![](https://mediterraneo.operalapira.it/wp-content/uploads/2019/07/us-placeholder-square.jpg)
The people who have trusted us so far
Anniversario della morte di Mohamed Bouazizi e l’inizio della primavera araba
6 anni fa moriva Mohamed Bouazizi e iniziava la primavera araba
Era il 17 Dicembre 2010 quando Mohamed Bouazizi, 26 anni, decide di cospargersi di gasolio e darsi fuoco di fronte alla sede del governo della cittadina di Sidi Bouzid. A scatenare il gesto radicale di protesta l’ennesimo sopruso subito, questa volta da una vigilessa che gli ha sequestrato le poche verdure che sta tentando di vendere abusivamente nella speranza di racimolare qualche soldo. Il gesto estremo di Mohamed arriva velocemente da un lato all’altro della Tunisia grazie soprattutto a facebook, twitter, ai blog e siti web. Mentre Mohamed è ricoverato al centro grandi ustionati di Ben Arous, la sua storia spinge migliaia di giovani tunisini a scendere in strada e raggiungere la piazza dove si è dato fuoco per potrestare contro la povertà, la disoccupazione, la mancanza di libertà di espressione. È l’inizio della primavera araba, un tam tam che attraverso i social dilaga in tutto il Maghreb.
Bouazizi era nato il 29 marzo del 1984 da una famiglia molto povera nel paesino di Sidi Bouzid. Suo padre lavorava in Libia come muratore e morì quando Bouazizi aveva tre anni. La madre Manoubia si sposò tempo dopo con un fratello del marito, con cui ebbe altri sei figli. Bouazizi iniziò a fare lavoretti dall’età di dieci anni per aiutare lo zio – che aveva molti problemi di salute – a portare a casa qualche soldo in più. Da ragazzino abbandonò la scuola e iniziò a lavorare a tempo pieno come venditore ambulante di frutta e verdura: manteneva la madre, lo zio, i fratellastri più piccoli e pagava gli studi universitari di una sorella
la sera del 16 dicembre 2010 Bouazizi era molto soddisfatto della frutta che aveva appena comprato, indebitandosi: era convinto che fosse la più bella che avesse mai visto, che avrebbe fatto buoni affari e che avrebbe potuto comprare un regalo a sua mamma. La mattina dopo all’alba imbracciò il suo carretto e andò al mercato del paese. Due poliziotti – tra cui una donna, Fedya Hamdi – gli bloccarono la strada e cercarono di sequestrargli la frutta. Lo zio si intromise per aiutare il nipote: chiese aiuto al capo della polizia che ordinò agli agenti di lasciarlo stare. Bouazizi non aveva una licenza per vendere la frutta al mercato e non era la prima volta che veniva redarguito – e a volte anche maltrattato – dai poliziotti. Non era l’unico: spesso gli agenti confiscavano a proprio piacimento la merce dei venditori approfittando della loro posizione di forza. L’abuso di potere era uno dei problemi più diffusi nella Tunisia di Ben Ali – al governo da 23 anni – insieme alla povertà, alla mancanza di lavoro e alla corruzione diffusa.
Quel giorno la poliziotta Feyda Hamdi, arrabbiata per il richiamo del superiore, andò al mercato, prese un cesto di mele dal carretto di Bouazizi e se lo mise in macchina. Alladin Badri, un venditore che assistette alla scena, racconta che la poliziotta iniziò a trasportare un altro cesto e questa volta Bouazizi cercò di fermarla. Hamdi lo spinse, lo colpì con lo sfollagente e gli sequestrò la bilancia. Poi lo schiaffeggiò davanti a tutti: erano presenti circa cinquanta persone. Il ragazzo scoppiò a piangere per l’umiliazione (aggravata dal fatto che a farlo era stata una donna). Testimoni hanno raccontato che Bouazizi chiese alla poliziotta: «Perché mi fai questo? Sono una persona semplice, voglio solo lavorare».
Bouazizi decise di lamentarsi dell’umiliazione subita: andò al municipio di Sidi Bouzid e chiese di incontrare il governatore della regione o almeno un funzionario, ma un impiegato gli rispose di tornarsene a casa. Il ragazzo andò al mercato e disse agli altri venditori che si sarebbe dato fuoco per mostrare al mondo l’ingiustizia con cui venivano trattati. Uno di loro, Hassah Tili, ha raccontato al Washington Post che «pensavamo dicesse così per dire». Pochi minuti dopo però i venditori udirono delle urla poco lontane. Si precipitarono nella piazza davanti al municipio e scoprirono che Bouazizi si era dato fuoco cospargendosi con una sostanza infiammabile, probabilmente benzina. Qualcuno cercò di spegnere le fiamme gettando dell’acqua e peggiorando la situazione. Altri si precipitarono nell’edificio in cerca di un estintore; lo trovarono ma era vuoto. Altri allora cercarono la polizia ma non arrivò nessuno. L’ambulanza arrivò dopo un’ora e mezza.
Il 18 dicembre un centinaio di persone si radunò davanti al municipio per protestare contro il maltrattamento di Bouazizi e le angherie della polizia. La cosa sarebbe forse finita lì o si sarebbe trascinata per ancora pochi giorni, se un cugino del ragazzo non avesse filmato la manifestazione con il cellulare e non l’avesse diffusa su Internet. Il video venne notato da Slim Amamou, un blogger tunisino di 33 anni che da quattro anni raccontava in modo critico il regime di Ben Ali.
Amamou rilanciò il video su Facebook che, contrariamente ad altri social network o canali come YouTube, stava crescendo in modo rapido e improvviso in Tunisia e non era stato ancora messo sotto controllo dalla censura del regime. La Tunisia è il paese arabo con il più alto tasso di persone che usano Internet e in pochissimo tempo il video venne condiviso e visto da migliaia di persone. Nel frattempo venne rilanciato anche da Al Jazeera, il canale televisivo – con sede in Qatar – più seguito del mondo arabo. La tv di stato tunisina raccontò la storia di Bouazizi dopo dodici giorni da che si era dato fuoco.
Come spesso accade, la rabbia e la frustrazione accumulata per anni esplose tutta in una volta e migliaia di manifestanti iniziarono a protestare nelle strade delle città tunisine per chiedere maggiore giustizia, posti di lavoro, la fine dello stato di polizia e la punizione di funzionari e poliziotti corrotti. Giovani attivisti si accamparono con tende nella piazza principale di Tunisi, mentre i commercianti si piazzarono davanti alle porte dei loro negozi con le scope in mano per impedire alla polizia di entrare. Il governo reagì ordinando ai cecchini piazzati sui tetti di sparare ai manifestanti.
Ben Ali cercò di ammansire le proteste e riportare la situazione alla calma. Il 28 dicembre fece visita a Bouazizi nel centro specializzato contro le ustioni di Sfax, dov’era stato nel frattempo trasferito. Per la prima volta Ben Ali denunciò le dure condizioni di vita dei venditori ambulanti e invitò la madre del ragazzo nel suo palazzo.
Davanti alle telecamere le consegnò un assegno di 20 mila dinari, quasi diecimila euro, ma la donna ha raccontato che lo staff del presidente si riprese l’assegno dopo le riprese. Ben Ali inviò una squadra speciale da Tunisi per investigare sull’accaduto e Feyda Hamdi – che si proclamò sempre innocente, negando di aver schiaffeggiato il ragazzo – venne arrestata. Il tentativo di Ben Ali di placare le proteste andò però a vuoto e le strade di Sidi Bouzid si riempirono anche di soldati inviati dalla capitale per reprimere le manifestazioni.
Dopo la morte di Bouazizi le proteste si intensificarono sempre di più, fino a provocare la caduta del regime: il 14 gennaio il dittatore e la sua famiglia fuggirono dal paese e si rifugiarono in Arabia Saudita. Pochi mesi dopo, il 19 aprile, la famiglia di Bouazizi decise di far cadere le accuse contro Hamdi, che venne scarcerata. Secondo la madre si trattò di una «decisione difficile ma ben ponderata per evitare l’odio e aiutare gli abitanti di Sidi Bouzid a riconciliarsi».
Nel frattempo le proteste di piazza si erano diffuse in altri paesi arabi, che guardavano con speranza e conforto a quello che era accaduto in Tunisia: in Egitto portarono alla caduta del regime di Hosni Mubarak, l’11 febbraio; trascinarono la Libia in una guerra civile terminata dopo un anno e mezzo con l’intervento militare della NATO e l’uccisione di Muhammad Gheddafi; scoppiarono per giorni in Bahrein, pur non ottenendo grossi risultati, e minacciarono anche le monarchie più consolidate come il Marocco, l’Arabia Saudita e la Giordania. In Siria hanno fatto esplodere una guerra civile che dura tuttora e ha provocato più di 60 mila morti.
