The people who have trusted us so far
Nell’ultimo mese stiamo assistendo ad una forte presa di posizione della Turchia che riguarda la guerra in Siria, in particolare a Nord-Est, territorio al centro della zona dove abita la gran parte dell’etnia curda. Non è un mistero infatti che al presidente turco non vadano a genio i curdi, specialmente quando si mettono in testa di voler far politica, tanto che il Pkk è passato dall’essere un partito all’essere un gruppo di terroristi fuori legge. Riportiamo qui di seguito la testimonianza di un giornalista italiano fermato al confine tra Turchia ed Iraq (da poco nel nord dell’Iraq si è tenuto un referendum, seppur non riconosciuto, per l’indipendenza del Kurdistan iracheno).
“«Siamo dell’antiterrorismo, dobbiamo farle alcune domande, da questa parte prego». Inizia così un controllo subito venerdì scorso da chi scrive, alla frontiera tra Turchia e Kurdistan iracheno, di rientro in Italia dopo una decina di giorni a Erbil. Che il passaggio su questo tratto di confine fosse laborioso già si sapeva, ma nel caso in questione è parso chiaro che c’era qualcosa di insolito. Insolito perché dopo essermi visto negare il timbro di ingresso dall’operatore turco, sono stato accompagnato in una struttura poco lontana, dove ha avuto inizio qualcosa di molto simile a un interrogatorio.
Le domande si sono susseguite per circa 90 minuti. Non è normale, almeno da queste parti non mi era mai accaduto. Così come non era ancora accaduto di trovarmi a rispondere a quattro giovani agenti dell’antiterrorismo, ostinati a chiedere dove avessi «incontrato i membri del Pkk?», poi ancora se avevo «conosciuto persone ostili alla Turchia?», «di quali temi ti occupi principalmente… le tue posizioni politiche?», «hai incontrato qualcuno dell’Isis?» e così via, a lungo, con un’intensità crescente. Il tutto gestito dal gruppo dei quattro, assieme, per poi ricominciare dall’inizio, con le stesse domande poste singolarmente, a turno, aggiungendo la pretesa di visionare le immagini salvate nel telefono, le chiamate effettuate, le foto salvate nella reflex, i contatti di cittadini arabi… quindi la consegna del registratore audio per scaricare i contenuti… infine i bagagli. Il tutto alternato da improbabili telefonate «all’ufficio di Ankara» per conferme sulla veridicità delle mie risposte.
Nulla di estremo nell’atteggiamento degli agenti, sia chiaro, e alla fine la realtà dei fatti è stata una sola: tutti i documenti erano in regola e comprensibili, a partire da quel foglio con su scritto “assignment” e dal tesserino da giornalista. Dopo un’ora e mezza di torchio, i quattro capiscono e mi congedano «ci scusiamo ma è il nostro lavoro, è stato aumentato il livello di allerta per intercettare terroristi in fuga». Ammesso in Turchia dunque, portando con me un solo dubbio, in merito a quell’ultima frase: «intercettare terroristi in fuga». In fuga da cosa? Perché proprio in quel momento è stato aumentato il livello di sicurezza? Conoscenti transitati sulla stessa via pochi giorni prima non avevano avuto alcun problema. Il motivo dell’inasprimento dei controlli l’ho compreso il giorno seguente, dopo essere atterrato a Venezia.
Il tutto si è verificato poche ore prima dell’inizio dei bombardamenti aerei nell’enclave curda di Afrin, sul confine turco-siriano, cui è seguito l’attacco di terra. L’operazione avviata da Ankara e chiamata “Ramo d’Ulivo” era attesa da tempo, e punta a ridurre l’area sotto il controllo del Ypg, la milizia curda legata al partito Pyd, componente maggioritaria delle Syrian Democratic Forces (Sdf), principali alleati siriani degli Stati Uniti nella guerra allo Stato Islamico. All’avvio dell’operazione, annunciata da tempo da Erdoğan, mancava una motivazione valida. Questa è giunta il 13 gennaio, quando gli Stati Uniti hanno dichiarato di voler creare una “forza di sicurezza al confine” da 30mila uomini, metà dei quali appartenenti alle Sdf.
Dunque ancora la frontiera turca, dove dal 2011 a oggi sono transitati milioni di uomini, donne e bambini, siriani e iracheni, in fuga da alcuni dei conflitti più cruenti del nostro tempo. Sono stati loro ad alimentare l’esodo che abbiamo imparato a conoscere. Il più massiccio dall’epoca della Seconda guerra mondiale. Una marcia per la salvezza diretta in Europa, passata attraverso i sottoscala di Smirne a cucire giubbotti di salvataggio. Un giorno dopo l’altro con il capo chino, bambini inclusi, per accantonare quanto basta a soddisfare i passeur e proseguire il viaggio tra i flutti dell’Egeo, poi nel fitto di colonne arenate nel fango balcanico. Alla fine per molti è arrivata l’Europa, con le sue promesse disattese e una democrazia ingabbiata tra muri e contraddizioni.
