The people who have trusted us so far
Dopo mesi di attesa, continui rinvii e speranza è iniziata in Europa la distribuzione del vaccino contro il Covid. Quando sulle prime pagine dei giornali è apparsa questa notizia l’intera Comunità Europea ha pensato di essere ad una svolta che determinasse l’inizio della sconfitta del virus.
Il 9 novembre 2020 venne pubblicamente annunciato che l’americana Pfizer e la tedesca BioNTech erano riuscite a mettere a punto un vaccino efficace al 90% e da lì, nel giro di poche settimane, si inaugurarono in molti paesi i V-Day, prima fra tutti la Gran Bretagna che regalò al mondo l’emblematica immagine della novantenne Margaret Keenan, la prima persona in Occidente a ricevere il vaccino.
La rapidità con cui si era giunti alla sintesi di un vaccino risultato efficace, dopo i vari test di routine, ha talora sollevato dubbi e perplessità nell’opinione pubblica. Di norma “il tempo impiegato a sviluppare un vaccino è molto lungo e prevede un alto tasso di insuccessi. Il periodo di ricerca preliminare, infatti, può andare dai due ai cinque anni e, per arrivare allo sviluppo completo del prodotto, possono passare anche dieci anni” afferma il professore A. Mantovani, direttore scientifico di Humanitas. Al netto però dell’inarrestabile ed incontrollabile diffusione del virus Sars-cov-2, la corsa al vaccino ha accelerato e drasticamente ridotto le tempistiche di creazione e sperimentazione.
Nonostante le prime perplessità il vaccino però è stato somministrato e addirittura, finora, le dosi non sono state sufficienti per poter vaccinare tutti coloro che lo richiedevano. Al di là di casi isolati di effetti collaterali dopo la prima dose, la campagna di distribuzione delle dosi in Europa è decollata seguendo un preciso piano di controllo strategico promulgato dalla Commissione Europea già il 15 ottobre 2020. Ursula von der Leyen ha dichiarato che nell’ambito della sua strategia si era adoperata al fine di stringere accordi con le singole case farmaceutiche produttrici dei vaccini, i quali, una volta disponibili, sicuri ed efficaci sarebbero stati resi accessibili a tutti gli stati membri contemporaneamente. Le scoperte dei vaccini sono “luci di speranza” se sono “a disposizione di tutti”. Lo ha detto il Papa nella benedizione Urbi et Orbi del 25 dicembre chiedendo di evitare che “le leggi di mercato e dei brevetti siano sopra le leggi della salute e dell’umanità”. Il Papa invita a pensare che “il dolore e il male non sono l’ultima parola.”
Il Papa ha esortato tutti, fedeli o meno, a considerare con serietà e responsabilità l’opportunità di essere vaccinati per consentire a sé stessi, ma soprattutto agli altri, di potersi tutelare e tornare a vivere pienamente. In modo particolare il Papa si è rivolto ai responsabili degli Stati, alle imprese, agli organismi internazionali chiedendo loro di “promuovere la cooperazione e non la concorrenza, e di cercare una soluzione per tutti” per evitare che questa malattia assuma la forma di un “virus dell’individualismo radicale” ed egoista che ci rende indifferenti davanti “alla sofferenza di altri fratelli e sorelle” (Messaggio Urbi et Orbi del Santo Padre Francesco del 25 dicembre 2020).
Con l’approvazione da parte dell’EMA, l’agenzia europea dei medicinali, del vaccino Pfizer, seguita da quelle di Moderna e AstraZeneca, agli stati membri è stato chiesto un inizio sincronizzato simbolico della vaccinazione il 27 dicembre. Il grande clamore mediatico di tale avvenimento ha portato alla luce le prime divisioni. L’Ungheria ha deciso di ignorare la richiesta di un inizio coordinato, cominciando a somministrare ai volontari le prime dosi ricevute dallo stabilimento Pfizer immediatamente dopo la consegna. A gennaio 2021, a vaccinazione di massa iniziata, le differenze di strategie di ogni paese membro sono state messe in evidenza da una diversa velocità delle somministrazioni.