La Tunisia è riuscita a evitare quasi completamente le violente “scosse di assestamento” che si sono invece verificate in altri paesi che sono riusciti a rovesciare i vecchi leader con le primavere arabe – come l’Egitto, lo Yemen e la Libia, dove si fatica ancora a trovare la stabilità.
Il mondo arabo si sta rinnovando, e questa volta lo sta facendo da solo. Sarà un percorso lungo, violento e complicato, con ricadute e delusioni. Una cosa però è certa: il cambiamento non può essere fermato.
A circa due mesi dalla conferenza di Palermo e con le elezioni teoricamente sempre più vicine, la Libia sembra ancora molto lontana dall’ottenere quella stabilità che sarebbe necessaria per cominciare davvero a ricostruire uno stato che ancora non si è ripreso dagli eventi della Primavera araba (2011). Le intenzioni emerse durante la due giorni in Sicilia sono ad oggi rimaste tali, nonostante i tentativi di alcuni esponenti politici europei di ricucire le divisioni che ancora permangono tra il generale Haftar e il capo del governo di unità nazionale (GNA) Serraj, sostenuto dalle Nazioni Unite. Degno di menzione è il premier italiano Giuseppe Conte, che col suo viaggio a Tripoli e a Bengasi ha provato a porre rimedio agli attriti che anche a Palermo si erano creati a causa delle problematiche legate alla partecipazione dell’uomo forte della Cirenaica.
Al momento però sia Haftar che Serraj sembrano avere un punto in comune: entrambi vedono affievolirsi il proprio controllo sul territorio. Se prima solo il GNA pareva non essere in grado di difendersi, ora anche il governo di Bengasi appare sempre più colpito dalla crescente crisi della sicurezza dovuta all’incremento dell’aggressività da parte delle forze affiliate all’Isis (ancora molto attive in Libia) e di gruppi criminali provenienti dal Sud della Libia. Nell’ultimo mese è stato attaccato un ospedale proprio a Bengasi, una base militare (con furto di una grossa quantità di equipaggiamento) e il più grande giacimento petrolifero sul suolo libico, a Sharara. A questi si aggiunge l’attentato al Ministero degli Esteri di Tripoli del 25 Dicembre, rivendicato dallo Stato islamico.
La zona più critica sembra essere proprio il Sud del paese, che ha vissuto in uno stato di abbandono politico ed economico fino a pochi giorni fa, quando Serraj ha ordinato l’invio di risorse per il riavvio delle centrali elettriche ed il ripristino degli altri servizi primari (l’acqua potabile, ad esempio). Il presidente tiene a sottolineare come ciò non rappresenti un mero spot elettorale, ma costituisca parte integrante di un intervento su larga scala. Haftar si sta invece concentrando su una grossa operazione militare contro milizie ciadiane e Daesh sempre nella stessa area. Egli è probabilmente colui che se volesse potrebbe risollevare con più facilità le sorti delle popolazioni meridionali, disponendo del controllo dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) e potendo dunque impadronirsi con minore sforzo delle risorse necessarie. Il governo di Tripoli non gode di altrettanta libertà di manovra a causa dell’eccessiva dipendenza dalle milizie al libro paga del Ministero degli Interni che, in mancanza di una riforma delle forze di sicurezza, risultano ancora indispensabili. La fedeltà di questi gruppi armati però è costantemente messa in dubbio dallo stesso Ministro degli Interni Fathi Bashagah, che era arrivato addirittura a revocarne lo stipendio, prima che le proteste lo costringessero a ritirare il provvedimento. Intanto le milizie continuano a gestire i propri incarichi nelle modalità più congeniali al perseguimento dei propri interessi, spesso tenendo all’oscuro del proprio operato il governo e gli organismi internazionali (si pensi all’inaccessibilità dei centri di detenzione dei migranti gestiti da loro).
Questa dipendenza militare è solo una delle numerose vulnerabilità del governo che le Nazioni Unite ancora sostengono. Col proseguire dell’instabilità politica, anche la coesione del GNA si sta incrinando: tre dei vice di Serraj lo hanno recentemente sfiduciato, accusandolo di tenere una condotta individualista e assolutamente lontana dall’assicurare una transizione pacifica verso la “normalità”.
Questi ed altri segnali hanno portato diversi stati europei, come sempre accade, a scostarsi dalle posizioni dell’ONU e ad avvicinarsi ad Haftar; anche il nostro paese, che ha a cuore i propri interessi in Libia, ha sempre cercato di restare in buoni rapporti col governo di Bengasi, in caso di una vittoria del generale alle elezioni di Primavera.
A conti fatti, nonostante sul suolo libico stiano di fatto agendo due governi, pare che non ce ne sia neanche uno: né Haftar né Serraj danno, al momento, l’impressione di potere o volere impegnare al massimo le proprie risorse per un miglioramento sensibile della situazione. Sembra che entrambi escludano qualsiasi compromesso colla controparte, seppur temporaneo, limitandosi ad attendere le elezioni e la svolta che sicuramente rappresenteranno; difficile dire se verso la rinascita o verso il baratro.
Tutto questo supponendo che il GNA, sempre più traballante, non crolli prima. Le Nazioni Unite sembrano non prendere in considerazione una simile eventualità, ma forse dovrebbero. La debolezza di Serraj non è puramente un fatto di personalità politica, ma è dovuta alla mancanza di mezzi di intervento cui finora nessuno è riuscito a sopperire: anche se ottenesse la vittoria alle elezioni, ciò non sarebbe sufficiente a rafforzare in maniera decisiva un esecutivo che, nel corso della sua breve vita, non è quasi mai riuscito a soddisfare le aspettative. Inoltre Haftar ha assicurato che non agirà militarmente contro l’avversario politico sino a quando i libici non saranno andati alle urne, ma nessuno può dire cosa farà in caso di risultato per lui negativo. Soprattutto adesso che pare sfumata la prospettiva di un’Assemblea Nazionale che riunisse tutti gli esponenti politici di spicco e facesse da preliminari al voto.
E’ necessario anche considerare l’affacciarsi di un nuovo attore sulla scena: Saif al-Islam Gheddafi, figlio dell’ex leader libico Muammar Gheddafi, che al momento si dice favorevole alle elezioni ma nessuno sa che ruolo potrà ricoprire nei tempi a venire. Certa è la presenza di una frangia della popolazione (e di elettorato) che guarda quasi con nostalgia al regime, che limitava la libertà personale ma se non altro garantiva la sicurezza.
Attualmente ogni scenario è possibile, perciò la comunità internazionale dovrebbe prepararsi ad ogni eventualità. Attualmente, al di là delle azioni di singoli stati, sembra non lo stia affatto facendo.
Il turismo in Tunisia comprende attrazioni che vanno dalla sua città cosmopolita nonché capitale Tunisi alle antiche rovine di Cartagine, i tradizionali quartieri musulmano ed ebraico di Jerba, ed infine località costiere al di fuori di Monastir (Tunisia). Secondo il New York Times, la Tunisia è “nota per le sue spiagge dorate, il tempo soleggiato e i lussi a prezzi accessibili Secondo il giornalista Garrett Nagle, autore del libro “Advanced Geography” l’industria turistica tunisina trae benefici “dalla sua posizione mediterranea e dalla sua tradizione vacanziera in pacchetti low cost con partenze da tutta l’Europa occidentale”[2]. Lo sviluppo del turismo risale agli anni ’60 del XX secolo, grazie agli sforzi congiunti di governo e gruppi privati; nel 1962, il turismo, con 52.000 entrate e 4.000 posti letto, ha avuto un fatturato di due milioni di dollari ed è diventato la principale fonte di valuta estera nel paese. Tuttavia, non è generalmente meta di turisti americani, che non si fidano più molto delle destinazioni del Medio Oriente dal momento in cui si son verificati gli attentati dell’11 settembre 2001.
Fino a poco tempo fa l’attrazione principale della Tunisia era costituita dalla sua costa nord-est, tutt’attorno intorno a Tunisi; tuttavia, il 7º piano di sviluppo nazionale datato 1989 ha creato diverse nuove aree turistiche, tra cui il villaggio di Port El-Kantaoui. Il settore del turismo rappresenta oggi il 6,5% del Prodotto interno lordo (PIL) della Tunisia ed offre 340.000 posti di lavoro, di cui 85.000 sono posti di lavoro diretti, coprendo l’11.5% della popolazione attiva, con una quota elevata di lavoro stagionale. Francia, Germania, Italia e Regno Unito sono i quattro mercati turistici tradizionali del paese, anche se la Tunisia ha perso circa 500.000 turisti provenienti dalla Germania dopo l’11 settembre. Dal 2003-2004 ha riguadagnato porzioni di turisti, e nel 2007 ha visto gli arrivi in aumento del 3% circa rispetto a quelli dell’anno precedente.