Ecco che i confini, incluso quello turco-iracheno, sono ora il luogo in cui intercettare eventuali «sostenitori dei terroristi» del Ypg (queste le parole usate dagli agenti), formazione considerata da Ankara un continuum del Pkk. Perquisizioni e interrogatori il metodo per smascherarli. Domande simili o quasi sono toccate ad altri colleghi, nelle ore o nei giorni seguenti. L’ho riscontrato spulciando in rete. Alcune delle loro testimonianze hanno trovato spazio nei canali opportuni, sui social, per condividere l’accaduto e magari informare quanti si stanno avvicinando alla Turchia meridionale. Proposito che condividiamo con questo post, augurandoci che per qualcuno possa essere un buon viatico.” (Emanuele Confortin, 28 Gennaio 2018)
Alla luce di questi fatti si potrebbe dire che nel Nord della Siria sia iniziata una nuova guerra. Sabato 20 gennaio soldati turchi e combattenti dell’Esercito libero siriano – coalizione di gruppi ribelli che per anni ha cercato di destituire il presidente Bashar al Assad – hanno cominciato un’operazione militare contro i curdi dell’Unità di protezione popolare (Ypg) nella zona di Afrin, nel nord-ovest della Siria. Il governo turco ha iniziato l’offensiva dopo che gli Stati Uniti avevano annunciato di voler aiutare i curdi – loro alleati nella guerra contro lo Stato Islamico – a dotarsi di una specie di guardia di frontiera per evitare l’infiltrazione dei terroristi nel loro territorio. La Turchia però aveva interpretato la mossa come un tentativo di rafforzare lo stato curdo, una cosa ritenuta inaccettabile, e aveva agito di conseguenza.
Finora le operazioni militari turche si sono limitate a obiettivi attorno ad Afrin, che si trova a 40 chilometri a nord di Aleppo e a circa 120 chilometri a ovest della principale area controllata dai curdi in Siria. Non è chiaro quanto territorio abbiano già conquistato i turchi e l’Esercito libero siriano, ma sembra che le operazioni stiano andando a rilento.
L’operazione militare ad Afrin sta provocando diverse tensioni tra paesi e gruppi presenti nel nord della Siria. Anzitutto sta creando molti problemi agli Stati Uniti, che sono alleati sia dei curdi siriani che della Turchia. Per il governo americano è indispensabile mantenere buoni rapporti con i curdi, che si sono dimostrati il suo alleato più prezioso nella guerra contro lo Stato Islamico; allo stesso tempo, rovinare le relazioni con la Turchia vorrebbe dire creare un problema enorme nella NATO (organizzazione di difesa di cui fanno parte anche i turchi) e rinunciare a un importante alleato nella politica del Medio Oriente. Finora gli Stati Uniti sono riusciti a tenere in piedi entrambe le alleanze, ma con l’operazione militare ad Afrin le cose potrebbero cambiare e gli americani potrebbero doversi schierare in maniera netta da una parte o dall’altra.
Un altro paese importante ad Afrin è la Russia, che è alleata di Assad e mantiene rapporti non conflittuali con i curdi. Non è ancora troppo chiaro quale sia la posizione dei russi nel conflitto iniziato nel nord della Siria: il governo russo ha probabilmente dato una specie di via libera alla Turchia, anche perché in caso contrario gli aerei da guerra turchi si sarebbero scontrati con quelli russi, che controllano lo spazio aereo sopra Afrin. La Russia però non ha confermato: probabilmente perché non vuole compromette del tutto i suoi rapporti con i curdi, ma anche perché la Turchia è avversaria del regime di Assad, che invece è amico dei russi (e infatti qualche giorno fa il governo siriano aveva minacciato di abbattere gli aerei turchi, se fossero arrivati ad Afrin). Secondo alcuni analisti, la Russia potrebbe avere chiesto in cambio alla Turchia di chiudere un occhio sugli attacchi del regime di Assad nella provincia siriana di Idlib, controllata dai ribelli.
Non è chiaro quanto durerà l’operazione turca in Siria. Il presidente ha detto ieri ad Ankara che la Turchia non si fermerà finché «il lavoro non sarà finito». L’idea prevalente è che l’operazione si stia verificando nell’area di influenza russa, con il via libera dei russi e la non totale opposizione degli americani. Rimane il dubbio che la Turchia non si voglia fermare solo ad Afrin, e a quel punto le posizioni delle grandi potenze coinvolte in Siria potrebbe cambiare.
Si tratta di ABO WIND AG (Germania), UPC Tunisia Renewables (Paesi Bassi) e le francesi LUCIA HOLDING e VSB Energies Nouvelles, che si sono viste approvare i loro progetti per la costruzione di centrali di tipo eolico a Mornag (governatorato di Ben Arous), Jebel Sidi Bchir, Jebel Kochbata e Batiha (governatorato di Biserta).
I lavori inizieranno nel periodo tra maggio e novembre 2020 e creeranno 76 posti di lavoro diretti e indiretti. Le società aggiudicatarie della gara venderanno energia eolica alla società tunisina di elettricità e gas (Steg) a prezzi compresi tra 110 milioni e 135 milioni di dinari per Kw/h.
“Dare impulso alle energie rinnovabili (solare ed eolico) è una priorità per il governo” ha detto il premier tunisino Youssef Chahed durante la cerimonia di firma degli accordi di concessione precisando che il governo ha compiuto notevoli sforzi per sviluppare gli aspetti legali e organizzativi del settore.
