
The people who have trusted us so far

S(Photo by Italian Navy / Marina Militare/Anadolu Agency/Getty Images)
Meno arrivi dalla Libia ma crescono la rotta algerina e tunisina
Il blocco delle partenze di migranti diretti in Italia dalla costa libica ha avuto come effetto quello di spingere queste persone a individuare soluzioni alternative per raggiungere l’Europa. La scelta, stando a quello che emerge dai numeri, è caduta su Algeria, Tunisia e in parte anche sulla Turchia. Destinazione, nei primi due casi: le spiagge della Sardegna e della Sicilia. A raccontare questa storia sono i dati raccolti dall’Unhcr (United Nations High Commissioner for Refugees). L’Agenzia Onu per i rifugiati ha monitorato gli arrivi fino al 6 settembre, dimostrando che il numero delle persone che hanno attraversato il Mediterraneo dalla Libia all’Italia è fortemente calato.
A luglio circa 11mila persone, salpate dalla Libia, hanno raggiunto le nostre coste. Ad agosto poco più di 2mila, il numero più basso degli ultimi quattro anni per lo stesso periodo di riferimento. Questa diminuzione è stata tuttavia accompagnata da un aumento degli arrivi da due paesi del Nord Africa. Il primo è l’Algeria: ad agosto 153 persone hanno puntato su questo paese per raggiungere l’Italia (a luglio nessuno). Segno più anche per la rotta che unisce la Tunisia con il nostro Paese: 166 persone a luglio; 366 ad agosto. I migranti hanno guardato anche alla Turchia: a luglio sono giunte in 314 da quel paese (ad agosto sono diventati 430). Segno meno – anche se non riguarda la Penisola italiana – per un’altra rotta di migrazione, quella che da Algeria e Marocco raggiunge la Spagna: 2.657 persone a luglio, 1.518 ad agosto. La maggior parte degli arrivi in Europa lungo la rotta del Mediterraneo, spiega inoltre il rapporto dell’agenzia Onu, sono costituti da persone di nazionalità siriana, marocchina e nigeriana.
“Nei mesi scorsi la rotta via mare verso la Grecia ha guadagnato popolarità, gli arrivi via mare in Italia sono diminuiti e abbiamo assistito ad una crescente diversificazione dei viaggi intrapresi da migranti e rifugiati per raggiungere l’Europa”, riferisce Pascale Moreau, direttrice dell’Ufficio per l’Europa dell’Unhcr. Circa l’80 per cento degli arrivi via mare in Grecia sono costituiti da siriani, iracheni e afghani, di questi due terzi sono donne e bambini. Parallelamente, la Spagna ha visto un aumento del 90 per cento degli arrivi via terra e via mare nel terzo quadrimestre del 2017, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La maggior parte di questi – 7.700 persone – arriva da Marocco, Costa d’Avorio e Guinea, ma gli arrivi via terra sono costituiti per la maggior parte da siriani.
Il rapporto evidenzia inoltre la ripresa, nel corso dell’estate, degli arrivi in Romania dalla Turchia, attraverso il Mar Nero (per la prima volta dal febbraio del 2015) così come un massiccio incremento degli arrivi a Cipro da inizio anno. “Nonostante la riduzione degli arrivi attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, migliaia di persone continuano ad intraprendere viaggi disperati verso l’Europa”, spiega ancora Moreau, che ha sottolineato con profonda preoccupazione che al 20 novembre quasi 3.000 persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare e altre 57 via terra o ai confini europei nel 2017. I numeri effettivi potrebbero essere più alti, ha aggiunto.
Il rapporto sottolinea inoltre la difficile situazione che vivono molte donne e ragazze vittime di tratta e quella di 15.200 minori non accompagnati e separati che sono arrivati in Europa quest’anno. E mostra poi che i movimenti di persone che cercano di oltrepassare i confini terrestri continuano anche negli ultimi tre mesi, nonostante i respingimenti ad opera di alcuni Paesi. Queste pratiche dovrebbero essere investigate ed eliminate, si legge nel rapporto.
“L’Unhcr continua a chiedere maggiore accesso a vie legali e sicure, quali il ricongiungimento familiare e il reinsediamento in Europa. È importante anche assicurare che le persone abbiano accesso alle procedure di asilo nei paesi europei”, ha detto Moreau. “Siamo estremamente grati per i contributi finora effettuati dagli Stati, tuttavia serve ancora molto per soddisfare la richiesta di 40.000 posti di reinsediamento effettuata lo scorso settembre per i rifugiati che si trovano in 15 paesi prioritari lungo la rotta del Mediterraneo centrale”, ha concluso.
(Unhcr.Swissinfo,Ansa)
Beirut, Libano – Il governo di nuova costituzione del Libano, che conferisce al movimento islamista i ministeri chiave di Hezbollah, ha sollevato preoccupazioni sul fatto che il paese potrebbe incorrere in sanzioni contro gli Stati Uniti che proibiscono il sostegno materiale al gruppo sostenuto, Venerdi, gli Stati Uniti hanno avvertito Hezbollah di non appoggiare la sua agenda con la sua nuova posizione, che include posti chiave nel governo del Libano, incluso il Ministero della Salute.
Gli ufficiali americani sono preoccupati che Hezbollah userà il ministero per fornire assistenza sanitaria e patrocinio sovvenzionato dallo stato ai suoi sostenitori e forse anche ai suoi combattenti, aiutandolo a sopportare la punizione delle sanzioni americane che hanno reso difficile per il gruppo offrire i suoi soliti servizi sociali ai suoi Base musulmana sciita.
“Chiediamo al nuovo governo di garantire che le risorse e i servizi di questi ministeri non forniscano sostegno a Hezbollah”, ha detto un portavoce del Dipartimento di Stato, Robert Palladino
Mentre il nuovo governo si coalizzava giovedì dopo quasi nove mesi di stallo politico, l’assistente segretario del Tesoro degli Stati Uniti per il finanziamento del terrorismo, Marshall Billingslea, avvertì Hezbollah che se avesse tentato di “sfruttare questi ministeri per incanalare denaro o intraprendere altre attività a sostegno dei loro agenda terroristica, allora avremo preoccupazioni significative “.
Ci si aspettava che Hezbollah guadagnasse forza nel governo dopo che il gruppo e i suoi alleati hanno esteso la loro quota di seggi nelle elezioni parlamentari libanesi lo scorso maggio, indebolendo in modo significativo il primo ministro appoggiato dall’Occidente, Saad Hariri, e il suo blocco. Ora che ha conquistato il controllo del Ministero della Salute, che ha il quarto più grande budget del governo, la sua capacità di incorporarsi nelle istituzioni statali libanesi ha reso sia un obiettivo più ampio che una preda più elusiva per gli Stati Uniti, che ha designato come un gruppo terroristico.