È stata solo questione di tempo perché le prime controversie venissero allo scoperto: la Germania, promotrice con Italia, Francia e Olanda dell’acquisto centralizzato europeo, è stata accusata di aver precedentemente stilato un accordo con Pfizer per 30 milioni di dosi supplementari, oltre le 300 assegnate. Il ministero della salute tedesco si è giustificato dicendo che l’acquisto è stato fatto in un momento in cui il vaccino di Moderna non era stato ancora approvato dall’EMA e si temeva che le dosi comunitarie non fossero sufficienti per raggiungere l’immunità di gregge tedesca in tempi brevi. Tale spiegazione, insieme a una dichiarazione di Stefan De Keersmaecker, portavoce della Commissione, in cui si afferma che le dosi aggiuntive fanno parte dei negoziati collettivi dell’UE, non hanno comunque convinto Bruxelles, dato che l’accordo tedesco è stato portato a termine due mesi prima della firma del contratto Pfizer. Il sospetto di un accordo interno tra governo tedesco e azienda tedesca BioNTech ha destato diversi malumori in Europa.
Dopo un inizio relativamente spedito, specialmente in Italia e Germania, la speranza di una vaccinazione rapida di tutta la popolazione è svanita a causa di problemi di fornitura dalle case farmaceutiche. Il mea culpa è arrivato direttamente dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, che ha dichiarato, tra le altre cose, di aver sovrastimato la capacità di produzione delle case farmaceutiche.
L’appello alla solidarietà e alla trasparenza è stato unanime da parte dei gruppi parlamentari europei democratici e socialisti. La socialista spagnola Iratxe García Pérez ha fatto un appello contro un “nazionalismo sanitario” aggiungendo che solo l’unità potrà portare alla vaccinazione di 380 milioni di abitanti europei prima dell’estate e che questa impresa non può essere rovinata da contratti paralleli e acquisti diretti.
In vista dell’assemblea Organizzazione Mondiale della Sanità, 140 personalità della comunità scientifica e politica si sono uniti per un appello affinché il vaccino Covid sia libero dai brevetti e gratuito; se infatti in ambito europeo la Comunità si fa responsabile di evitare disuguaglianze tra paesi membri più e meno abbienti, tale garanzia non sussiste per i paesi extraeuropei. Il rischio è che paesi più poveri, come alcuni stati africani, vengano esclusi dalla campagna di vaccinazione per ragioni di profitto. La risposta dell’Unione Europea a tale richiesta è la proposta di un meccanismo volontario di negoziazione collettiva delle licenze dei brevetti tra stati e case farmaceutiche e condivisione di dati su test e terapie, che possa abbassare i prezzi per dose e rendere l’accesso al vaccino più facile anche per le popolazioni più povere.
Un segnale positivo in questa direzione lo ha lanciato la presidente von der Leyen, lo scorso 19 febbraio durante il G7, annunciando lo stanziamento di ulteriori 100 milioni di Euro in aiuti umanitari per supportare la campagna vaccinale in Africa. Questa nuova somma si aggiunge ai fondi già forniti dal Team Europa a favore dello strumento COVAX.
Memori di questo ultimo anno di pandemia in un mondo globalizzato e in continua comunicazione è evidente che separazioni e individualismi non contribuiscono alla sconfitta del virus. Solo la cooperazione e la messa da parte di interessi personali ed economici possono portare il mondo all’uscita dalla crisi sanitaria internazionale per riportare benessere e salute nelle nostre vite. L’importanza di una buona politica è universalmente riconosciuta come cruciale nel gestire la crisi sanitaria. La lungimiranza della classe dirigente è fondamentale per decidere misure contenitive e organizzare strategie. Mai come oggi è evidente l’impatto che l’operato degli amministratori può avere sulla salute e sul benessere della popolazione. La speranza è che le classi politiche del futuro, memori della storia recente, riconoscano il bisogno di agire nella tutela delle prossime generazioni dando la giusta attenzione a beni primari e strutturali, come sanità e educazione mettendo al centro il valore della persona.
Riassunto degli eventi politici che hanno portato alla sua incarcerazione:
Le proteste popolari che nel gennaio 2011 portarono, con l’aiuto dell’esercito, alla destituzione del Presidente Hosni Mubarack, rappresentavano un dissenso comune, un grido di speranza contro la tirannia, il bisogno di riforme democratiche dopo decadi di controllo e repressione.