Questi quattro progetti, con una capacità totale di 120 megawatt, rappresentano un primo passo di un progetto destinato a raggiungere una produzione di 1.000 MG, ha affermato Chahed, che contribuirà a ridurre il deficit energetico della Tunisia.
Altri progetti di grandi dimensioni saranno presto avviati, in particolare con il sistema delle concessioni. Nel 2019 saranno concesse ulteriori licenze per le energie rinnovabili.
Questi progetti avranno un impatto positivo a medio e lungo termine sul costo e sui prezzi dell’elettricità. La Steg acquisterà energia elettrica generata da queste quattro aziende a prezzi “ragionevoli” e con tariffe fissate per 20 anni, ha detto l’ad della società per l’elettricità tunisina, Moncef Harrabi.
A due anni dalla fine della guerra Israele e Hamas tornano a saggiare militarmente le loro posizioni.
Nella notte a cavallo del 26 e del 27 febbraio dalla Striscia di Gaza è stato lanciato un razzo verso l’area agricola del Neghev, a qualche ora dal lancio si ha la risposta di Israele: raid aerei su 5 obiettivi militari di Hamas e della Jihad islamica.
Il risultato dei raid, oltre alla distruzione degli obiettivi, è di 4 feriti, a quanto pare giovani inquadrati nelle forze militari di Hamas che presidiano la frontiera di Gaza.
Hamas ed Israele si accusano reciprocamente di essere la causa della progressiva escalation di violenza che si è verificata negli ultimi mesi, quello che è certo è che la situazione attuale ha contribuito a creare un profondo senso di angoscia sia tra la popolazione di Gaza sia tra le famiglie israeliane che vivono nelle vicinanze del confine.
Un senso di angoscia peggiorato sia dall’intensificarsi dei controlli aerei a bassa quota da parte del governo di Gaza, sia dai comunicati delle autorità israeliane che invitano la popolazione a tenersi lontani dai luoghi colpiti dagli attacchi visto il forte rischio della presenza di ordigni inesplosi.
Questa nuova ondata di attacchi fra le due nazioni potrebbe apparire in netto contrasto con le dichiarazioni di Netanyahu e Abu Mazen dal momento che entrambi si sono sempre detti disponibili sul trovare una soluzione pacifica al conflitto, anche se sistematicamente cercano alleati in direzioni diametralmente opposte, tuttavia va fatto notare che lo scorso 13 febbraio si sono tenute le elezioni interne al partito di Hamas, e il risultato più significativo è il rafforzamento del potere delle “Brigate Ezzedin al-Qassam”, il braccio armato di Hamas.
Questi episodi uniti ad alcuni aspetti della politica israeliana non fanno che accentuare il già forte malcontento, e sono di fatto la causa della forte preoccupazione della popolazione, sia palestinese che israeliana, per lo scoppio di un nuovo conflitto armato.
Caso Regeni: Il Cairo respinge l’indagine italiana su sette agenti egiziani
Dicembre 2018: il Cairo respinge la richiesta d’indagine italiana su sette agenti dei servizi egiziani, indagati per sequestro di persona, nei confronti del giovane ricercatore universitario Giulio Regeni.
Il coinvolgimento dei sette agenti indagati è legato all’analisi dei tabulati telefonici da cui risulta che il giovane ricercatore italiano era pedinato e controllato almeno fino al 25 gennaio del 2016, giorno della sua scomparsa.
Si tratta di soggetti che avrebbero di fatto messo “sotto controllo” Regeni, a partire dal dicembre del 2015, con una serie di attività culminate con la registrazione video di un colloquio tra il sindacalista Mohamed Abdallah e il ricercatore, avvenuta il 7 gennaio di quasi tre anni fa.
I risultati dell’attività di indagine svolta da Ros (Raggruppamento Operativo Speciale Arma Carabinieri) e Sco ( Servizio Centrale Operativo) sono noti alle autorità egiziane da almeno un anno, in quanto presenti nella informativa messa a disposizione nel dicembre dello scorso anno dalla magistratura romana.
(https://tg24.sky.it/mondo/2018/11/30/caso-giulio-regeni-fico-servizi-segreti.html)
Gli inquirenti egiziani responsabili del caso di Giulio Regeni tuttavia respingono la decisione dei colleghi italiani; hanno chiesto infatti a quelli italiani di indagare invece sul perché il ricercatore fosse entrato in Egitto con un visto turistico, e non con un visto per studenti, nonostante avesse in programma di condurre una ricerca accademica.
Gli inquirenti egiziani infatti sostengono che l’attività di sorveglianza degli agenti rientri nei loro compiti, oltre al fatto che in Egitto non esiste un vero e proprio“registro degli indagati”.