Il turismo in Tunisia ha subito duri colpi dopo l’attentato al museo nazionale del Bardo e l’attentato di Susa del 2015. Oggi Tunisia punta su 7 milioni visitatori nel 2017 Il ministro del Turismo tunisino, Selma Elloumi Rekik :
Se non avremo problemi di sicurezza potremmo accogliere 7 milioni di turisti stranieri nel 2017, per arrivare a 10 milioni entro il 2020. E’ quanto ha affermato il ministro del Turismo tunisino, Selma Elloumi Rekik, alla radio locale Mosaique Fm snocciolando una serie di dati positivi relativi alla ripresa del settore e alle prospettive del post Conferenza per gli investimenti “Tunisia 2020”. In quell’occasione infatti numerose catene alberghiere si sono impegnate a tornare in Tunisia e a farne una base per il loro business. Tunisia 2020 secondo il ministro ha saputo rilanciare l’immagine della Tunisia con conseguenze positive per il turismo.
Una varietà infinita di colori, sapori, bellezze naturali, architettoniche ed artistiche; una ricchezza culturale che affonda le proprie radici in una delle civiltà più antiche del pianeta. Queste sono le caratteristiche dell’antica Persia, oggi Iran: una sorta di locus amoenus che pare scomparire dietro la rovinosa burrasca politico-economica che scuote il paese. Il rumoroso raid americano di gennaio a Baghdad è stato infatti solo la naturale conseguenza di tensioni che persistono da anni e che solo nel 2015 sembravano essersi allentate, grazie al Piano d’azione congiunto globale, più conosciuto come accordo sul nucleare iraniano.
Nel 2018 gli USA sono usciti unilateralmente dal patto rilanciando le sanzioni economiche contro il Paese mediorientale. Dunque, una nazione con potenziale economico fra i più elevati al mondo (dovuto, tra le altre cose, ai giacimenti di petrolio) vive paradossalmente il dramma della povertà.
L’Iran è reduce dalle recenti elezioni parlamentari dello scorso 21 febbraio, i cui principali connotati sono stati da una parte la bassissima affluenza, complice l’epidemia di coronavirus che vede l’Iran tra i paesi più colpiti insieme alla Cina e all’Italia, e dall’altra la ribalta dei conservatori sui riformisti di Rouhani, che rappresenta la maggioranza uscente. Erano stati infatti i riformisti ad accordarsi con gli Stati Uniti sul nucleare; inoltre la morte del generale Qasem Soleimani, considerato un modello da parte di molti iraniani, specialmente fra i giovani, ha suscitato una forte reazione conservatrice nella popolazione. Era considerato un simbolo di stabilità e forza, in paragone all’amministrazione politica nella quale gran parte della popolazione aveva ed ha perso la fiducia, specialmente dopo il voltafaccia USA.
Il risultato di questi ultimi concitati anni è un paese in emergenza, con un governo riformista non sostenuto dal parlamento fortemente conservatore.
Questo complicato contesto è oggetto principale della discussione internazionale, senza però che ci sia un effettivo interesse da parte dei media di raccontare come sia vivere in Iran. Fariba Hachtroudi, scrittrice iraniana, si batte da molti anni per raccontare un paese diverso. Sostiene infatti che in Europa non ci sia una profonda conoscenza di cosa accada in Medioriente. “Cosa bisogna fare dunque? Venire in Iran e dare un’immagine esatta di ciò che accade in questo paese”, dice in un’intervista rilasciata ad arabpress.eu. La scrittrice denuncia un paese pieno di contraddizioni: da un lato, la cultura è considerata un fondamento portante della società, l’istruzione giovanile è diffusa e di ottimo livello; dall’altro, la forte corruzione, la privazione di molte libertà personali e la forte instabilità economica hanno portato il popolo all’esasperazione. Essere iraniani nel 2020, dunque, significa dover convivere ogni giorno con la sensazione di essere seduti su un forziere d’oro, senza possederne le chiavi. Fariba confida nel popolo iraniano, è convinta che possa salvarsi da solo e che anzi nessun paese estero debba intervenire. È però anche molto lucida nel rendersi conto che se dovesse crollare completamente l’equilibrio fra il popolo e lo stato, l’Iran si vedrebbe esposto alle interferenze dei paesi esteri, pronti a sostenere una fazione piuttosto che l’altra, approfittando della situazione politica per ottenere benefici sull’importazione di petrolio. Fariba si rivolge a noi, chiedendoci di non fermarci alla superficie dei fatti di cronaca, ma di spingerci oltre e non considerare il Medioriente come una fonte di ricchezza, ma come la casa di persone con un volto, una storia, e una complicatissima vita da affrontare. L’invito principale che ci fa è quello di non confondere il popolo con il governo che, in paesi come l’Iran, sono ben lungi da essere la medesima cosa.
Jean-Paul Sartre disse che “quando il ricco fa la guerra, è il povero a morire”. Per l’Iran non si parla di una guerra in campo aperto, ma di una guerra di stampo politico-economico. Di qualsiasi genere di guerra si parli, infine, sono sempre i più deboli a scontare le pene conseguenti alle scelte dei più forti.
![](https://mediterraneo.operalapira.it/wp-content/uploads/2020/03/Iran-1-150x150.jpg)
Preceduto da Francia e Germania, il Marocco decide di vietare totalmentee l’importazione, la fabbricazione e la commercializzazione del burqa in tutte le città e le località del regno, senza però restrizioni per chi lo indossa. In tal caso, però, il contesto culturale in cui questo divieto viene applicato è alquanto insolito: il Paese è costituito in prevalenza da musulmani di fede sunnita che rappresentano il 97 per cento della popolazione, e l’Islam è appunto la religione ufficiale.
“Chi contravviene a questa decisione, vedrà il sequestro delle merci e la chiusura del negozio”, si legge in un volantino diffuso dalla polizia.
I funzionari del ministero dell’Interno non hanno rilasciato dichiarazioni circa le ragioni di questa decisione, lasciando però intendere che i motivi siano legati alla sicurezza.
Troppo spesso, infatti, il burqa è usato per nascondere il volto e compiere azioni criminose nel paese.
È comunque necessario precisare che questo indumento tipicamente di origine afghana viene venduto in Marocco nella sua versione rivisitata: non si tratta infatti dell’abito lungo con la retina davanti agli occhi, ma solo di un copricapo, un velo più grande del foulard indossato dalle donne musulmane, con uno spazio per lasciare liberi gli occhi.
La decisione ha generato il dissenso tra alcuni gruppi conservatori, anche se indossare un velo integrale non è tradizione del Marocco, e la maggior parte delle donne musulmane nel paese indossano semplicemente l’hijab o il niqab.
L’esercito libanese sta erigendo un muro intorno al campo profughi palestinese di Ain Al Hilweh per contenere un problema che è senza soluzione da 60 anni.
L’operazione è iniziata a fine novembre 2016 e con il primo step sono stati eretti oltre 200 metri di cemento alternati a torrette nella parte Sud del campo palestinese più grande del Libano.
Il Libano è stato uno tra i primi Paesi ad accogliere i numerosissimi profughi palestinesi in seguito alla formazione dello Stato d’Israele. Secondo una recente stima sono dai 90mila ai 120mila i profughi accolti all’interno di quello che oggi è divenuta una vera e propria cittadina.
Durante i quasi 60 anni d’accoglienza, i profughi palestinesi qui accolti non sono mai riusciti ad integrarsi nella realtà e società libanese, vivendo al suo interno senza alcun tipo di dirtto sociale epolitico.
La costruzione del muro, quindi, non è altro che l’ultima risposta ad un problema mai affrontato, di cui né la realtà libanese né la comunità internazionale sembra mai essersi preso cura. A Ciò si debbono poi aggiungere i milioni di profughi siriani che in pochi anni si sono rigettati all’interno del confine libanese in cerca di protezione e asilo. Una situazione difficilemnte gestibile dal governo libanese, che si è trovato solo a dover fronteggiare le emergenze.
“I 200 metri di cemento contengono la sintesi di un problema mai affrontato, anzi rimandato nel Il muro eretto intorno ad Ain Al Hilweh non è che la sintesi della questione libanese: un paese che si è fatto carico passivamente di due eredità pesanti, quella palestinese e quella più recente siriana. La bomba ha iniziato il suo countdown.” (Davide Lemmi – L’indro).
http://nema-news.it/un-muro-per-i-palestinesi-anche-in-libano/
http://www.lindro.it/il-muro-che-e-la-sintesi-delle-debolezze-libanesi/
“…Non è esagerato affermare che la situazione in Libia ha raggiunto un momento cruciale. Stiamo lavorando per evitare che i recenti sviluppi e le tensioni sul campo aumentino, e ruotino invece verso la stabilità e un patto politico che consenta la fine della crisi nel paese”.