Il sistema politico libanese conferisce incarichi e patrocinio ai politici di diverse affiliazioni religiose al fine di mantenere un equilibrio tra le 18 sette religiose ufficialmente riconosciute. C’è una lunga storia di ministri di ogni tipo che usano il ministero della salute per fornire assistenza sanitaria gratuita o sovvenzionata ai sostenitori. Gli analisti credono che Hezbollah possa tentare di fare lo stesso, sia per la sua base sciita o, più preoccupante per gli Stati Uniti, per i combattenti di Hezbollah feriti nella guerra civile siriana della porta accanto.
“Questo è un altro esempio di Hezbollah che tiene apertamente in ostaggio la sicurezza e la prosperità del Libano”, ha detto Rachel Mikeska, portavoce dell’Ambasciata americana in Libano. Ha aggiunto che gli Stati Uniti erano “pronti a prendere tutte le azioni necessarie per proteggere gli interessi del popolo libanese”.
Ha rifiutato di dire quali potrebbero essere queste azioni. Ma gli analisti hanno detto che le possibilità andavano dal relativamente moderato – come ridurre i finanziamenti al Ministero della Salute e spremere gli altri donatori internazionali, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a fare lo stesso – fino alla morte. Gli Stati Uniti potrebbero teoricamente imporre sanzioni agli ospedali libanesi, impedire l’esportazione di farmaci americani in Libano o tagliare gli aiuti militari americani all’esercito libanese.
Non è chiaro cosa Hezbollah potrebbe fare al ministero della salute che l’amministrazione Trump considererebbe una violazione della legge sulle sanzioni firmata dal presidente Trump in ottobre. Gli analisti hanno detto che Hezbollah potrebbe aver scelto il dott. Jamil Jabak, un internista di 63 anni con stretti legami con Hezbollah, come ministro della salute per cercare di evitare sanzioni dirette sul ministero. Il Dr. Jabak non è un membro di Hezbollah, ma si dice che abbia servito un tempo come medico personale per il leader del gruppo.
“Washington considererebbe l’assistenza sanitaria gratuita ai membri di Hezbollah forniti dal Ministero della Salute come esempio di” significativo sostegno finanziario? “Ha scritto Michael Young, osservatore politico e giornalista presso il Carnegie Middle East Centre di Beirut, in una colonna di opinione l’anno scorso . “È difficile dire che non lo farebbe mai.”
I vari interessi degli Stati Uniti in Libano finiscono spesso in conflitto, anche quando si tratta di Hezbollah: vuole contrastare l’Iran ei suoi delegati, ma anche mantenere la stabilità del Libano man mano che la guerra in Siria continua a bruciare; vuole anche combattere il terrorismo e respingere l’influenza russa in Medio Oriente.
Sebbene Washington abbia designato Hezbollah come un’organizzazione terroristica per le sue azioni in tutto il mondo e le sue strette relazioni con l’Iran, il gruppo si è anche cimentato in parti legittime dello stato libanese, rendendo difficile per gli Stati Uniti prenderlo di mira senza influenzare anche il resto del paese.
“Il dibattito negli Stati Uniti sul Libano è sempre su quale priorità e su come bilanciare queste priorità in competizione”, ha detto Firas Maksad, direttore della Arabia Foundation, un think tank con base a Washington che si spinge verso l’Arabia saudita e l’anti- Politiche Iran.
Ma Kassem Qassir, un analista politico libanese vicino a Hezbollah, ha detto che le preoccupazioni sul predominio di Hezbollah sono state esagerate.
“Nessuno può avere il controllo esclusivo sul Libano, né su Hezbollah né su nessun altro”, ha affermato. “Il Libano è un paese diverso”.
In un’intervista televisiva di sabato, Hassan Nasrallah, segretario generale dell’organizzazione, ha affermato che il gruppo non intende interferire con gli equilibri di potere del Libano.
Ma il signor Maksad ha notato che Hezbollah è riuscito a stringere patti con politici cristiani e sunniti e sciiti, poi ha tenuto sotto controllo la formazione del nuovo governo fino a quando il primo ministro, un sunnita, ha accettato di consentire l’ingresso degli eletti sunniti di Hezbollah nel governo – un segno inconfondibile della sua forza.
Dei nuovi volti nell’armadietto da 30 posti, fu il dottor Jabak, il medico che guidava un ministero strettamente sorvegliato dall’Occidente, che attirò l’attenzione più immediata.
www.nytimes.com/2019/02/01/world/middleeast
Richieste frequenti, che vanno dalle richieste socio-economiche alle richieste di formazione del governo, hanno scandito il giorno di ieri. Il fenomeno dei giubbotti gialli francesi sembra aver davvero conquistato la scena libanese. Testimone di una lunga giornata di manifestazioni di ieri, segnate da una manifestazione a Beirut e altri sit-in minori a Tripoli e Mina nel nord, e in Nabatiya e Tiro nel sud.
Le proteste nella capitale sono iniziate ieri a mezzogiorno, place des Martyrs, prima che i manifestanti facessero un giro in diverse zone della città, poi tornassero alla piazza Riad el Solh e finissero la loro manifestazione intorno alle 19h. Citata dal canale LBCI, alcuni manifestanti hanno detto che il loro movimento riprenderà mercoledì dopo Natale. Se gli organizzatori di questo evento, che sono apparsi sui social network, per il momento sono sconosciuti, nonostante le speculazioni, un gran numero di manifestanti indossava giubbotti gialli, nella maniera del movimento che ha protestato per diverse settimane in Francia. Diverse persone presenti sul posto hanno assicurato a L’Orient-Le Jour di farsi da sole per denunciare una situazione socio-economica sempre più deleterio. Inoltre, decine di manifestanti affiliati al partito Sabaa hanno preso parte al sit-in a Beirut, che ha guadagnato loro molti critici. Va notato che una manifestazione simile avviata dal Partito Comunista Libanese si è svolta a Beirut domenica scorsa.
Chiesto da L’Orient-Le Jour riguardo al rischio di “una ripresa politica della manifestazione, l’attivista Hamza Halabi ha respinto questa possibilità”. “I partiti politici non hanno nulla a che fare con questo rally. Ci sono persone di tutte le regioni, perché la fame e la povertà che ci riguardano sono inaccettabili (…) Se non c’è un governo presto, la gente tornerà sicuramente in fondo alla strada … Questo è solo l’inizio “, dice.
Per quanto riguarda le richieste dei manifestanti, espresse esplicitamente, si sono concentrate su rivendicazioni socio-economiche relative a prezzi del carburante più bassi, accesso all’acqua e all’elettricità e una soluzione al
problema. disoccupazione giovanile. I manifestanti chiedono anche una tessera sanitaria, poiché Hezbollah sta cercando il Ministero della Salute nel governo in erba. I manifestanti sono stati visibilmente segnati dalla morte di un bambino palestinese lunedì scorso a Tripoli, che secondo come riferito è morto perché non poteva pagare per le cure mediche. Una versione dei fatti rapidamente contraddetto dal Ministero della Salute in una dichiarazione. Molte persone hanno anche sfoggiato la kefiah palestinese ma non slogan o bandiere partigiane. Solo la bandiera libanese era sportiva.