Il presidente della Camera Fico ha comunicato, alla riunione dei capigruppo di Montecitorio, con “grande rammarico” la decisione di interrompere i rapporti parlamentari con l’Egitto. Tutti i gruppi parlamentari hanno aderito alla proposta. Fico definisce un “atto giusto, forte e coraggioso” la decisione della Procura di Roma di iscrizione nel registro degli indagati degli agenti della sicurezza nazionale egiziana. “Direi – continua – anche un atto dovuto. Visto che la Procura del Cairo non procede, è giusto lo faccia la Procura di Roma”, afferma il presidente della Camera che alla domanda sull’auspicata collaborazione con le autorità egiziane per arrivare alla verità ricorda: “A settembre sono andato al Cairo. Avevo detto sia al presidente Al Sisi sia al presidente del Parlamento egiziano che eravamo in una situazione di stallo: avevo avuto delle rassicurazioni. Ma ad oggi non è arrivata nessuna svolta”.
(https://tg24.sky.it/cronaca/2018/11/29/regeni-procura-roma-indaga-servizi-segreti-egiziani.html)
Il Parlamento egiziano si è detto sorpreso e rammaricato per “le dichiarazioni e l’atteggiamento ingiustificabile” del presidente della Camera dei deputati,
ribadendo come da anni entrambi i governi stiano collaborando alla ricerca della verità e la volontà del Cairo di proseguire la cooperazione giudiziaria tra le due Procure.
Ha assicurato che l’impegno del suo governo per fare luce sul caso non può essere messo in discussione, che la collaborazione giudiziaria, come riaffermato anche in occasione dell’ultima riunione a Il Cairo, deve assolutamente continuare e che è intenzione delle Autorità egiziane proseguire le indagini nonostante le difficoltà riscontrate.
Una dichiarazione che contrasta però con la realtà dei fatti.
Intanto la Procura di Roma ha ufficialmente iscritto cinque persone nel registro degli indagati: si tratta di ufficiali appartenenti al dipartimento di Sicurezza nazionale (servizi segreti civili) e all’ufficio dell’investigazione giudiziaria del Cairo (polizia investigativa).
L’inizio di 2018 è certamente stato un periodo florido per l’arte e la cultura marocchina. Varie esposizioni si sono, difatti, concentrate in questo periodo, a partire dall’inaugurazione della Contemporary Art Fair 1-54 il 23 Febbraio al La Mamounia Palace Hotel in Marrakech, che si è protratta per tutto il weekend. La fiera d’arte africana, intitolata ” Decolonize Always! “, ha esplorato gli stereotipi e le barriere contro l’auto-espressione indigena, nata come conseguenza del dominio e della cultura coloniale.
La fiera di Marrakesh ha attirato 4.000 visitatori dal giovedì alla domenica; secondo gli organizzatori, meno di un terzo della partecipazione alla fiera di Londra dello scorso anno, ma molti erano collezionisti, con molti soldi da spendere, e ciò ha garantito le vendite.
“Abbiamo pensato che fosse importante mostrare l’arte africana contemporanea nel continente africano”, ha detto Touria El Glaoui, direttore fondatore della fiera 1-54. La fiera, che è stata fondata a Londra nel 2013 e si è aperta a New York nel 2015, ora si estende su tre continenti. “Ma volevamo trovare un posto dove i visitatori potessero venire in Africa e andarci bene”, ha detto la signora El Glaoui, alludendo alla relativa stabilità del Marocco. Questo importante evento ha contribuito sicuramente a dare all’ artigianato del Marocco una visibilità internazionale ed ha offerto maggiori opportunità di mostrarne le arti popolari in tutto il mondo; inoltre ha sicuramente dato spazio e visibilità a tanti giovani artisti africani, come un giovane artista Ghanese che, per contrastare la natura limitante dei musei di epoca coloniale che nessuno ha visitato, ha avuto l’idea di una mostra itinerante con muri che possono essere abbattuti e ripiegati quando il museo si ferma in un luogo particolare.
Il giorno successivo all’avvio della fiera, Sabato 24 Febbraio, si sono anche schiuse le porte del Museo d’Arte Contemporanea Africana Al Maaden (MACAAL) sempre a Marrakech. Il museo è frutto dell’ iniziativa filantropica dei collezionisti d’arte marocchina Alami Lazraq e di suo figlio Othman Lazraq, ed è il primo museo non-profit del suo genere in Nord Africa. Con la mostra Africa Is No Island, spazio dedicato all’arte africana, espone la collezione privata di arte moderna e contemporanea della famiglia Lazraq, raccolta negli ultimi 40 anni. Si tratta del primo spazio nel Nord Africa a promuovere la conoscenza di artisti affermati ed emergenti africani, per mettere in evidenza l’energia creativa e la diversità culturale di tutto il continente. Mohammed VI, attuale sovrano del Marocco, permettendo tali iniziative, ha contribuito alla vita culturale in modo determinante, sostenendo la scena artistica contemporanea, e trasformando il Marocco in un polo culturale dinamico. Africa Is no Island comprenderà due mostre, un’esposizione fotografica e una semipermanente delle opere della collezione, visibili dal 24 febbraio al 24 agosto 2018. Oltre a circa 40 fotografi, emergenti e affermati con lavori selezionati, sarà anche presentata un’installazione sonora fatta di rumori che introdurrà il pubblico nella realtà di Marrakesh.