Questo l’esordio del Rappresentante Speciale del Segretario Generale, Ghassan Salamé, al suo briefing al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite presieduto dalla Francia. Ed è sicuramente vero: dopo mesi di ritardi e trattative, è stata finalmente fissata la data della Conferenza nazionale, che si terrà dal 14 al 16 Aprile al fine di stabilire le necessarie riforme costituzionali e delineare in maniera rigorosa l’iter che porterà la Libia a nuove elezioni. La scelta del luogo è ricaduta sull’oasi di Gadames, in quanto si è ritenuto che un luogo isolato in mezzo al deserto fosse più idoneo all’attuazione delle opportune misure di sicurezza, rispetto ad un centro urbano come Sirte o Tripoli.
La gestione dell’evento in tutte le sue parti sarà responsabilità degli attori libici: i partner internazionali saranno presenti sono per vigilare sulla sua buona riuscita e metteranno a disposizione del GNA forze di polizia ed esercito.
Al summit sono stati invitati esponenti di 20 gruppi politici, sociali e d’influenza, scelti mediante rigidi criteri e 17 standard tra cui appartenenza religiosa e etnica, sesso, età e collocazione geografica. Questo per avere un’immagine più rappresentativa possibile della popolazione libica, seguendo il principio – guida delle Nazioni Unite, condiviso dall’ambasciatore libico all’ONU, Mahdi Al-Mujrabi: la soluzione alla crisi nel paese africano non è nelle mani di nessun gruppo politico o militare, ma deve coinvolgere tutti per arrivare ad una visione condivisa. In questo senso – a detta di Al-Mujrabi – la comunità internazionale può fare molto per sostenere il processo politico, a patto che le varie nazioni mettano da parte le divergenze per raggiungere una posizione comune.
Dalla diramazione della data dell’appuntamento però, la preoccupazione principale della suddetta comunità è stata la sicurezza dei propri cittadini che si trovano sul suolo libico. Diversi paesi hanno chiesto ai propri connazionali di rientrare in patria in quanto si teme una possibile escalation di attentati da parte di Isis e Al-Qaeda, che potrebbero colpire la conferenza stessa oppure altri luoghi, sfruttandola come diversivo.
Anche in quest’ottica è stato fissato in questi giorni un incontro tra Libia, Tunisia, ONU e Unione Africana. Intanto a Tripoli è stato diramato lo stato di allerta, sono state vietate le manifestazioni di piazza e si sta provvedendo al rafforzamento di tutte le infrastrutture critiche, dagli impianti petroliferi ai palazzi del governo. Che ci sia qualcuno che ha interesse nel fallimento dell’iniziativa è emerso anche da un evento recente: la comparsa di false liste di invitati, che escluderebbero personalità di rilievo dal tavolo delle trattative, collo scopo di creare confusione e suscitare una possibile reazione armata. Ghassan Salamé ha perciò insistito sul fatto che l’unica e vera lista si trovi nelle sue mani e che i partecipanti saranno contattati direttamente dalla missione ONU; a conti fatti però, tali fake – news hanno incrementato le tensioni in certe aree del paese, specialmente nell’Ovest.
Rimangono ancora dubbi sulla condotta del generale Haftar. Mentre prosegue la sua opera di stabilizzazione della Libia meridionale (anch’essa costellata di luci e ombre) ha iniziato a diffondere la voce che, in caso di mancato accordo, l’unica soluzione attuabile sarebbe quella del suo ingresso a Tripoli. Questo al fine di scongiurare, di fronte al concretizzarsi dell’eventualità, reazioni ostili da parte della popolazione locale che potrebbero allargarsi sino allo scoppio di una nuova guerra civile in cui il generale avrebbe molto da perdere, specialmente in termini di sostegno internazionale. Molti dei grandi partner strategici che fino ad oggi lo hanno supportato, in cambio di future concessioni riguardanti i pozzi petroliferi, non potrebbero permettersi di continuare a farlo se vedessero i propri interessi economici messi a repentaglio da una nuova deriva bellica.
Il problema fondamentale di tutta questa situazione rimane uno: un attore, Haftar, è decisamente più forte di tutti gli altri, detenendo ormai un potere economico e territoriale e godendo di un sostegno dall’estero enormemente superiori rispetto al GNA di al-Sarraj. Come ha recentemente evidenziato Dario Cristiani, un analista esperto di Nordafrica: “trovare un accordo politico durevole e stabile con una tale spada di Damocle sulla testa resta impresa ardua, per non dire impossibile”.
Quella che si palesa è una strada apparentemente senza uscita: se la Conferenza accettasse la centralità dell’uomo forte della Cirenaica, ciò causerebbe non pochi problemi con le milizie (che, a scanso di colpi di scena, verrebbero rimpiazzate dall’LNA) e forse anche colla popolazione di Tripoli, che potrebbe comunque vederlo come un invasore; un mancato riconoscimento invece lo porterebbe sicuramente ad inasprire la sua politica di espansione militare, che alla fine porterebbe sicuramente ad un intervento a Tripoli, come già detto precedentemente, e al tentativo di prendere controllo diretto di istituzioni ed organizzazioni che ora può solamente influenzare (come la NOC). Stessa cosa nel caso in cui non venisse trovata un’intesa e dunque ci si trovasse di fronte alla perpetuazione dell’attuale stallo.
E’ chiaro come il sole che ci troviamo ad un punto di svolta. Dalla gestione e dagli esiti della conferenza nazionale dipende il futuro della Libia: se tutto andrà liscio, auspicabilmente il paese sarà traghettato a nuove elezioni e si andrà verso la riunificazione dei due governi paralleli; se dovesse accadere il contrario, potrebbe sprofondare definitivamente nel baratro.
“Mi chiamo Mario Poggi, ho ventiquattro anni e vengo da Firenze. Sono un cittadino italiano, nonché cittadino europeo”. Perfino una fotografia superficiale della propria identità, sebbene possa sembrarci scontata, non lo è affatto. L’appartenenza ad una regione geografica e ad una comunità può perdere molta della sua valenza se non è associata ad un’entità statale che ne rappresenti i valori, ne tuteli i diritti, e ne definisca i doveri. Questo sembra essere il destino di un gruppo etnico iranico, la cui popolazione è stimata tra i trenta e i quarantacinque milioni di individui: il popolo curdo. I curdi infatti risultano essere uno dei più grandi gruppi etnici privi di unità nazionale. Provengono da una zona prevalentemente montuosa, nota come Kurdistan, che comprende gran parte della Turchia sud-orientale, l’Iran nord-occidentale, l’Iraq settentrionale e la Siria settentrionale.
In seguito alla prima guerra mondiale e alla sconfitta dell’Impero ottomano, gli stati vincitori avevano previsto uno stato curdo nel Trattato di Sèvres del 1920. Tuttavia, questa promessa fu annullata tre anni dopo, quando il Trattato di Losanna fissò i confini della moderna Turchia e non previde tale disposizione, lasciando ai curdi lo status di minoranza nei rispettivi paesi. Questo fatto ha portato a numerose rivendicazioni nazionaliste sfociate in numerose ribellioni e guerriglie e in seguito anche a sistematici genocidi (in particolare in Iraq).
Negli ultimi decenni, si sono formati gruppi organizzati con l’obiettivo di difendere i diritti del popolo curdo, in particolare in Turchia e in Siria.
In Turchia negli anni settanta nacque il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK – Partîya Karkerén Kurdîstan, in curdo), che a partire dal 1990 ha avuto anche rappresentanti in parlamento. Sebbene sia nato ufficialmente come un movimento, trasformatosi poi in un partito, la situazione politica della Turchia e le repressioni nei confronti del popolo curdo hanno spinto il PKK a prendere un’impronta violenta già dalla prima metà degli anni ottanta.
Nel 2004 invece è stata fondata l’Unità di Protezione Popolare (Yekîneyên Parastina Gel – YPG, in curdo), che è un’organizzazione militare.
Lo YPG ha svolto un ruolo centrale nella costituzione del Rojava nel 2012, che è una regione autonoma de facto nel nord e nord-est della Siria, non ufficialmente riconosciuta da parte del governo siriano. La costituzione del Contratto Sociale del Rojava è avvenuta contestualmente alla cruenta guerra civile siriana, con l’aiuto dell’esercito americano. Sia lo YPG che i turchi sono stati preziosi alleati degli Stati Uniti nel conflitto siriano tant’è che i primi combattevano addirittura con armi americane (fatto che ha disturbato il presidente turco, Erdoğan). Tuttavia i turchi non hanno mai accettato il fatto di combattere dalla stessa parte dei curdi e da quando gli americani hanno allentato la presa in Siria hanno pensato di poter far valere le proprie ragioni sulle milizie dello YPG.