Per Ahmad, un giovane della zona di Siddiqine (distretto dei pneumatici), “quelli che non hanno partecipato alla protesta hanno paura dei partiti politici”. “Siamo tutti affiliati alle feste, ma oggi siamo venuti di nostra spontanea volontà perché è troppo”, dice. Un altro manifestante dello stesso villaggio, Hadi, ha attaccato il ministro della sanità uscente, Ghassan Hasbani, e ha denunciato “l’alto prezzo delle medicine”.
L’effetto “gilet gialli” vince il web libanese)
“I manifestanti che hanno partecipato alla manifestazione organizzata dalla CPL e dal partito Sabaa provenivano dalla sinistra libanese e dai circoli laici. Non era più il caso Domenica movimento in cui si poteva trovare sostenitori di Hezbollah FL e cantando insieme con i tifosi delle squadre di calcio di Ansar e Nejmeh, “Mr. Dib che preso parte ad entrambi gli eventi.
Da Tripoli a Nabatiya, passando per Beirut e Tiro, lo stesso grido per esprimere la sofferenza comune e il malessere generale. Per la prima volta, sunniti, sciiti, ma anche i cristiani provenienti da ambienti modesti riuniti intorno lamentele comuni per protestare quotidiana è diventato insopportabile per un modo di continuare la popolazione impoverimento. In cima alle loro affermazioni, la riforma del sistema sanitario nel suo complesso e i posti di lavoro per una gioventù disperata.
Accanto alle persone svantaggiate della classe media, a volte con le famiglie, esprimono la loro insoddisfazione per la decrepitezza dello stato e il deterioramento della qualità della vita in generale.
“C’erano due folle: la classe popolare e coloro che venivano a esprimere la loro stanchezza di un quotidiano diventano intollerabili. Era una combinazione bizzarra e una situazione confusa, difficile da definire “, afferma un attivista.
https://www.lorientlejour.com/article/1149815/la-contagion-des-gilets-jaunes-a-t-elle-atteint-le-liban-.html
Dopo Renault, Peugeot, Boeing, Nissan e Fiat, nel paese nordafricano è arrivato anche il produttore cinese “Build Your Dreams” (Byd), leader mondiale dell’automobile elettrica. Sabato 9 Dicembre si è così svolta, nel Palazzo reale di Casablanca dove re Mohammed VI ha ricevuto l’ad. di Byd, Wang Chuanfu, la firma di un accordo che prevede la costruzione di alcune fabbriche, tra le quali una di automobili, una di batterie elettriche, una di autobus ed autocarri elettrici e una di treni. Il progetto garantirà 2.500 posti di lavoro diretti nella futura “Cité Mohammed VI Tangeri Tech”, inaugurata lo scorso marzo e realizzata dal gruppo Haite cinese, un complesso che permetterà nel suo insieme la creazione di 100 mila posti di lavoro. “Desideriamo – ha commentato Wang Chuanfu – beneficiare della situazione geografica del Marocco come porta che dà sull’Europa e sul mercato africano”.
Il ministro dell’industria, Moulay Hafid Elalamy, ha fatto sapere che tutto ciò è stato reso possibile grazie a molti fattori, tra i quali in particolare la visita del Re Mohammed VI in Cina, nel maggio 2016, durante la quale molti accordi di cooperazione bilaterali sono stati firmati, che permettono oggi agli investitori cinesi di prevedere serenamente l’ installazione di loro attività in Marocco. Questo progetto risulta, perciò, il frutto di feconde relazioni bilaterali, politiche ed economiche, con la Cina.
Leader mondiale del trasporto elettrico, BYD conta 220.000 dipendenti, distribuiti su oltre 30 siti industriali nel mondo. Con un fatturato di 17 miliardi di dollari, BYD rappresenta il 13% dei veicoli elettrici venduti nel mondo e 30% del mercato cinese, primo mercato mondiale d’automobile elettrica.
Un’ulteriore prova del processo d’industrializzazione automobilistica marocchina è stata la cerimonia presieduta Lunedì11 dicembre dal re Mohammed VI al palazzo reale di Casablanca, in cui si è proclamato l’avvio di 26 investimenti nel settore dell’automobile, per un importo totale di 13.78 miliardi di dirham (circa 1.24 miliardi di euro).
Questi nuovi investimenti dimostrano l’interesse costante del regno per attività ad alto valore aggiunto ed attestano il cambiamento in corso verso un modello economico industriale forte, sostenuto dalla fiducia di operatori di fama internazionali che investono nel programma industriale nazionale. In tale occasione è stata inoltre illustrata l’evoluzione del settore negli ultimi anni, grazie al Piano d’Accelerazione Industriale, varato il 2 aprile 2014, e grazie alle misure d’accompagnamento adottate per un’attuazione ottimale di questo piano ambizioso, in particolare in materia di formazione.
Sui 26 investimenti ben sei sono progetti dell’ecosistema Renault che sviluppa una piattaforma mondiale d’approvvigionamento con al suo centro il regno. Il produttore francese fattura un miliardo d’euro all’anno dal Marocco e raggiunge un tasso d’integrazione locale del 55%. Tredici investimenti saranno realizzati nel quadro dell’ecosistema PSA Peugeot per far emergere un polo industriale d’eccellenza a Kenitra. Cinque altri investimenti si inseriscono nel quadro di attività dell’ecosistema “cablaggio e connessione”, lanciato nell’ottobre 2014, e infine due investimenti nel quadro dell’ecosistema Valeo.
Questi progetti permetteranno la creazione di oltre 80.597 posti di lavoro, cioè il 90% dell’obiettivo prefissato per il 2020, risultando così sintomo di come il Marocco si prepari ad ottenere la leadership del settore industriale in Africa del Nord.
Nel più affollato campo profughi palestinese, Ayn al Hilwe, alla periferia di Sidone, nell’ultimo mese si sono create delle fazioni rivali che hanno iniziato a fare dei veri e propri scontri armati. Per ora si contano almeno un morto e diversi feriti. Gli scontri sono avvenuti tra miliziani di Fatah, il partito del presidente Abu Mazen e un insieme di sigle estremiste. Le agenzie delle nazioni unite sono state costrette a sospendere i servizi scolastici e sanitari. Adesso è considerato uno dei campi meno sicuri del paese a causa della presenza di gruppi etremisti e sigle radicali che giorno dopo giorno continuano a crescere. Le forze di sicurezza libanese credono anche che all’interno del campo si nascondano pericolosi terroristi provenienti dalla Siria che hanno trovato un luogo sicuro e protetto.
Oltre alla presenza di questi gruppi anche il muro che circonda il campo non aiuta a mantenere un clima tranquillo e di pace, anzi è un elemento di forte tensione dato che trasmette l’idea di prigione.
ormai sono sono passati quattro anni da quando la situazione nello Yemen è peggiorata, L’instabilità è amplificata dai conflitti interni di ogni singolo Stato, che assumono una natura regionale per coinvolgimento di altri paesi, nel contesto geopolitico mediorientale.