Infine si sta svolgendo proprio in questi giorni il terzo festival artistico annuale ” Marocco ad Abu Dhabi “, che si terrà dal 6 al 19 marzo. Con il fine ultimo di rafforzare i legami tra il Marocco e gli Emirati Arabi Uniti, il “ Marocco ad Abu Dhabi” offre alle comunità degli Emirati Arabi una visione della cultura e del patrimonio marocchino e della sua capacità di conservare l’artigianato attraverso le generazioni. A questo proposito, l’evento presenterà mostre che copriranno una varietà di argomenti, come l’architettura, la musica, l’arte e la cucina, ma pure i costumi, le tradizioni, la moda e gli artefatti del patrimonio marocchino. Oltre a rafforzare i rapporti politici, economici, scientifici, turistici e culturali, l’evento mira anche a educare le generazioni future sull’importanza di preservare il patrimonio del proprio Paese e infondere, al contempo, principi di tolleranza. Questa edizione celebra le giovani menti creative che aggiungeranno il loro tocco innovativo alla conservazione del patrimonio culturale. La Galleria del design e della gioventù è ispirata all’architettura tradizionale come luogo di espressione artistica. Inoltre, l’evento celebrerà il meglio dell’arte architettonica islamica e la sua unicità in Marocco.
Ci sono molti possibili sviluppi che potrebbero seguire da questi eventi. Innanzitutto è probabile che il successo del Marocco nella serie di Abu Dhabi continui, crescendo e assumendo nuove forme e nuove idee nel tempo. In futuro potrebbe ispirare artisti locali di Abu Dhabi a sperimentare stili di fusione che influenzeranno la loro cultura.
In secondo luogo, l’artigianato del Marocco diventerà probabilmente sempre più internazionale, con maggiori opportunità di mostrare le arti popolari in altre parti del Medio Oriente e in tutto il mondo. Il trasporto di queste mostre è sicuramente costoso e richiede ingenti investimenti da parte di governi o di istituzioni private, ma ne vale la pena per gli effetti positivi sulla diplomazia culturale, oltre ad essere mezzo per attirare turisti e clienti, e per estendere l’apprezzamento dell’arte marocchina a livello globale. In terzo luogo, potrebbe motivare più studenti a partecipare a progetti relativi alla conservazione del patrimonio e, in ultima analisi, attirare un’infusione di finanziamenti che migliorerebbe il sistema educativo altrimenti poco interessante.
Il Marocco ha una ricca storia e uno ampio e molteplice spettro di artigianato; l’aumento dell’esposizione, perciò, gioverebbe anche alle tribù nelle aree rurali e fornirebbe un incentivo per continuare le loro tradizioni e migliorare le economie locali, con la possibilità di una rete internazionale di clienti.
Questi festival artistici svolgono, pertanto, un ruolo centrale nella diplomazia culturale people-to-people, anche semplicemente presentando immagini, che fanno fermare, pensare, divertire e porsi delle domande, in grado quindi di creare dei ponti tra la cultura africana e quella del resto del mondo.
Nessuna sorpresa dai risultati delle elezioni parlamentari che si sono svolte il 4 Maggio in Algeria.
Primo partito, anche se in calo di consensi, si è confermato il Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) del presidente Abdelaziz Bouteflika, costretto su una sedia rotelle dal 2013, quando un ictus ha limitato la sua mobilità e capacità di parola (vedi http://www.operalapira.it/algeria-1/).
L’Fln ha conquistato 164 seggi su 462. Al secondo posto, con 97 seggi, il Raduno Nazionale per la Democrazia (Rnd), che molto probabilmente formera col Fln una coalizione di governo.
Molto bassa l’affluenza intorno al 38,2%. Gli elettori sono stati poco più di 8,5 milioni su un totale di 23,2 milioni di aventi diritto. Lo scarso interesse per le elezioni è dovuto alle difficoltà economiche del Paese legate al calo dei prezzi degli idrocarburi, dai quali il bilancio statale algerino dipende per il 60%. Per rispondere all’emergenza il governo ha adottato misure di austerità come il blocco di vari progetti di infrastrutture e nuove tasse.
In queste settimane in Iraq si stanno vivendo continui scontri tra le forze dello stato iracheno e le milizie dello Stato Islamico che si stanno contendendo il nord della nazione. Il centro dello scontro è principalmente la città di Mosul, roccaforte dello stato islamico e punto strategico per la riconquista dei territori da parte dell’esercito di Baghdad. Di seguito un report sulla situazione attuale della città:
Nella città del nord dell’Iraq continua l’avanzata delle forze del governo iracheno e dei loro alleati, tra cui gruppi paramilitari sciiti e peshmerga curdi. Il 6 dicembre i soldati di Baghdad si sono addentrati nel centro della città da sudest per conquistare uno dei cinque ponti sul fiume Tigri. Il 7 dicembre le truppe governative sono riuscite a prendere il controllo dell’ospedale Al Salam, che serviva da centro di comando dei jihadisti. Questi ultimi sviluppi danno nuovo slancio alla battaglia contro l’Is lanciata lo scorso 17 ottobre.
Mosul era la più grande città sotto il controllo dell’Is ed era considerata la capitale del califfato proclamato da Abu Bakr al Baghdadi nel giugno del 2014. All’offensiva governativa partecipano circa centomila combattenti iracheni, con il sostegno aereo e terrestre di una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti.