Dunque, lo YPG combatte sia l’ISIS, che il governo turco. Quest’ultimo infatti dal 2018 ha iniziato una pesante operazione militare nel Rojava chiamata “Operazione ramoscello d’olivo”, nonostante le ripetute minacce del presidente Trump. In particolare, l’obiettivo dell’ultimo periodo da parte del governo turco è quello di creare una striscia larga 30 km che faccia da “cuscinetto” fra la Turchia e la regione autonoma. Quest’ultima operazione ha preso campo specialmente dopo l’annuncio di ottobre 2019 del presidente Trump di ritirare le truppe americane dal Nord-Est della Siria, sebbene gli avesse garantito protezione, dal momento in cui ha constatato di non aver più probabilità di successo, in favore della Russia e del governo di Assad.
In questo contesto, risulta interessante cercare di analizzare la problematica interna allo stato turco.
In Turchia la lotta ai terroristi, che per il governo sono indistintamente l’ISIS, il PKK, e i curdi siriani dello YPG, è la motivazione ufficiale per arresti e repressioni, che sono all’ordine del giorno. Talvolta, c’è chi sostiene che il governo utilizzi questi pretesti mosso però da altri fini.
L’Espresso ha raccolto alcune testimonianze di alcuni cittadini di Sur, un distretto della provincia di Diyarbakır, città curda in Turchia. Dal 2016 tale distretto ha subito radicali modifiche, demolizioni e nuove ricostruzioni, in seguito alla nomina da parte del governo di un commissario che ha sostituito i due co-sindaci, dopo il loro arresto.
«L’obiettivo del governo», spiega Çiğdem (nome di fantasia), responsabile dell’ufficio stampa del precedente governatore, oggi disoccupata, «è distruggere l’identità curda, di cui il centro cittadino era un esempio importante, con le mura fortificate e i giardini di Hevsel. Il progetto di riqualificazione prevede palazzi con vista sul Tigri, fontane e prati tagliati all’inglese. Il centro diventerà inaccessibile ai locali, per essere venduto a turchi facoltosi».
Parlare di integrazione, in un contesto simile, è probabilmente privo di ogni senso. A livello ufficiale, i curdi in Turchia sono stati storicamente denominati “turchi di montagna”, e poi in tempi più recenti “turchi d’oriente”. Quindi, di fatto, non solo il popolo curdo è senza identità nazionale, ma addirittura è considerato inesistente ufficialmente dal governo turco. Ciò che dice Çiğdem, dunque, non è dettato soltanto dai sentimenti, dalla rabbia, ma ha anche una solida base di atti ufficiali. Sorgono tante domande in modo spontaneo, leggendo le sue parole, e osservando gli avvenimenti sia remoti che più recenti che hanno interessato i curdi. Sorgono domande riguardo alla naturale necessità di un popolo di tramandare le proprie tradizioni, la propria cultura. Sorgono domande riguardo ai media, uno strumento fondamentale. Esiste una TV curda, chiamata inizialmente MED TV, poi MEDYA TV, e ostacolata fortemente dal governo turco. Sorge il desiderio di scoprire le sfumature di questo popolo condannato ad un destino che non merita, contro il quale viene costantemente puntato il dito, come se una minoranza violenta si ergesse ad esempio di tutta la popolazione.
Nasce il desiderio di sapere di più riguardo alla figura della donna in questo popolo, che ricopre un ruolo centrale, partecipe alla vita sociale, e talvolta anche alla guerra, oltre che nella propria casa.
Cercando di immedesimarsi in queste persone, dobbiamo immaginare come precario ogni minimo aspetto della vita che condiziona la nostra crescita e la nostra formazione come cittadini, ogni libertà di cui godiamo.
È chiaro che ogni domanda, ogni supposizione, andrebbe verificata vivendola in prima persona. Da cittadini responsabili, quello che possiamo fare è informarci più che possiamo, senza fermarci ai titoli dei giornali. Non possiamo sapere quale sarà il destino di questo popolo “maledetto” dalla storia; lo sforzo che possiamo fare, però, è quello di mettersi i vestiti di Çiğdem, o di qualsiasi altro suo fratello, ogni volta che leggiamo una notizia riguardante i “turchi d’oriente”.
![](https://mediterraneo.operalapira.it/wp-content/uploads/2019/12/Turchia_identità-150x150.jpg)
Nell’ultimo mese stiamo assistendo ad una forte presa di posizione della Turchia che riguarda la guerra in Siria, in particolare a Nord-Est, territorio al centro della zona dove abita la gran parte dell’etnia curda. Non è un mistero infatti che al presidente turco non vadano a genio i curdi, specialmente quando si mettono in testa di voler far politica, tanto che il Pkk è passato dall’essere un partito all’essere un gruppo di terroristi fuori legge. Riportiamo qui di seguito la testimonianza di un giornalista italiano fermato al confine tra Turchia ed Iraq (da poco nel nord dell’Iraq si è tenuto un referendum, seppur non riconosciuto, per l’indipendenza del Kurdistan iracheno).
“«Siamo dell’antiterrorismo, dobbiamo farle alcune domande, da questa parte prego». Inizia così un controllo subito venerdì scorso da chi scrive, alla frontiera tra Turchia e Kurdistan iracheno, di rientro in Italia dopo una decina di giorni a Erbil. Che il passaggio su questo tratto di confine fosse laborioso già si sapeva, ma nel caso in questione è parso chiaro che c’era qualcosa di insolito. Insolito perché dopo essermi visto negare il timbro di ingresso dall’operatore turco, sono stato accompagnato in una struttura poco lontana, dove ha avuto inizio qualcosa di molto simile a un interrogatorio.
Le domande si sono susseguite per circa 90 minuti. Non è normale, almeno da queste parti non mi era mai accaduto. Così come non era ancora accaduto di trovarmi a rispondere a quattro giovani agenti dell’antiterrorismo, ostinati a chiedere dove avessi «incontrato i membri del Pkk?», poi ancora se avevo «conosciuto persone ostili alla Turchia?», «di quali temi ti occupi principalmente… le tue posizioni politiche?», «hai incontrato qualcuno dell’Isis?» e così via, a lungo, con un’intensità crescente. Il tutto gestito dal gruppo dei quattro, assieme, per poi ricominciare dall’inizio, con le stesse domande poste singolarmente, a turno, aggiungendo la pretesa di visionare le immagini salvate nel telefono, le chiamate effettuate, le foto salvate nella reflex, i contatti di cittadini arabi… quindi la consegna del registratore audio per scaricare i contenuti… infine i bagagli. Il tutto alternato da improbabili telefonate «all’ufficio di Ankara» per conferme sulla veridicità delle mie risposte.
Nulla di estremo nell’atteggiamento degli agenti, sia chiaro, e alla fine la realtà dei fatti è stata una sola: tutti i documenti erano in regola e comprensibili, a partire da quel foglio con su scritto “assignment” e dal tesserino da giornalista. Dopo un’ora e mezza di torchio, i quattro capiscono e mi congedano «ci scusiamo ma è il nostro lavoro, è stato aumentato il livello di allerta per intercettare terroristi in fuga». Ammesso in Turchia dunque, portando con me un solo dubbio, in merito a quell’ultima frase: «intercettare terroristi in fuga». In fuga da cosa? Perché proprio in quel momento è stato aumentato il livello di sicurezza? Conoscenti transitati sulla stessa via pochi giorni prima non avevano avuto alcun problema. Il motivo dell’inasprimento dei controlli l’ho compreso il giorno seguente, dopo essere atterrato a Venezia.
Il tutto si è verificato poche ore prima dell’inizio dei bombardamenti aerei nell’enclave curda di Afrin, sul confine turco-siriano, cui è seguito l’attacco di terra. L’operazione avviata da Ankara e chiamata “Ramo d’Ulivo” era attesa da tempo, e punta a ridurre l’area sotto il controllo del Ypg, la milizia curda legata al partito Pyd, componente maggioritaria delle Syrian Democratic Forces (Sdf), principali alleati siriani degli Stati Uniti nella guerra allo Stato Islamico. All’avvio dell’operazione, annunciata da tempo da Erdoğan, mancava una motivazione valida. Questa è giunta il 13 gennaio, quando gli Stati Uniti hanno dichiarato di voler creare una “forza di sicurezza al confine” da 30mila uomini, metà dei quali appartenenti alle Sdf.
Dunque ancora la frontiera turca, dove dal 2011 a oggi sono transitati milioni di uomini, donne e bambini, siriani e iracheni, in fuga da alcuni dei conflitti più cruenti del nostro tempo. Sono stati loro ad alimentare l’esodo che abbiamo imparato a conoscere. Il più massiccio dall’epoca della Seconda guerra mondiale. Una marcia per la salvezza diretta in Europa, passata attraverso i sottoscala di Smirne a cucire giubbotti di salvataggio. Un giorno dopo l’altro con il capo chino, bambini inclusi, per accantonare quanto basta a soddisfare i passeur e proseguire il viaggio tra i flutti dell’Egeo, poi nel fitto di colonne arenate nel fango balcanico. Alla fine per molti è arrivata l’Europa, con le sue promesse disattese e una democrazia ingabbiata tra muri e contraddizioni.