Ma in questo articolo vorrei innanzitutto tirare la intenzione del lettore un particolare problema cioè quello del conflitto nello Yemen e come l’influenze di alcuni paesi incideranno su finire della guerra nello Yemen.
Arabia saudita e la Siria si affrontano per l’per l’egemonia nell’area ha esacerbato ostilità già esistenti, come prova la guerra civile nello Yemen,che ne vede la partecipazione su fronti contrapposti.La precarietà politica e statuale dello Yemen nasce da una lunga storia di conflitti, scarsità di risorse economiche e violenza. Prima del 1990, lo Yemen era composto da due Stati separati, Yemen del Nord e Yemen del Sud. Nel 1962, un colpo di Stato contro la monarchia dello Yemen del Nord.
Questo portò ad una guerra civile di otto anni, che coinvolse l’Egitto, l’Arabia Saudita, la Giordania, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Lo Yemen del Sud, che ottenne l’indipendenza dall’Inghilterra nel 1967,sperimentò anch’esso una guerra civile, breve ma estremamente sanguinosa nel 1986.
Nord e Sud si unificarono nel 1990, sotto la presidenza di Ali Abdullah Saleh, che avrebbe governato per 33 anni mantenendo una presa ferrea sull’apparato militare, imponendo brutali misure restrittive ai dissidenti e posizionando familiari e uomini a lui fedeli nei ruoli chiave del Governo e dell’esercito. Tuttavia, è importante rilevare come il Governo centrale non abbia mai esercitato un pieno controllo del territorio, soprattutto delle aree rurali sia del Nord sia del Sud del Paese.
Storicamente, lo Stato yemenita ha ottenuto potere e legittimità da una rete diversificata di gruppi tribali che governavano a livello locale, piuttosto che imponendo leggi in modo uniforme in tutto i paese.
Tra il 2013 e il 2014, gli Houthi hanno continuato a scontrarsi con il Governo yemenita,nonostante la partecipazione a colloqui internazionali, volti a integrare il movimento nel Governo e nella stesura di una nuova Costituzione. Gli Houthi hanno conquistato la capitale Sana’a nel settembre del 2014, ma si sono ritirati in seguito ad un Accordo mediato dall’ONU che ha costretto Hadi anominare un Governo più inclusivo, che non è riuscito, tuttavia, a stabilizzare il Paese, poiché nel gennaio del 2015 gli Houthi hanno ripreso la capitale, costringendo alla fuga il Presidente controllando buona parte dello Yemen Occidentale.
Il 26 marzo del 2015, fu stato il principale alleato dello Yemen, l’Arabia Saudita, che fa parte di una coalizione che include il Bahrain, il Qatar, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto, la Giordania,il Marocco, il Sudan e il Senegal, ha iniziato una campagna aerea contro i ribelli Houthi.
Contemporaneamente, l’Arabia Saudita ha accusato l’Iran di sostenere, dal punto di vista finanziario e militare, gli Houthi, data l’appartenenza di entrambi allo Sciismo.
Secondo molto osservatori, la guerra civile nello Yemen si è trasformata in una guerra per procura tra Arabia Saudita e Iran per l’egemonia nella Regione.
Il rapporto di Riyadh con lo Yemen ha radici lontane e complesse allo stesso tempo; in Regione, contemporaneamente, i sauditi ritengono lo Yemen un Paese problematico fatti,eccessiva influenza nella regione e popoloso,situato proprio nel “loro cortile di casa”, che richiede, per ciò, attenzione e cautela.
Per questa ragione, i leader sauditi hanno attuato una politica di contenimento e assistenza,fornendo a qualsiasi regime fosse al potere a Sana’a un sostegno sufficiente per evitare il collasso dello Stato, anche se un certo livello di disfunzionalità è stata giudicata indispensabile.
Infatti , uno Yemen forte è sempre stato visto come una minaccia per la sicurezza interna saudita, tuttavia, negli ultimi anni, una preoccupazione costante dell’Arabia Saudita è stata il possibile crollo economico dello Yemen, il paese più povero e popoloso della Penisola Arabica, con il conseguente afflusso incontrollato di migranti economici. Nell’aprile del 2013, il regno Saudita annunciò un giro di vite sull’afflusso di operai illegali,a seguito del quale centinaia di migliaia di yemeniti furono espulsi, e la costruzione di una recinzione di 1.500 km lungo il confine saudita-yemenita, progetto finalizzato ad arginare il flusso Sud-Nord di migranti economici, di contrabbandieri e militanti islamisti.
Negli ultimi decenni, è emersa una forte contrapposizione ideologica tra la wahabita Arabia Saudita e gli zaidi, gruppo che non è presente soltanto nello Yemen del Nord, ma anche nel Sud del regno saudita.
In precedenza, il regno saudita aveva sostenuto l’imamato zaidita, una monarchia religiosa,nella sua lotta contro i nazionalisti arabi e le forze tribali anti-establishment durante gli anni Sessanta,in un momento storico durante il quale i gruppi islamisti erano considerati un contrappeso ai movimenti laici nel Golfo.Durante il primo decennio del nuovo millennio, l’Arabia Saudita si è concentrata sulla lotta contro l’estremismo islamico e lo Yemen, una importante base operativa per i militanti di Al-Qaeda,è divenuto un campo di battaglia strategico per i funzionari antiterrorismo sauditi. È interessante notare come i rami sauditi e yemeniti di Al-Qaeda abbiano cooperato tra loro nei primi anni Duemila,prima di fondersi nella formazione Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) nel 2009. Per quanto concerne l’altro protagonista del contesto geopolitico, l’Iran, è possibile affermare
che, sebbene il suo coinvolgimento in Yemen sia meno documentato, certamente non è meno complesso di quello dell’Arabia Saudita. Prima della rivoluzione islamica del 1979, il regime dello Scià aveva cooperato a stretto contatto con Riyadh nel sostenere l’imamato, e aveva buone relazioni con l’amministrazione coloniale inglese, che dominò gran parte dello Yemen meridionale fino al1967.
Dopo le rivoluzioni nel Nord e nel Sud dello Yemen e in Iran, la Repubblica Araba dello Yemen mantenne buoni rapporti con l’Arabia Saudita e con l’Iraq di Saddam Hussein, e conseguentemente assunse una posizione di opposizione verso l’Iran. Al contrario, lo Stato socialista formatosi nel Sud dello Yemen diventò un alleato di Teheran, essendo entrambi forti oppositori del colonialismo occidentale e delle monarchie del Golfo.
www.espertoditesti.it/wp-content/uploads/2017/10/La-guerra-civile-nello-Yemen.
La guerra sta svolgendo al termine, siamo a un punto di svolta. L’esercito iracheno è a pochi metri dal centro di Mosul. Si avvicina la fine della sanguinosa guerra contro il gruppo Stato islamico (Is). Il capo della polizia federale ha annunciato che le forze irachene controllano il ponte di ferro sul fiume Tigri, e che si trovano ormai ad appena 800 metri dalla Grande moschea, il luogo dove il leader dell’Is Abu Bakr al Baghdadi fece la sua prima e ultima apparizione per proclamarsi califfo dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante.