A Mosul l’esercito iracheno combatte quartiere per quartiere, tra attacchi suicidi (circa 650 finora), cecchini e imboscate. Le operazioni si svolgono tra una popolazione civile di circa un milione di abitanti. Si pensa che i jihadisti ancora presenti in città siano circa tremila, mentre due mesi fa il loro numero era stimato fino a cinquemila. Secondo le Nazioni Unite i soldati governativi morti sono duemila, cifra non confermata da Baghdad, e le vittime civili più di novecento. La Mezzaluna rossa ha dichiarato che alla fine di novembre le persone che avevano trovato accoglienza nei campi allestiti dal governo sono state 82mila. Inoltre ci sono diecimila persone della minoranza turcomanna in fuga verso la Turchia e il nord della Siria.
A un mese dalla conferenza di Palermo, nata coll’idea di dare un nuovo impulso al processo di stabilizzazione della Libia mediante un piano d’azione più concreto delle poche direttive concordate al vertice di Parigi, convocato dal premier francese Macron lo scorso Maggio, è ormai tempo di fare un bilancio dei risultati ottenuti e di ciò che ha rappresentato per gli attori politici sulla scena.
Lo stesso fatto che ci siano stati o meno dei risultati è stato più volte messo in dubbio nelle settimane successive alle due giornate del 12 e 13 Novembre, date della conferenza, e l’argomento è stato in molte occasioni motivo di scontro. E’ innegabile però che, almeno dal punto di vista della presenza, una certa rilevanza l’abbia avuta: trenta i Paesi presenti, di cui dieci coi propri capi di Stato e gli altri rappresentati da ministri e viceministri. D’altra parte, è anche necessario sottolineare l’assenza di numerosi leader mondiali che avevano fin dall’inizio sostenuto il progetto, tra cui spiccano il presidente USA Donald Trump, Macron e il presidente russo Putin. Notevole difficoltà è stata riscontrata anche nella gestione delle delegazioni libiche, essendo stato difficile mettere insieme i leader di fazioni in lotta da anni. A questo bisogna aggiungere l’incertezza riguardante la partecipazione al vertice dell’uomo forte della cirenaica, Khalifa Haftar, il potente generale appoggiato da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia e Russia che controlla la Cirenaica e l’Esercito nazionale libico: alla fine c’è stata, ma questi ha potuto sostanzialmente scegliere chi vedere bilateralmente, evitando invece di prendere parte a sedute plenarie. E’ avvenuta anche la tanto agognata stretta di mano tra lui e il capo del governo libico d’unità nazionale al Sarraj (sostenuto dalle Nazioni Unite) davanti al premier italiano Giuseppe Conte, che assicura che la conferenza non sia stata solamente una vetrina politica.
Se guardiamo ai contenuti del vertice, la diplomazia italiana pare aver comunque ottenuto alcuni risultati.
Innanzitutto un accordo sulla data delle elezioni politiche in Libia, spostate dal 10 Dicembre alla primavera del 2019. Inoltre l’Italia ha lavorato alla creazione di un consenso attorno a un nuovo percorso condiviso con le Nazioni Unite, senza imporre nuove condizioni o scadenze (linea d’azione che si è sempre rivelata controproducente). Il contributo di idee e indirizzo del nostro Paese si è manifestato principalmente nell’enfasi sulla necessità di ricostituire le istituzioni economico-finanziarie libiche e di coinvolgere maggiormente gli attori militari che hanno il controllo reale del terreno e di tutte quelle parti di paese che erano rimaste escluse precedentemente; da qui la convocazione a inizio 2019 di una conferenza nazionale. Ovviamente ciò va letto anche nell’ottica della volontà di tutelare gli interessi italiani sul suolo libico.
E’ necessario aggiungere che la posizione dell’Italia è mutata moltissimo nell’ultimo anno e nelle ultime settimane. In particolare, il governo Conte ha scelto di aprire più chiaramente al dialogo con il generale Haftar (nuovamente in Italia pochi giorni fa) col chiaro scopo di tutelarci in caso di una sua vittoria, anche se marginale, alle prossime elezioni politiche. Molti però hanno interpretato l’apertura italiana come una debolezza o una tacita ammissione dell’impossibilità di sostenere a lungo la propria strategia di supporto a Serraj e all’impegno delle Nazioni Unite nel paese. Il “permissivismo” italiano legato alla partecipazione di Haftar a Palermo ha spazientito la delegazione turca che ha voluto dare un segnale di dissenso abbandonando i lavori. Effettivamente Haftar è stato spesso causa di tensioni col suo comportamento: “Non parteciperemo alla conferenza neanche se durasse cento anni. Non ho nulla a che fare con questo evento”, aveva dichiarato a una tv libica, per poi arrivare a Palermo per ultimo. “Sono qui solo per incontrare il premier e dopo partirò immediatamente: vedo che ci sono tutti, ma non ho nulla a che fare con loro”. E, infatti, l’incontro con al Serraj è avvenuto quasi in privato dei lavori veri e propri, svoltisi senza la partecipazione del generale.