Ecco che i confini, incluso quello turco-iracheno, sono ora il luogo in cui intercettare eventuali «sostenitori dei terroristi» del Ypg (queste le parole usate dagli agenti), formazione considerata da Ankara un continuum del Pkk. Perquisizioni e interrogatori il metodo per smascherarli. Domande simili o quasi sono toccate ad altri colleghi, nelle ore o nei giorni seguenti. L’ho riscontrato spulciando in rete. Alcune delle loro testimonianze hanno trovato spazio nei canali opportuni, sui social, per condividere l’accaduto e magari informare quanti si stanno avvicinando alla Turchia meridionale. Proposito che condividiamo con questo post, augurandoci che per qualcuno possa essere un buon viatico.” (Emanuele Confortin, 28 Gennaio 2018)
Alla luce di questi fatti si potrebbe dire che nel Nord della Siria sia iniziata una nuova guerra. Sabato 20 gennaio soldati turchi e combattenti dell’Esercito libero siriano – coalizione di gruppi ribelli che per anni ha cercato di destituire il presidente Bashar al Assad – hanno cominciato un’operazione militare contro i curdi dell’Unità di protezione popolare (Ypg) nella zona di Afrin, nel nord-ovest della Siria. Il governo turco ha iniziato l’offensiva dopo che gli Stati Uniti avevano annunciato di voler aiutare i curdi – loro alleati nella guerra contro lo Stato Islamico – a dotarsi di una specie di guardia di frontiera per evitare l’infiltrazione dei terroristi nel loro territorio. La Turchia però aveva interpretato la mossa come un tentativo di rafforzare lo stato curdo, una cosa ritenuta inaccettabile, e aveva agito di conseguenza.
Finora le operazioni militari turche si sono limitate a obiettivi attorno ad Afrin, che si trova a 40 chilometri a nord di Aleppo e a circa 120 chilometri a ovest della principale area controllata dai curdi in Siria. Non è chiaro quanto territorio abbiano già conquistato i turchi e l’Esercito libero siriano, ma sembra che le operazioni stiano andando a rilento.
L’operazione militare ad Afrin sta provocando diverse tensioni tra paesi e gruppi presenti nel nord della Siria. Anzitutto sta creando molti problemi agli Stati Uniti, che sono alleati sia dei curdi siriani che della Turchia. Per il governo americano è indispensabile mantenere buoni rapporti con i curdi, che si sono dimostrati il suo alleato più prezioso nella guerra contro lo Stato Islamico; allo stesso tempo, rovinare le relazioni con la Turchia vorrebbe dire creare un problema enorme nella NATO (organizzazione di difesa di cui fanno parte anche i turchi) e rinunciare a un importante alleato nella politica del Medio Oriente. Finora gli Stati Uniti sono riusciti a tenere in piedi entrambe le alleanze, ma con l’operazione militare ad Afrin le cose potrebbero cambiare e gli americani potrebbero doversi schierare in maniera netta da una parte o dall’altra.
Un altro paese importante ad Afrin è la Russia, che è alleata di Assad e mantiene rapporti non conflittuali con i curdi. Non è ancora troppo chiaro quale sia la posizione dei russi nel conflitto iniziato nel nord della Siria: il governo russo ha probabilmente dato una specie di via libera alla Turchia, anche perché in caso contrario gli aerei da guerra turchi si sarebbero scontrati con quelli russi, che controllano lo spazio aereo sopra Afrin. La Russia però non ha confermato: probabilmente perché non vuole compromette del tutto i suoi rapporti con i curdi, ma anche perché la Turchia è avversaria del regime di Assad, che invece è amico dei russi (e infatti qualche giorno fa il governo siriano aveva minacciato di abbattere gli aerei turchi, se fossero arrivati ad Afrin). Secondo alcuni analisti, la Russia potrebbe avere chiesto in cambio alla Turchia di chiudere un occhio sugli attacchi del regime di Assad nella provincia siriana di Idlib, controllata dai ribelli.
Non è chiaro quanto durerà l’operazione turca in Siria. Il presidente ha detto ieri ad Ankara che la Turchia non si fermerà finché «il lavoro non sarà finito». L’idea prevalente è che l’operazione si stia verificando nell’area di influenza russa, con il via libera dei russi e la non totale opposizione degli americani. Rimane il dubbio che la Turchia non si voglia fermare solo ad Afrin, e a quel punto le posizioni delle grandi potenze coinvolte in Siria potrebbe cambiare.
Nel 2018 le autorità iraniane hanno portato avanti una spudorata campagna repressiva contro il dissenso, stroncando proteste e arrestando migliaia di persone.
Lo ha dichiarato oggi Amnesty International, a un anno dall’ondata di proteste contro la povertà, la corruzione e l’autoritarismo che presero il via in tutto il paese.
Nel corso del 2018 oltre 7000 persone – manifestanti, giornalisti, studenti, ambientalisti, operai, difensori dei diritti umani, avvocati, attiviste per i diritti delle donne e delle minoranze e sindacalisti – sono state arrestate, in molti casi in modo arbitrario. A centinaia sono stati condannati a pene detentive o alle frustate e almeno 26 manifestanti sono stati uccisi. Altre nove persone, arrestate in relazione alle proteste, sono morte durante la detenzione in circostanze sospette.
“Il 2018 passerà alla storia come l’anno della vergogna in Iran. Per tutto il tempo le autorità hanno cercato di ridurre al silenzio ogni forma di dissenso inasprendo la repressione ai danni dei diritti alla libertà d’espressione, di associazione e di manifestazione pacifica e compiendo arresti di massa di manifestanti”, ha dichiarato Philip Luther, direttore delle ricerche di Amnesty International sul Medio Oriente e l’Africa del Nord.
“L’impressionante numero di arresti, condanne e sentenze alla fustigazione rivela fino a che punto estremo le autorità sono arrivate pur di sopprimere il dissenso pacifico”, ha commentato Luther.
Lungo tutto il corso dell’anno ma soprattutto nei mesi di gennaio, luglio e agosto, le autorità hanno disperso con la violenza manifestazioni pacifiche, picchiando manifestanti privi di strumenti di offesa, usando proiettili veri, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua e arrestando arbitrariamente migliaia di persone.
Durante le manifestazioni di gennaio sono stati arrestati molti giornalisti, studenti e difensori dei diritti umani, così come i dirigenti di Telegram, l’applicazione di messaggistica usata per diffondere informazioni sulle proteste e mobilitare i manifestanti.
Complessivamente, nel 2018 sono stati arrestati arbitrariamente, sia durante le proteste che nell’ambito del loro lavoro, 11 avvocati, 50 operatori dell’informazione e 91 studenti.
Almeno 20 operatori dell’informazione sono stati condannati a lunghi anni di carcere o alle frustate al termine di processi iniqui. Mohammad Hossein Sodagar, un giornalista della minoranza turca della regione dell’Azerbaigian, è stato frustato 74 volte nella città d Khoy per aver “diffuso notizie false”.
Un altro giornalista, Mostafa Abdi, amministratore del sito Majzooban-e-Noor che denuncia le violazioni dei diritti umani ai danni della minoranza religiosa dei gonabadi, è stato condannato a 26 anni e tre mesi di carcere e a 148 frustate, oltre ad altre pene accessorie.
In totale, nel 2018 112 difensore dei diritti umani sono finite o hanno continuato a rimanere in carcere.
Le difensore dei diritti umani
Il coraggioso movimento delle difensore dei diritti umani ha aderito alle proteste, convocate per tutto l’anno nel paese per protestare contro le invadenti e obbligatorie norme sull’obbligo d’indossare lo hijab.
Tante donne sono scese in strada e, una volta scelto un luogo pubblico rialzato e in evidenza, si sono tolte il velo, lo hanno fissato a un bastoncino e hanno iniziato a sventolarlo. Le autorità hanno reagito attraverso aggressioni violente, arresti, maltrattamenti e torture. Alcune di loro sono state condannate al termine di processi gravemente iniqui.
Shaparak Shajarizadeh è stata condannata a 20 anni di carcere, 18 dei quali sospesi, per aver protestato pacificamente contro l’obbligo d’indossare lo hijab. Dopo aver pagato la cauzione per il rilascio, ha lasciato l’Iran. Dall’estero, continua a denunciare le torture subite durante la detenzione in isolamento e l’impossibilità di essere difesa da un avvocato nel corso di quel periodo.
Nasrin Sotoudeh, la celebre avvocata per i diritti umani che ha poi assunto la difesa di Shaparak Shajarizadeh e di altre donne che avevano protestato contro l’obbligo d’indossare lo hijab, è stata arrestata il 13 giugno 2018. Oltre ai cinque anni di carcere che sta già scontando per la sua opposizione alla pena di morte, rischia una condanna a oltre 10 anni per svariati reati contro la sicurezza nazionale.