Sorge dunque un grosso interrogativo su quello che sarà il futuro dell’Iraq. La nazione appare adesso in forte stato di debolezza, non è chiaro a nessuno quale saranno le posizioni adottate dagli uomini di potere che adesso sono tutti coalizzati contro il nemico comune, lo Stato Islamico. Inoltre, si teme che il cambio di presidenza negli Stati Uniti esponga l’Iraq ad un nuovo controllo politico manovrato dalla potenza americana, che potrebbe usare il controllo del paese per fare guerra all’Iran. Intanto, come riporta Internazionale “Il primo ministro Haider al Abadi è da poco tornato da un’importante visita negli Stati Uniti, dove ha incontrato il presidente Donald Trump e i suoi collaboratori. Non ha dichiarato nulla, ma sembra che Washington comincerà a fare pressioni sull’Iran dall’Iraq chiedendo una riduzione delle milizie sciite (sostenute da Teheran) dopo la fine della battaglia di Mosul.”
Sicuramente nei prossimi mesi l’Iraq si risveglierà dalla fine del conflitto con le ferite che lascia una guerra e con una situazione politica confusa e per niente chiara. Risolvere quest’incertezza, sarà il primo passo per una ricostruzione solida del paese.
A qualche mese da quello che il presidente Erdoğan sicuramente ritiene un upgrade, ovvero il passaggio della Turchia da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale, si può già intuire quale sia la strada che il paese sta intraprendendo. È chiaro che ora Erdoğan ha nelle sue mani un potere di più ampia portata rispetto al passato e non ha certo perso occasione per sfruttarlo. Prendiamo in esame soltanto alcuni aspetti significativi di quello che è successo in questi mesi.
Dopo il tentato colpo di stato del luglio 2016, molti sono stati i provvedimenti presi dal governo nei confronti dei golpisti. Tuttavia Erdoğan non era ancora soddisfatto: dallo scorso aprile, col successo del referendum, il presidente ha potuto prolungare lo stato di emergenza nel paese fino ad oggi, e chissà per quanto tempo ancora durerà. Durante lo stato di emergenza, il presidente della repubblica può esercitare delle funzioni particolari. In breve: migliaia di militari, giornalisti, insegnanti, attivisti, oppositori e cittadini turchi sono finiti in prigione o sono sotto processo sotto ordine di Erdoğan. La libertà di espressione, di parola e di pensiero sembra essere sempre più in pericolo in questa nuova Turchia.
Un altro segno di quanto pericoloso sia diventato il potere nelle mani di Erdoğan giunge direttamente da Ankara. Il sindaco della capitale turca, Melih Gökçek, esponente di spicco dell’Akp (il partito di Erdoğan) si è recentemente dimesso dal suo incarico, come chiesto proprio da Erdoğan. Lo ha annunciato sul suo profilo Twitter lo stesso Gökçek, che guida la capitale turca dal 1994. La decisione è giunta al termine di un nuovo faccia a faccia con il presidente, dopo settimane di resistenze alle sue richieste di lasciare la poltrona.
Non c’è da stupirsi che questo crescente accentramento dei poteri abbia fatto preoccupare non poco l’Unione Europea, che sempre di più sta prendendo le distanze da Erdoğan e dalla Turchia. Si sente invocare ormai sempre più spesso a Strasburgo la volontà di interrompere definitivamente il percorso di inclusione della Turchia nell’Europa, e gli attacchi più duri arrivano dalla Germania. Ciò che invece va rafforzandosi è il rapporto politico con stati storicamente avversi alla Turchia, che però conoscono bene il modello di potere accentrato sempre più presente nello stato turco, primo di tutti la Russia di Putin. Che questo referendum abbia sensibilmente spostato ad Est l’asse politico della Turchia? Apparentemente sembra proprio di sì. Negli ultimi giorni un altro referendum ha attirato l’attenzione di Erdoğan: quello promosso nel nord dell’Iraq dagli indipendentisti curdi. La Turchia non perde tempo e a pochi giorni dal referendum il presidente della Repubblica ha incontrato la sua controparte iraniana Hassan Rouhani. I due Paesi, entrambi legati da un patto con Mosca che sembra sempre più solido, hanno avuto da confrontarsi sui provvedimenti da prendere, ma nei nomi evocati durante il colloquio ci sono anche quelli di Israele e degli Stati Uniti, che tanto secondo Rouhani, quanto secondo Erdogan giocano un ruolo non secondario nelle ambizioni indipendentiste dei curdi. Si tratta di un particolare non di poco conto. Sembra che il referendum sul Kurdistan indipendente sia destinato a rafforzare quello che appare sempre di più il nuovo assetto sul futuro Medioriente. Da una parte Turchia e Iran, con Mosca alle spalle, e dall’altra il blocco saudita in asse con Il Cairo. Se si conta che proprio nei mesi scorsi il Qatar si è staccato dal grande troncone dei Paesi del Golfo e che in questo momento è in corso una grande crisi con l’Arabia Saudita, allora il fronte turco iraniano potrebbe arricchirsi di un alleato strategico. Le relazioni fra Ankara e Doha sono ottime, dopo che Erdoğan si è posto come difensore degli interessi dell’emirato, con tanto di truppe stanziate sul suo territorio e ponti aerei per non fare mancare alla popolazione i generi di prima necessità. Una Turchia che si fa sempre meno problemi ad accettare alleanze trasversali, come quelle con l’Iran, in mano agli sciiti. Tutto è utile per conquistare un posto al sole, anche se si deve stare al fianco di qualche alleato per convenienza. Sembra che la priorità, al momento, sia prevalere su quello che c’è dall’altra parte.
Un ultimo tragico appunto sull’evoluzione della repubblica turca deve assolutamente riguardare l’istruzione. Quella Turchia laica pensata da Atatürk (fondatore e primo presidente della Turchia) pare sempre più lontana, tanto che addirittura nelle scuole l’impronta “religiosa” sta minando l’insegnamento della scienza. Nei licei turchi infatti non si insegnerà più la teoria dell’evoluzionismo di Darwin: lo prevede la bozza dei nuovi programmi scolastici elaborata dal ministero dell’educazione di Ankara. A partire dal 2019, la sezione “Origine della vita ed evoluzione” verrà rimossa dal curriculum di biologia perché giudicata “controversa”. La decisione ha ottenuto il via libera del presidente Erdoğan. Nel dubbio che il potere così come lo vuole Erdoğan si possa mantenere o meno anche con un popolo istruito, il presidente va sul sicuro e opta per dei cittadini che non risultino troppo difficili da convincere, con Wikipedia che nel frattempo rimane ancora chiusa.
Bashar al – Assad, dopo che la presenza dell’Isis nel suo paese è stata ridotta sin quasi a scomparire, è pronto a riprendersi la Siria e per farlo ha deciso di colpire uno degli ultimi enclave sotto il controllo dei ribelli. Dal 18 febbraio le forze del regime hanno iniziato un’intensa campagna di bombardamenti aerei nella Ghouta Orientale, vicino alla città di Damasco, e questi attacchi secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani avrebbe già fatto più 500 morti e migliaia di feriti, e ad oggi più di 400.000 persone sono intrappolate senza acqua, cibo né medicinali.
