parte o dall’altra.
Un altro paese importante ad Afrin è la Russia, che è alleata di Assad e mantiene rapporti non conflittuali con i curdi. Non è ancora troppo chiaro quale sia la posizione dei russi nel conflitto iniziato nel nord della Siria: il governo russo ha probabilmente dato una specie di via libera alla Turchia, anche perché in caso contrario gli aerei da guerra turchi si sarebbero scontrati con quelli russi, che controllano lo spazio aereo sopra Afrin. La Russia però non ha confermato: probabilmente perché non vuole compromette del tutto i suoi rapporti con i curdi, ma anche perché la Turchia è avversaria del regime di Assad, che invece è amico dei russi (e infatti qualche giorno fa il governo siriano aveva minacciato di abbattere gli aerei turchi, se fossero arrivati ad Afrin). Secondo alcuni analisti, la Russia potrebbe avere chiesto in cambio alla Turchia di chiudere un occhio sugli attacchi del regime di Assad nella provincia siriana di Idlib, controllata dai ribelli.
Non è chiaro quanto durerà l’operazione turca in Siria. Il presidente ha detto ieri ad Ankara che la Turchia non si fermerà finché «il lavoro non sarà finito». L’idea prevalente è che l’operazione si stia verificando nell’area di influenza russa, con il via libera dei russi e la non totale opposizione degli americani. Rimane il dubbio che la Turchia non si voglia fermare solo ad Afrin, e a quel punto le posizioni delle grandi potenze coinvolte in Siria potrebbe cambiare.
Il presidente libanese Michel Aoun è arrivato oggi in Giordania per la sua prima visita dopo la sua elezione, lo scorso ottobre, che ha posto fine ad una vacanza istituzionale di due anni e mezzo.
Aoun, che guida una numerosa delegazione, è stato accolto all’aeroporto Marka dal re Abdallah, con il quale ha in programma colloqui sugli sviluppi regionali e su questioni di mutuo interesse, sottolinea l’agenzia giordana Petra. I due Paesi arabi dovrebbero firmare una serie di accordi di cooperazione nei settori dei trasporti e dell’energia.
Il Libano e la Giordania sono i Paesi che, insieme con la Turchia, ospitano il più alto numero di rifugiati siriani. Il presidente libanese è arrivato ad Amman dall’Egitto, dove ieri ha incontrato il presidente Abdel-Fattah el-Sissi.
L’offensiva diplomatica di Aoun, che guida una fazione cristiana libanese alleata con il partito sciita filo-iraniano Hezbollah, è diretta a ricucire i rapporti con diversi Paesi arabi della regione allarmati dall’influenza di Teheran.