“Per tutto il 2018 le autorità iraniane hanno portato avanti una campagna particolarmente minacciosa contro le difensore dei diritti umani. Invece di punirle spietatamente perché rivendicano i loro diritti, le autorità dovrebbero porre fine alla discriminazione e alle violenze, radicate e dilaganti, nei confronti delle donne”, ha sottolineato Luther.
Diritti dei lavoratori e sindacalisti
Lo scorso anno la crisi economica si è acuita provocando numerosi scioperi e manifestazioni per rivendicare migliori condizioni di lavoro e chiedere protezione al governo. I ritardi o il mancato versamento dei salari, insieme agli alti livelli d’inflazione, hanno fatto salire alle stelle il costo della vita e sono stati a loro volta causa di proteste.
Invece di venire incontro alle loro richieste, le autorità iraniane hanno arrestato almeno 467 lavoratori tra cui operai delle industrie, insegnanti e camionisti. Altri sono stati convocati per interrogatori, altri ancora sono stati sottoposti a maltrattamenti e torture. Sono state inflitte decine di condanne a pene detentive e 38 lavoratori sono stati sottoposti a un totale di quasi 3000 frustate.
Il 10 maggio a Teheran è stata violentemente dispersa una manifestazione pacifica degli insegnanti, che chiedevano salari più alti e più fondi per l’istruzione pubblica. Nelle altre proteste di novembre e dicembre sono stati arrestati almeno 23 insegnanti: otto sono stati condannati a pene detentive da nove mesi a 10 anni e mezzo di carcere, a 74 frustate e ad altre pene accessorie.
Nel corso del 2018 sono stati arrestati almeno 278 camionisti, alcuni dei quali minacciati persino di condanna a morte, a seguito degli scioperi convocati a livello nazionale per chiedere salari più alti e migliori condizioni di lavoro.
A febbraio e novembre hanno scioperato anche i lavoratori della Haft Tapeh, un’azienda di Shush che produce canna da zucchero.
“Dagli insegnanti sottopagati agli operai delle fabbriche che stentano a dar da mangiare alle loro famiglie, coloro che oggi in Iran rivendicano i loro diritti pagano un prezzo alto. Invece di prendere in considerazione le richieste dei lavoratori, le autorità hanno risposto col pugno di ferro, arresti e repressione”, ha detto Luther.
Appartenenti a minoranze etniche e religiose
Durante il 2018 la repressione si è intensificata anche nei confronti delle minoranze etniche e religiose, con centinaia di arresti e ulteriori limitazioni all’accesso all’istruzione, all’impiego e ad altri servizi.
Un giro di vite particolarmente aspro ha riguardato la minoranza religiosa dei dervisci gonabadi, il più grande ordine sufi dell’Iran. Dopo il violento scioglimento di una protesta nel febbraio 2018, centinaia di loro sono stati arrestati e oltre 200 sono stati condannati a un totale di 1080 anni di carcere, 5995 frustate oltre che all’esilio interno, al divieto di viaggiare all’estero e a quello di aderire a gruppi sociali e formazioni politiche. Uno di loro, Mohammad Salas è stato condannato a morte al termine di processo fortemente irregolare e messo rapidamente a morte.
Nel corso dell’anno, secondo dati forniti dall’associazione Articolo 18, sono stati arrestati almeno 171 cristiani, colpevoli solo di aver praticato pacificamente la loro fede. Alcuni di loro sono stati condannati persino a 15 anni di carcere.
Le autorità hanno portato avanti la loro sistematica persecuzione ai danni della minoranza religiosa baha’i: secondo l’organizzazione Baha’i International Community, almeno 95 fedeli sono stati arbitrariamente arrestati e hanno subito ulteriori violazioni.
Centinaia di persone delle minoranze etniche – tra cui gli arabi ahwazi, i turchi azerbaigiani, i baluchi, i turcmeni e i curdi – hanno subito varie forme di discriminazione e sono state arrestate arbitrariamente.
Ad aprile, dopo aver protestato contro un programma televisivo in cui era stata mostrata una carta geografica sulle minoranze etniche che escludeva la popolazione araba, sono stati arrestati centinaia di ahwazi. Secondo attivisti in esilio a ottobre, dopo l’attentato mortale del mese prima contro una parata militare ad Ahvaz, oltre 700 ahwazi sono stati arrestati e portati in località sconosciute.
Centinaia di turchi azerbaigiani, tra cui attivisti per i diritti delle minoranze, sono stati arrestati in relazione a pacifiche iniziative di taglio culturale organizzate nel corso dell’anno, soprattutto a luglio e agosto, quando sono stati eseguiti almeno 120 arresti. Alcuni attivisti sono stati condannati al carcere e alle frustate. Uno di loro, Milad Akbari, è stato frustato a Tabriz, nella provincia dell’Azerbaigian orientale, dopo essere stato giudicato colpevole di “turbamento dell’ordine pubblico” per aver “preso parte a riunioni illegali e aver cantato canzoni eccentriche” nel corso di un incontro culturale.
Attivisti per i diritti dell’ambiente
Durante il 2018, secondo fonti di stampa, sono stati arrestati almeno 63 difensori e ricercatori ambientalisti. Diversi di loro sono stati accusati, senza esibire alcuna prova, di aver raccolto informazioni riservate su aree del paese considerate strategiche, con la scusa di portare avanti progetti sull’ambiente e di natura scientifica. Almeno cinque di loro sono stati accusati del reato di “corruzione sulla Terra”, che prevede la pena di morte.
“Per tutto lo scorso anno le autorità iraniane hanno cercato di schiacciare lo spirito dei manifestanti e dei difensori dei diritti umani eseguendo arresti di massa e persino grottesche condanne alla fustigazione”, ha sottolineato Luther.
“I governi impegnati nel dialogo con l’Iran non devono rimanere in silenzio mentre il reticolo della repressione continua ad allargarsi. Devono protestare nei termini più forti possibili contro la repressione e chiedere con vigore alle autorità iraniane di rilasciare immediatamente e senza condizioni tutte le persone finite in carcere per aver esercitato in forma pacifica i loro diritti alla libertà d’espressione, di associazione e di manifestazione, anche attraverso il loro attivismo per i diritti umani”, ha concluso Luther.
Agenpress.it
Riassunto degli eventi politici che hanno portato alla sua incarcerazione:
Le proteste popolari che nel gennaio 2011 portarono, con l’aiuto dell’esercito, alla destituzione del Presidente Hosni Mubarack, rappresentavano un dissenso comune, un grido di speranza contro la tirannia, il bisogno di riforme democratiche dopo decadi di controllo e repressione.
Dopo un anno di controllo militare, nel 2012, le prime elezioni democratiche in quasi mezzo secolo portarono al successo il candidato dei Fratelli Musulmani (organizzazione dichiarata illegale ai tempi di Mubarack), Mohammed Morsi. Ad un anno dal suo insediamento, il presidente Morsi fu accusato di non essersi occupato dei problemi economici e sociali che affliggevano la società, quanto di preoccuparsi di aumentare il proprio controllo politico sul paese. Tre giorni dopo, l’allora capo dell’esercito e oggi presidente Abdul Fattah al-Sisi spodestò e incarcerò Morsi.
Le autorità allora lanciarono una caccia all’uomo ai sostenitori di Morsi e del movimento islamico di cui faceva parte, provocando la morte di più di 1400 persone e l’incarcerazione di decine di migliaia. Solo dopo diversi mesi dalla detenzione il pubblico ministero ha reso noto le accuse a suo carico. Da allora l’ex-presidente Morsi è detenuto in un carcere di massima sicurezza nei pressi di Alessandria.
Quali sono le accuse a suo carico?
1.Detenzione e tortura di manifestanti. Nell’aprile del 2015 Morsi è stato riconosciuto colpevole di aver ordinato illegalmente la detenzione e la tortura di manifestanti dell’opposizione che protestavano davanti al palazzo di Ittihadiya, la sede della presidenza, il 5 dicembre 2012. È stato condannato a vent’anni di prigione. Insieme a lui sono stati condannati al carcere altri dodici leader della Fratellanza. Morsi è stato assolto dall’accusa di aver istigato i suoi sostenitori a uccidere due manifestanti e un giornalista.
2.Evasione dal carcere di Wadi el Natrun. Il 15 novembre 2016 la corte di cassazione egiziana ha annullato le condanne a morte inflitte nel maggio del 2015 a Morsi e ad altre 98 persone, tra cui esponenti di primo piano dei Fratelli musulmani, come la guida suprema Mohammed Badie. Ha inoltre ordinato di rifare il processo. Nei giorni delle rivolte popolari dell’inizio del 2011, Morsi e altri leader della Fratellanza erano stati rinchiusi in un carcere del nordovest del paese e furono liberati grazie a un’evasione di massa che, secondo l’accusa, fu orchestrata da militanti stranieri affiliati a Hezbollah e ad Hamas. Morsi, invece, ha dichiarato che a farli evadere furono alcuni abitanti del luogo. Gli imputati erano stati condannati anche per l’uccisione e il rapimento delle guardie carcerarie, e per aver danneggiato, saccheggiato e incendiato la prigione. Secondo un avvocato dei Fratelli musulmani, citato da Reuters, la corte di cassazione ha ordinato di rifare il processo perché non si era svolto correttamente.