E, mentre Assad, aiutato dall’Iran, colpisce la popolazione civile a Ghouta, Erdogan concentra i suoi attacchi contro la città di Afrin, in mano ai curdi. E proprio di fronte ai giochi di potere di potenze regionali e non, l’Onu continua a rimanere una forza inefficace. Il 24 febbraio, dopo svariati tentativi ostacolati dalla Russia, il Consiglio di Sicurezza ha finalmente raggiunto un accordo su un cessate il fuoco di 30 giorni, da implementare il prima possibile. Ma la decisione sembra non aver avuto alcun effetto nella Ghouta dell’Est, dove Assad, proprio poche ore dopo la votazione, si stava preparando ad un’invasione via terra. Questa risoluzione prevedeva delle “pause umanitarie”, ovvero che per almeno 30 giorni venisse rispettato il cessate il fuoco per cinque ore al giorno, dalle 9 alle 14, che consentisse ai civili di abbandonare le zone colpite dai bombardamenti e di permettere gli aiuti umanitari. La risoluzione è stata approvata anche dalla Russia di Putin, che fino ad ora aveva posto il veto a qualsiasi decisione delle Nazioni Unite riguardante il regime di Assad, suo alleato. Esenti dal cessate il fuoco saranno però gli attacchi contro l’Isis, al Qaida, al Nusra e altri gruppi affiliati ai terroristi, e Assad, l’Iran e la Turchia hanno utilizzato questa clausola come movente per continuare i bombardamenti su Ghouta e Afrin.
D’altronde la complessità del mosaico siriano rimane indecifrabile, troppi gli attori esterni coinvolti, troppe le guerre di procura che in Siria hanno trovato un terreno fertile. La Russia continua a fare della Siria la sua rampa di lancio per riguadagnare prestigio sullo scacchiere della politica internazionale, facendo valere il suo potere di veto nelle risoluzioni contro Assad. Iran e Turchia, invece, anch’esse spinte da interessi nazionali, hanno fatto del conflitto siriano il teatro di aspirazioni regionali. Infatti, altro teatro di continui attacchi è la zona di Afrin, controllata dai curdi e sotto attacco dal 20 febbraio. Abbiamo qui un faccia a faccia tra Erdogan e Assad. Le forze turche, con il sostegno dell’Esercito siriano libero, hanno avviato l’operazione “Ramo d’ulivo”, con lo scopo di liberare il territorio dai curdi dell’Unità di protezione popolare (sigla YPG). I curdi sono importanti alleati degli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato Islamico, ma anche la Turchia, e questa operazione rischia di rompere gli equilibri internazionali. In realtà i curdi hanno garantito la protezione della popolazione nella zona oltre alla stabilità, ma Erdogan non ha mai avuto particolare simpatia per loro, presenti anche a sud della Turchia, dove si sta verificando una vera e propria guerra interna. Il Kurdistan, in realtà, è una nazione ma non uno stato indipendente, che si divide tra il sud-est della Turchia, Iran, Iraq, Armenia e nord-est della Siria. Il Kurdistan iraqueno ha assunto sostanziale indipendenza, e dallo scoppio della guerra anche quello siriano ha assunto autonomia politica. L’intento della Turchia, dunque, sembra essere il massacro della popolazione curda e del suo sogno.
Non si sa quanto durerà l’assedio turco ad Afrin, ma Erdogan ha affermato che la Turchia non si fermerà fin quando il “lavoro non sarà finito”. Ma chi può sapere davvero se le mire del leader turco non vadano oltre.
Nel frattempo, pare che Assad abbia deciso di muoversi in sostegno dei curdi, allo scopo di ristabilire il controllo del regime su quella parte di territorio. Una critica nasce dal fatto che non ci siano state molte discussioni riguardo questo nuovo massacro, nessun hashtag o manifestazione di vicinanza a livello internazionale, e poca informazione sui media su questa nuova violazione della Carta delle Nazioni Unite.
Il 5 marzo 2018 è riuscito ad entrare a Ghouta il primo convoglio umanitario delle Nazioni Unite.
La notizia è stata confermata dal Comitato internazionale della Croce Rossa, dopo che il 4 marzo l’Onu aveva ricevuto il via libera dal governo di Damasco per l’ingresso degli aiuti nella regione assediata. Secondo l’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), il convoglio, di 46 camion e che trasporta aiuti medici e cibo per 27.500 persone, è comunque insufficiente per risolvere la situazione nella città, e ancora molto deve essere fatto. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha addirittura accusato il governo siriano di aver confiscato il 70 per cento delle forniture mediche inviate. Tra queste, kit chirurgici, insulina, apparecchiature per dialisi e altri materiali.
Pur avendo consentito l’ingresso degli aiuti umanitari, Damasco ha fatto sapere di essere intenzionato a proseguire l’offensiva sulla Ghouta orientale. Il presidente Bashar al-Assad ha dichiarato che non ritiene contraddetto il cessate il fuoco di cinque ore organizzati ogni giorno dal suo alleato principale, la Russia.
Il fallimento della tregua a Ghouta orientale è l’ultimo di una serie di accordi non rispettati nei sette anni di guerra in Siria. Situazioni simili – ribelli assediati e bombardati dalle forze alleate ad Assad – si erano già verificate nei mesi e negli anni scorsi. Inoltre in passato, come succede oggi, il governo siriano aveva sostenuto che i ribelli fossero praticamente tutti membri di Hayat Tahrir al Sham, gruppo considerato vicino ad al Qaida, legittimando i bombardamenti e le violenze come guerra contro il terrorismo. L’impressione è che anche questa tregua non durerà molto e che russi e forze alleate ad Assad riprenderanno presto gli intensi bombardamenti contro Ghouta orientale già visti nelle ultime due settimane. E che anche questa volta il mondo resterà a guardare.
Gli ultimi mesi hanno visto il paese turco sottoposto a molti momenti cruciali, tra i quali sicuramente spiccano le elezioni presidenziali dello scorso giugno.
Prima di tali elezioni, la situazione in Turchia era pressoché la seguente: fin dal mese di aprile le tensioni con la Grecia, soprattutto sul fronte migranti, stavano aumentando; il presidente Erdoğan, forte dei nuovi poteri consegnatigli dalla recente riforma costituzionale e della situazione di stato di emergenza, presente ormai dal tentato golpe del luglio 2016, gioca la carta del voto anticipato per paura del calo di consensi, sensazione confermata dal crollo della lira turca affiancato da una gran crescita di inflazione; sempre il presidente promette che in caso di vittoria revocherà il sopracitato stato di emergenza, promessa poi mantenuta.