L’ultima nota dolente riguarda il tema immigrazione, che è stato pressoché ignorato, generando una profonda delusione nelle organizzazioni umanitarie.
A conti fatti, la conferenza di Palermo non è stata di certo un punto di svolta nella risoluzione della crisi libica. E’ anche vero che forse era illecito aspettarselo: dall’idea si è passati al concreto in tempi strettissimi, probabilmente troppo per l’organizzazione che invece sarebbe stata necessaria per portare al raggiungimento di risultati più incisivi. Inoltre è evidente che una soluzione definitiva non sarà mai raggiunta se non si riusciranno a coinvolgere nuovamente nella trattativa i grandi Paesi come gli Stati Uniti, che potrebbero svolgere una funzione di mediazione tra gli interessi, spesso divergenti, degli attori europei; sfortunatamente ad oggi sembrano molto lontani dal voler adempire a questo compito.
Ciò che è certo è che l’Italia al momento è la nazione più chiamata a ricoprire un ruolo fondamentale nella risoluzione di questo conflitto; il punto sta nel capire come, e nel guadagnare una credibilità internazionale sufficiente a convincere gli altri grandi della Terra a promuovere una linea politica (e non solo) che possa portare la Libia fuori da una terribile situazione che si trascina ormai da troppo tempo.
L’ Arabia saudita the new vision 2030.
drasticamente la dipendenza dall’entrate petrolifere. È questo l’obiettivo del programma di sviluppo “Arabia Vision 2030” approvato ieri dal Consiglio dei ministri presieduto da re Salman riunitosi ieri a Riad. Il piano verrà attuato dal Consiglio degli affari economici presieduto dal vice erede al trono Mohammed Bin Salman, principale promotore delle riforme economiche. L’ipotesi di una stagnazione al ribasso dei prezzi petroliferi, il rientro nel novero delle economie internazionali dello storico nemico Iran, ma soprattutto il rischio di una destabilizzazione del paese a causa di una cri Trasformare l’Arabia Saudita in una potenza finanziaria regionale e riducendo si economica endemica – nel 2015 il paese ha registrato un deficit record di 98 miliardi di dollari – stanno spingendo l’Arabia Saudita ad una radicale riforma della sua economia e dei suoi settori chiave.
com cambiato avvenuto nel scorso l’anno nel verte del potere in arabia saudita, ci ha portato dei grande cambiati a livello sociale , politico, ad’ economico con realzo la Vision 2030, che prevede uma sierie de riforma che permeterano un megliore clima de l’investimenti l’ esteri a lungo termine, mediante la diversificazione dell’economia di base, massimizzando le capacità di investimento e promuovendo la privatizzazione di beni statali, incluse aziende primarie, immobili e vari asset. Alle fonti energetiche rinnovabili sarà concesso un più ampio ruolo,con un obiettivo iniziale di generare 9,5 gigawatt dienergia rinnovabile.
Tra gli obiettivi della “visione” da realizzare in questo settore, entro il 2030, vi sono: tenziare la localizzazione del settore petrolifero e del gas dal 40% al 75%.
Espandere gli asset del Fondo di Investimenti Pubblici da 600 miliardi di riyal a oltre 7.000 miliardi.
Far progredire la posizione del Regno dalla 49° alla 25°nella Classifica Globale di Prestazione Logistica.
Incrementare dal 16% al 50% la quota di esportazioni non petrolifere del PIL non legato al petrolio.
Far progredire la posizione del Regno dalla 25° a una delle prime dieci nell’Indice Globale di Competitività.
Incrementare gli investimenti stranieri diretti dal 3,8%al5,7% del PIL;
Incrementare il contributo del settore privato dal 40%al 65% del PIL.
com questo il governo saudita pretende construire un futuro com n un nuovo paradigma economico basato non solo sul’ exportazione di petroleo, ma com politica estera economica che si basa nell alargamento nei rapporti di coloborazione economica con paese come L’italia Luxeborghe Belgio francia e gli stati unite.
par rende possibile questo piano della new vision 2030 il governo saudita ha avviatopercorso de nuove collaborazione, per nell scorso l’ anno il minestrio degli affari esteri ha promosso con l’Italia-saudi arabia business è incentratoArabia Business Forum che si tiene aRoma il 4 dicembre 2017
In questo forum c’e stato numerosi participante esponente del governo saudita, e delle compagnia imprenditoriale locali.
nel che riguarda il settore del turismo il vogerno saudita voule incrimentare molto questo settore- tramite la criazionedi fondo sovrano.
Com questo fondo il governo saudita fondo ha annunciato nel 2017la creazione di una società veicolo con un capitale di 2,7 miliardi di dollari per investirenel settore del turismo e dell’intrattenimento.
Sono stati annunciati in particolare due ambiziosiprogetti: un progetto di resort sul MarRosso (Red Sea Project) e una città-intrattenimentodi 334 km2 a sud di Riad.
un l’altro settore molto importante per la realizzazione del piano entro 2030 è senza dubbio il settore delle materiale di construizione, MATERIALI DA COSTRUZIONE
Questo settore rappresenta uno dei comparti portanti dell’economia saudita,grazie anche ai massicci investimenti pubblici.