3.Spionaggio per conto di Hamas, di Hezbollah e dei guardiani della rivoluzione. Il 22 novembre 2016 la corte di cassazione egiziana ha annullato la condanna all’ergastolo per Morsi e le pene capitali inflitte ad altre 16 persone (tra cui due leader della Fratellanza, Khairat al Shater e Mohamed Beltagi). Il tribunale ha inoltre ordinato di rifare il processo. Gli imputati erano accusati di aver cospirato con organizzazioni straniere per compiere atti terroristici e minare la sicurezza nazionale. Secondo l’accusa, nel 2005 la Fratellanza aveva un piano per inviare alcuni dei suoi uomini in campi d’addestramento militare nella Striscia di Gaza, in Libano e in Iran. L’organizzazione, invece, sostiene di avere unicamente scopi pacifici.
- Spionaggio a favore del Qatar. Il 18 giugno 2016 Morsi è stato condannato all’ergastolo con l’accusa di aver passato informazioni e documenti contenenti segreti di stato ad agenti del Qatar attraverso la tv satellitare Al Jazeera. Altre sei persone sono state condannate a morte, tra cui due giornalisti della tv, che sono stati condannati in contumacia. L’avvocato di Morsi ha annunciato il ricorso in appello.
- Frode e oltraggio alla giustizia. Morsi è sotto processo anche per frode in relazione al programma economico e sociale dei Fratelli musulmani ai tempi in cui erano al potere, e per oltraggio alla giustizia, per aver accusato pubblicamente un giudice di aver tollerato dei brogli elettorali.
Cosa ha risposto Morsi?
Morsi non riconosce alcuna autorità delle corti di giustizia, in quanto sostiene di essere vittima di un colpo di stato militare. “Io sono il presidente della Repubblica, secondo la costituzione dello stato, e sono detenuto con la forza”, ha asserito.
C’è qualcos’altro sotto?
I processi contro Morsi avvengono nel mezzo di una campagna contro i Fratelli Musulmani, organizzazione che il presidente Sisi ha promesso di spazzare via. I supporters di Morsi sostengono inoltre che sia tutto un piano per legittimare legalmente il colpo di stato.
Nel 2014 le Nazioni Unite hanno ammonito l’Egitto per le irregolarità riscontrate nel suo sistema giudiziario. E’ apparso evidente come le garanzie di un giusto giudizio siano state più volte calpestate, ad esempio dopo la condanna a morte di più di 1200 persone in due grandi processi di massa.
Fonti: www.internazionale.it ; www.bbc.com
Il Medio Oriente è da sempre una terra teatro di conflitti e dolori la cui eco talvolta arriva alle nostre orecchie dall’uno o dall’altro giornale. Tra questi scontri, sicuramente una questione centrale emerge quando guardiamo alla terra contesa da israeliani e palestinesi, sulla quale la guerra si consuma ormai da decenni e dove ancora oggi la strada da percorrere verso la pace è lunga e faticosa.
Ci piace raccontare in questo contesto la storia di Valentina Sala. La nostra storia inizia quando lei, giovane studentessa laureata alla facoltà di ostetricia, si trova di fronte a tante domande e dubbi su quale futuro la accoglierà. Fu in quel momento che si fece sentire il forte desiderio di intraprendere il noviziato per dedicarsi alla vita religiosa. La consapevolezza della sua vocazione la portarono ad accantonare quell’immagine di sé in sala parto, circondata dal profumo della vita nuova, per intraprendere un percorso che fino ad allora non era affatto rientrato nei suoi piani, ma sicuramenti in quelli di Dio.
Per tanti anni suor Valentina si è chiesta cosa ne fosse stato della sua prima vocazione, aiutare le donne nel momento del parto. Qualcosa le diceva che non le restava altro che aspettare ed affidarsi, che prima o poi sarebbe riuscita a “riutilizzare” quel dono che aveva ricevuto. Nove anni dopo aver accolto il Signore nella sua vita, e sicura che Egli non avesse in serbo per lei nuovi stravolgimenti, dovette ricredersi. Ad attenderla c’era una nuova missione che la portò in una delle terre più martoriate da conflitti, ma anche culla delle tre religioni monoteiste: la Terra Santa.
La congregazione di cui suor Valentina fa parte, quella delle suore di San Giuseppe dell’Apparizione, è presente in Terra Santa dal 1856, fornendo ai residenti supporto educativo e medico. In particolare, l’ospedale Saint Joseph, nella parte est della città di Gerusalemme, era stato fondato nel 1956 nell’allora territorio giordano, per consentire l’accesso ai sistemi sanitari alle popolazioni arabe della West Bank (Cisgiordania) e di Gaza.
Dopo la guerra dei sei giorni del 1967, Gerusalemme est e il Saint Joseph passano sotto il controllo israeliano, rispondendo quindi al ministero della sanità dello stato ebraico. L’ospedale rimane, però, parte di una realtà araba, con personale e pazienti palestinesi.
È con l’apertura del nuovo reparto di maternità a metà anni 2010 che la storia del Saint Joseph si lega a quella di suor Valentina. Le sue due vocazioni, quella di dedizione al Signore e quella di amore per il miracolo della vita, la rendono la persona adatta per dirigere il reparto. Da subito viene colta da stupore, paura ed incertezza, soprattutto per i tanti anni di lontananza da un ospedale e dalla professione ostetrica, ma suor Valentina non si lascia scoraggiare e decide nuovamente di affidarsi alle mani del Signore per lasciarsi plasmare. Ecco che da allora porta avanti la sua missione che quotidianamente la vede coinvolta in tante sfide. Questo ospedale, infatti, ha saputo distinguersi da pochi anni, precisamente dal 2017, per nuovi approcci al parto rispetto alla tradizione araba che hanno catturato l’attenzione di alcune famiglie ebree particolarmente incuriosite dalla proposta del parto in acqua. Questo ha fatto sì che la maternità del St. Joseph diventasse terreno d’incontro tra arabi, musulmani e cristiani, ed ebrei, due popoli profondamente divisi da barriere politiche, economiche e religiose, che inaspettatamente si trovano a condividere un momento così travolgente e delicato della vita.
La nuova dimensione di condivisione porta personale e pazienti a conoscersi in un contesto totalmente differente da quello che in cui normalmente le loro strade si incrocerebbero. In Israele e in Palestina, le poche interazioni tra i due popoli hanno generalmente luogo in situazioni di tensione, come i checkpoint per i palestinesi o il servizio militare per gli israeliani. In sala parto, invece, un’attiva collaborazione è necessaria e il dialogo indispensabile. Non mancano certo momenti di attrito, che solitamente scaturiscono da una diversa visione del parto. Le due popolazioni, infatti, adottano approcci medici differenti, ai quali si aggiungono le difficoltà legate alle barriere linguistiche, che spesso nascondono ferite ben più profonde: il peso delle memorie traumatiche di una vita passata in contrapposizione. Suor Valentina agisce come naturale mediatrice, ascoltando gli uni e gli altri e mitigando reazioni e incomprensioni.
La situazione di conflitto tra Israele e Palestina è lontana dall’essere risolta e quasi mezzo milione di israeliani vive nei territori palestinesi occupati della Cisgiordania. Nonostante ciò, suor Valentina non perde la speranza e ogni giorno dà il suo contributo ricordando la parabola del granello di senape e consapevole che molto spesso sono proprio i piccoli a gesti quotidiani a creare i più solidi ponti.
Il miracolo del Saint Joseph è che gli stereotipi più radicati cadono nel momento più straordinariamente potente e fragile della vita di una donna. I muri, reali o immaginari, crollano, ci si trova a gioire insieme per una nuova fragile vita. E chissà che da queste nuove vite non nascano operatori di pace che porteranno i nostri figli e nipoti a sentire parlare di Terra Santa come luogo di serenità e prosperità per le popolazioni che lo abitano.
Questa testimonianza ci invita a non cadere nel baratro dell’indifferenza. Anche noi, riconoscendoci come esseri fragili in un contesto di fragilità, abbiamo nelle nostre mani il dovere e il potere di metterci a servizio del prossimo: siamo chiamati a seguire il progetto che Dio ha pensato per noi, affinché possiamo essere protagonisti di piccole grandi rivoluzioni, gocce di speranza in oceani in tempesta.
Video integrale della testimonianza di suor Valentina:
![](https://mediterraneo.operalapira.it/wp-content/uploads/2021/01/Is_Pa-150x150.jpg)