Il giorno successivo alle elezioni, tenutesi il 24 giugno, ogni timore di Erdoğan viene fugato da una vittoria schiacciante sui suoi avversari (52% dei voti per le presidenziali, 53.1% alle legislative, per il parlamento, in coalizione col partito di estrema destra Mhp, che contribuisce portando all’Akp l’11.1%). L’opposizione, ancora prima dell’apertura delle urne, ha denunciato brogli. Lo sfidante del presidente, il candidato repubblicano Muharrem Ince, sconfitto, ha ottenuto comunque un ottimo risultato personale, raggiungendo il 30% dei voti. “Abbiamo dato a tutti una lezione di democrazia, – ha detto il Sultano a Istanbul davanti alla folla che lo acclamava – nessuno si azzardi a danneggiare la democrazia gettando ombre su questo risultato elettorale per nascondere il proprio fallimento”.
Tra i partiti che sono riusciti ad oltrepassare la soglia di sbarramento, fissata al 10%, appare anche il Partito Democratico dei Popoli (Hdp), partito che unisce forze filo-curde e forze di sinistra. A capo di questo partito, il curdo Selahattin Demirtaş, che si trova attualmente in prigione (dal novembre 2016) nella condizione di detenzione in attesa di giudizio: addirittura la Corte europea dei diritti umani ha condannato la Turchia per violazione degli articoli 5, comma 3 e 18 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo perché, tenendo in carcerazione preventiva un esponente politico durante queste importanti scadenze elettorali, ha perseguito uno scopo ulteriore, rispetto a quelli della carcerazione preventiva, comprimendo la dialettica democratica.
L’effetto delle elezioni non ha tardato ad arrivare: subito la lira turca è cresciuta nei mercati, e lo stesso Erdoğan, confermato per altri 5 anni (oltre ai 16 che già ha passato alla guida del paese), ha giocato le sue carte. Dapprima infatti, a luglio, il parlamento emana un decreto che permette al presidente di controllare lo stato maggiore, poi a settembre Erdoğan si nomina capo del Fondo sovrano turco.
Nel frattempo, col passare dei mesi estivi, la Turchia compie ancora passi sul suo cammino di politica estera, che negli ultimi anni, specialmente dalla riforma costituzionale dell’aprile del 2017, la porta sempre più lontana dalla sfera occidentale a favore di un riscoperto rapporto con la Russia. Pur essendo, in Siria, un importante alleato degli Stati Uniti e dell’Europa, il governo turco ha annunciato di non volersi conformare alle sanzioni varate da Trump a luglio ai danni dell’Iran. Secondo le autorità di Ankara, i provvedimenti adottati dal Presidente Usa sarebbero stati “inappropriati”. Al che Trump sanziona la Turchia e la lira subisce un nuovo calo. Il tracollo della lira turca, precipitata anche del 20% in un solo giorno rispetto al dollaro attestandosi poi a -15%, e il timore di un contagio per le banche dell’euro-zona esposte al debito del governo di Erdoğan, hanno spinto al ribasso le principali piazze europee con perdite particolarmente significative per Milano: dunque anche l’euro-zona ha sofferto trascinata dalle disavventure dell’economia turca. Alla fine di agosto ancora tensioni quando compaiono sui giornali le notizie relative ad alcuni spari all’ambasciata Usa, e contemporaneamente la Turchia compra, con un anno di anticipo rispetto a quanto annunciato, sistemi di difesa anti-missile S-400 dalla Russia. Nel paese si arriva perfino all’assurdo atto di vietare i film western provenienti dall’America. Sul fronte della guerra in Siria, la Turchia sembra essere l’unica potenza alleata coi ribelli disposta a (o capace di) trattare con la Russia, che da sempre sostiene Assad, insieme a potenze quali Iran e Venezuela, tanto che a settembre è proprio la Turchia che, insieme alla Russia, sceglie il destino delle zone smilitarizzate della Siria: “Durante i negoziati su Idlib a Sochi abbiamo deciso di istituire una zona smilitarizzata tra i territori controllati dall’opposizione e dal regime, l’opposizione rimarrà sui territori che occupa e faremo in modo che i gruppi radicali, designati dalla Turchia insieme alla Russia, non saranno in grado di operare nella regione”, ha scritto Erdoğan nel suo articolo per il quotidiano russo Kommersant.
Nel mese di ottobre la Turchia trova anche il modo di creare casi diplomatici con l’ennesimo alleato del blocco occidentale sostenendo che il giornalista saudita Jamal Ahmad Khashoggi fosse stato ucciso in territorio turco dai sauditi. Il 2 ottobre 2018, Khashoggi entrò nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul per ottenere documenti relativi al suo matrimonio; non lasciò mai l’edificio e fu successivamente dichiarato persona scomparsa. Anonime fonti della polizia turca hanno affermato che sia stato ucciso e squartato all’interno del consolato. Il governo saudita afferma che Khashoggi lasciò il consolato vivo attraverso un ingresso posteriore, ma la polizia turca dice che nessuna TVCC lo ha registrato mentre usciva dal consolato. Il 15 ottobre ha avuto luogo un’ispezione del consolato, eseguita da funzionari turchi. I funzionari turchi hanno trovato prove di “manomissioni” durante l’ispezione e prove che hanno supportato la convinzione che Khashoggi sia stato ucciso. Il 19 ottobre la TV di stato saudita conferma la morte di Khashoggi, avvenuta a seguito di un “diverbio” presso il consolato di Istanbul.
L’unico screzio che ha visto la Russia coinvolta, riguarda le dichiarazioni di Erdoğan a proposito della Crimea. La posizione della Turchia sul non-riconoscimento dell’annessione della Crimea da parte della Russia rimane invariata: lo afferma il presidente dopo l’incontro con l’omologo ucraino Petro Poroshenko. Il capo dello Stato di Ankara ha ribadito come la situazione di conflitto nell’Ucraina orientale vada risolta con strumenti diplomatici e pacifici. “Abbiamo avuto l’opportunità di discutere delle questioni regionali. La nostra posizione è di sostegno alla sovranità e integrità territoriale, oltre che unità politica, dell’Ucraina. Abbiamo sottolineato ancora una volta come non abbiamo mai riconosciuto e mai riconosceremo l’annessione illegale della Crimea. Continueremo a proteggere i diritti e gli interessi dei tatari di Crimea, sia coloro che sono rimasti sul territorio della penisola che quelli costretti a lasciare la regione”, ha detto Erdoğan.
Queste le nuove degli ultimi mesi turchi, intramezzate dalle solite invettive contro i curdi e i gulenisti, e dalle infinite incarcerazioni di giornalisti, politici, militari, insegnanti e persino calciatori.