Le principali città – Riad, Gedda e Dammam hanno raggiunto dimensioni di metropoli
medio-grandi e sono in continua espansione.
Le prospettive di sviluppo del settore sonolegate anche ai progetti per la costruzione
di città economiche a vocazione industriale(le cosiddette “economic cities”, in vari stadidi sviluppo), nonché alla realizzazione di costruzioniresidenziali, alberghi, strutture ospedaliere,strutture scolastiche, grattacieli, centri
http://www.cameraitaloaraba.org/paesi-arabi/news/con-%E2%80%9Cvision-2030%E2%80%9D-l%E2%80%99arabia-saudita-punta
06/09/91 : Cessate il fuoco tra Marocco e Saharawi – Missione MINURSO
20/02/11 : Inizio delle manifestazioni di protesta in varie città del Marocco – Primavera araba
29/11/11 : Abdelilah Benkirane Capo del Governo, del partito islamista Giustizia e Sviluppo (Pjd)
15/12/11 : 13° Congresso del Fronte Polisario
11/03/12 : Colloqui tra saharawi e marocchini
15/11/13 : 38° Conferenza europea di coordinamento e appoggio al popolo saharawi (EUCOCO)
06/02/14 : Migranti annegati nelle acque dell’enclave spagnola di Ceuta
22/10/14 : Circa 400 migranti hanno provato a entrare a Melilla
28/11/14 : Forum mondiale dei Diritti dell’uomo
22/12/14 : Scontro tra polizia e studenti
Per decenni la soluzione a due stati è stata considerata l’unica soluzione razionale per garantire la pace fra Israele e Palestina, ma in cosa consisterebbe esattamente questa soluzione? Secondo questa proposta la zona tra la Cisgiordania e il Mar Nero dovrebbe essere equamente divisa tra le due nazioni in modo tale da garantire la coesistenza di due stati uno di fianco all’altro con le due capitali riunite a Gerusalemme secondo i confini sanciti nel 1967.
Questa almeno è la teoria, in pratica, già a partire dalla fine della guerra dei sei giorni (1967), Israele si è spinto ed ha costruito molto al di là dei confini stabiliti, nonostante le obbiezioni da parte di diplomatici da tutto il mondo, ed ha avanzato richieste più o meno legittime al fine di ampliare i propri confini.
Solo di recente c’è stata una presa di posizione ed una condanna chiara nei confronti delle azioni dello stato israeliano, si pensi alla risoluzione per Gerusalemme dello scorso mese o alla risoluzione approvata il 23 Dicembre dal consiglio di sicurezza dell’ONU che condanna gli insediamenti israeliani in territorio palestinese.
Quest’ultima risoluzione è stata approvata da 14 stati membro su 15, anche grazie al fatto che gli Stati Uniti non hanno posto il veto e si sono astenuti dalla votazione.
Inutile dire che la decisione ha sollevato numerose polemiche da parte di Israele che si sente vittima di una qualche forma di complotto mirato a ridisegnarne i confini, le aree di competenza e privarlo dei luoghi simbolo della propria cultura, non solo nei confronti dell’ONU ma anche nei confronti degli Stati Uniti, ed in risposta ha alzato ancora di più le barriere nei confronti della diplomazia con i paesi stranieri.
Mai come adesso la soluzione dei due stati sembra inattuabile, visto che da un lato abbiamo uno stato che pretende il riconoscimento del suo “bottino di guerra”, mentre dall’altro abbiamo uno stato che si arrocca orgogliosamente sui punti stabiliti dai primi accordi, senza che nessuno dei due sia disposto realmente a scendere a patti; interventi ritardatari e pesanti come quello del 23 dicembre o del mese scorso non migliorano certo la situazione generale.
Preceduto da Francia e Germania, il Marocco decide di vietare totalmentee l’importazione, la fabbricazione e la commercializzazione del burqa in tutte le città e le località del regno, senza però restrizioni per chi lo indossa. In tal caso, però, il contesto culturale in cui questo divieto viene applicato è alquanto insolito: il Paese è costituito in prevalenza da musulmani di fede sunnita che rappresentano il 97 per cento della popolazione, e l’Islam è appunto la religione ufficiale.
“Chi contravviene a questa decisione, vedrà il sequestro delle merci e la chiusura del negozio”, si legge in un volantino diffuso dalla polizia.
I funzionari del ministero dell’Interno non hanno rilasciato dichiarazioni circa le ragioni di questa decisione, lasciando però intendere che i motivi siano legati alla sicurezza.
Troppo spesso, infatti, il burqa è usato per nascondere il volto e compiere azioni criminose nel paese.
È comunque necessario precisare che questo indumento tipicamente di origine afghana viene venduto in Marocco nella sua versione rivisitata: non si tratta infatti dell’abito lungo con la retina davanti agli occhi, ma solo di un copricapo, un velo più grande del foulard indossato dalle donne musulmane, con uno spazio per lasciare liberi gli occhi.
La decisione ha generato il dissenso tra alcuni gruppi conservatori, anche se indossare un velo integrale non è tradizione del Marocco, e la maggior parte delle donne musulmane nel paese indossano semplicemente l’hijab o il niqab.