Ha parlato di una vittoria per la democrazia il premier tunisino, Youssef Chahed, commentando a caldo la fiducia ottenuta dal Parlamento per la sua nuova squadra di governo. “Le crisi non possono essere risolte che nel rispetto della Costituzione e passando dal Parlamento”, ha detto Chahed precisando che “si tratta di un processo adottato sin dall’inizio. Mi felicito anche con il presidente della Repubblica che ha fatto appello al rispetto del parlamento e a rivolgersi ad esso per la risoluzione delle crisi. Ora il governo deve occuparsi dei problemi della gente riducendo il deficit e spingendo verso la crescita economica. I nostri sforzi si concentreranno nei prossimi mesi a sorvegliare i circuiti di distribuzione per ridurre i prezzi, lottare contro le importazioni anarchiche e migliorare le infrastrutture e lo sviluppo locale”, ha dichiarato il premier. Il governo veglierà anche ad attenuare le tensioni politiche prima delle scadenze elettorali del 2019 facendo il possibile per sensibilizzare i cittadini ad andare a votare, per non andare incontro ad un tasso di astensione importante, come quello riscontrato nelle elezioni comunali del marzo scorso. Giornata importante anche per il neo ministro del Turismo, René Trabelsi, uomo d’affari di confessione ebraica, che ha definito “storica per lui e per la Tunisia il voto di fiducia odierno”. Non succedeva dal 1956 che un ministro di fede ebraica facesse parte di un governo della Repubblica tunisina. “Farò tutto il possibile per applicare le nuove idee al fine di migliorare il settore turistico” ha detto Trabelsi precisando di “poter contare sulla sua esperienza ultraventennale in campo turistico”. (ANSAmed).

Negli ultimi mesi le decennali tensioni tra Israele ed Iran hanno raggiunto un punto critico mai raggiunto finora. Le cause di questa situazione sono da rintracciare in Siria e nella guerra che si è combattuta.
I rapporti fra Israele ed Iran si sono incrinati successivamente alla rivoluzione islamica iraniana del 1979 che ha trasformato l’Iran in una repubblica islamica sciita su principi religiosi. La figura simbolo del cambio di politica estera è rappresentata dall’ayatollah Ali Khamenei che nel 1981 è succeduto alla carica di Presidente dell’Iran al capo della rivoluzione Ruhollah Khomeini, e che oggi, dal 1989, mantiene la carica di Guida Suprema del Paese. Khamenei ha sempre incarnato una politica anti-occidentale, soprattutto contro gli Stati Uniti, e mirata all’affermazione dell’Iran in Medio Oriente. Il periodo in cui i rapporti fra Israele ed Iran si deteriorano definitivamente è quello seguente alla caduta del regime di Saddam Hussein nel 1991, in cui la retorica iraniana avvia la propria opera di demonizzazione verso gli USA e Israele che continua ancora. Infatti la Guida Suprema Khamenei insieme ai suoi collaboratori, non hanno mai nascosto le loro convinzioni rilasciando numerose dichiarazioni, dai caratteri molto forti, in cui annunciavano senza mezzi termini la distruzione d’Israele. Da questi accadimenti, Israele individua nell’Iran una seria minaccia alla propria sicurezza e all’equilibrio in Medio Oriente, e rafforza i propri confini soprattutto verso il Libano dove è nota la collaborazione fra l’Iran e il gruppo militare sciita Hezbollah che attacca ripetutamente il territorio israeliano. Le tensioni aumentano in occasione degli eventi che seguono lo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011 che vedono l’Iran intervenire attivamente nel conflitto insieme ad Hezbollah, con la possibilità di creare basi militari in Siria da cui attaccare Israele. La reazione dello stato ebraico, che fino a quel momento non era intervenuto, non si fa attendere e, oltre a definire delle “linee rosse” sull’espansione iraniana in territorio siriano superate le quali afferma di lanciare un’offensiva militare, si realizza in bombardamenti contro veicoli trasportanti armi e agenti operativi di Hezbollah o più recentemente contro basi militari e depositi di armi iraniani presenti specialmente nel sud della Siria. In agosto l’esercito israeliano ha affermato di aver compiuto, solo nell’ultimo anno e mezzo, oltre 200 raid aerei in territorio siriano, numero che, specialmente con l’aumento delle tensioni negli ultimi mesi, presenta oggi un bilancio molto più alto; attacchi che il governo israeliano non ha mai confermato. Il riferimento all’aumento delle tensioni fra Israele ed Iran si precisa in data 8 maggio 2018 quando il presidente americano Donald Trump ha deciso di uscire dall’accordo sul nucleare del 2015 del 2015 – il trattato, di 100 pagine e 5 allegati, prevedeva la rimozione delle sanzioni internazionali imposte all’Iran (eliminazione e non sospensione), a fronte di una serie di restrizioni al programma nucleare di Teheran – promosso dal suo predecessore Barack Obama, e di rinnovare le sanzioni contro l’Iran, assecondando in questo modo le preoccupazioni del governo israeliano. Infatti, lo stato ebraico si è sempre preoccupato della possibilità che Teheran si possa dotare di armi nucleari e si è fatto sostenitore di una linea d’azione dura contro lo stato guidato dal Presidente Hassam Rouhani. La reazione del governo iracheno è stata molto netta, dichiarando che, in mancanza di nuovi negoziati per salvare l’accordo, di essere pronti a riprendere il prima possibile l’arricchimento dell’uranio. Il secondo evento critico fra Tel Aviv e Teheran è stato l’annuncio degli Stati Uniti di cominciare a ritirare le proprie truppe dal territorio siriano a gennaio di quest’anno. Questa notizia ha generato forte preoccupazione in Israele per le possibilità delle milizie irachene e di Hezbollah di estendere la propria presenza e libertà d’azione in Siria e di rivolgerle contro Israele. Difatti queste preoccupazioni si sono tradotte in realtà: nella notte di domenica 20 gennaio il sistema di difesa aereo israeliano ha intercettato in volo un missile terra-terra iraniano diretto contro le alture del Golan che, come sostiene il portavoce militare israeliano, sia di fabbricazione iraniana e che non sia mai stato usato nella guerra in Siria ma intromesso in territorio siriano con l’unico intento di attaccare Israele. La risposta d’Israele non si è fatta attendere e il 21 gennaio è stato effettuato un raid aereo contro postazioni iraniane nei pressi di Damasco, provocando 11 morti. La novità è stata che per la prima volta Israele ha ufficialmente dichiarato il raid, indicando chiaramente l’Iran come nemico da combattere in nome dell’autodifesa. Dall’altra parte lo stato iraniano non ha mancato l’occasione per lanciare una nuova minaccia: “siamo impazienti di combattere il regime sionista ed eliminarlo dalla Terra” a cui ha replicato il premier israeliano Benjamin Netanyahu “non possiamo ignorare le esplicite dichiarazioni di Teheran sulla sua intenzione di distruggerci così come sostenuto dal comandante dell’aviazione iraniana. Israele dunque non può soprassedere sugli atti di aggressione dell’Iran e ai suoi tentativi di rafforzarsi militarmente in Siria. Chi cerca di colpirci, noi lo colpiamo. Chi minaccia di distruggerci subirà le conseguenze”. Perciò, in questo momento la situazione in Siria e le tensioni, critiche, fra Israele ed Iran sono molto vicine al punto di rottura. Non è tuttavia un caso che la linea dura recentemente adottata dal primo ministro israeliano Netanyahu avvenga in piena campagna elettorale in vista delle elezioni parlamentari del 9 Aprile.