Dopo un anno di controllo militare, nel 2012, le prime elezioni democratiche in quasi mezzo secolo portarono al successo il candidato dei Fratelli Musulmani (organizzazione dichiarata illegale ai tempi di Mubarack), Mohammed Morsi. Ad un anno dal suo insediamento, il presidente Morsi fu accusato di non essersi occupato dei problemi economici e sociali che affliggevano la società, quanto di preoccuparsi di aumentare il proprio controllo politico sul paese. Tre giorni dopo, l’allora capo dell’esercito e oggi presidente Abdul Fattah al-Sisi spodestò e incarcerò Morsi.
Le autorità allora lanciarono una caccia all’uomo ai sostenitori di Morsi e del movimento islamico di cui faceva parte, provocando la morte di più di 1400 persone e l’incarcerazione di decine di migliaia. Solo dopo diversi mesi dalla detenzione il pubblico ministero ha reso noto le accuse a suo carico. Da allora l’ex-presidente Morsi è detenuto in un carcere di massima sicurezza nei pressi di Alessandria.
Quali sono le accuse a suo carico?
1.Detenzione e tortura di manifestanti. Nell’aprile del 2015 Morsi è stato riconosciuto colpevole di aver ordinato illegalmente la detenzione e la tortura di manifestanti dell’opposizione che protestavano davanti al palazzo di Ittihadiya, la sede della presidenza, il 5 dicembre 2012. È stato condannato a vent’anni di prigione. Insieme a lui sono stati condannati al carcere altri dodici leader della Fratellanza. Morsi è stato assolto dall’accusa di aver istigato i suoi sostenitori a uccidere due manifestanti e un giornalista.
2.Evasione dal carcere di Wadi el Natrun. Il 15 novembre 2016 la corte di cassazione egiziana ha annullato le condanne a morte inflitte nel maggio del 2015 a Morsi e ad altre 98 persone, tra cui esponenti di primo piano dei Fratelli musulmani, come la guida suprema Mohammed Badie. Ha inoltre ordinato di rifare il processo. Nei giorni delle rivolte popolari dell’inizio del 2011, Morsi e altri leader della Fratellanza erano stati rinchiusi in un carcere del nordovest del paese e furono liberati grazie a un’evasione di massa che, secondo l’accusa, fu orchestrata da militanti stranieri affiliati a Hezbollah e ad Hamas. Morsi, invece, ha dichiarato che a farli evadere furono alcuni abitanti del luogo. Gli imputati erano stati condannati anche per l’uccisione e il rapimento delle guardie carcerarie, e per aver danneggiato, saccheggiato e incendiato la prigione. Secondo un avvocato dei Fratelli musulmani, citato da Reuters, la corte di cassazione ha ordinato di rifare il processo perché non si era svolto correttamente.
3.Spionaggio per conto di Hamas, di Hezbollah e dei guardiani della rivoluzione. Il 22 novembre 2016 la corte di cassazione egiziana ha annullato la condanna all’ergastolo per Morsi e le pene capitali inflitte ad altre 16 persone (tra cui due leader della Fratellanza, Khairat al Shater e Mohamed Beltagi). Il tribunale ha inoltre ordinato di rifare il processo. Gli imputati erano accusati di aver cospirato con organizzazioni straniere per compiere atti terroristici e minare la sicurezza nazionale. Secondo l’accusa, nel 2005 la Fratellanza aveva un piano per inviare alcuni dei suoi uomini in campi d’addestramento militare nella Striscia di Gaza, in Libano e in Iran. L’organizzazione, invece, sostiene di avere unicamente scopi pacifici.
- Spionaggio a favore del Qatar. Il 18 giugno 2016 Morsi è stato condannato all’ergastolo con l’accusa di aver passato informazioni e documenti contenenti segreti di stato ad agenti del Qatar attraverso la tv satellitare Al Jazeera. Altre sei persone sono state condannate a morte, tra cui due giornalisti della tv, che sono stati condannati in contumacia. L’avvocato di Morsi ha annunciato il ricorso in appello.
- Frode e oltraggio alla giustizia. Morsi è sotto processo anche per frode in relazione al programma economico e sociale dei Fratelli musulmani ai tempi in cui erano al potere, e per oltraggio alla giustizia, per aver accusato pubblicamente un giudice di aver tollerato dei brogli elettorali.
Cosa ha risposto Morsi?
Morsi non riconosce alcuna autorità delle corti di giustizia, in quanto sostiene di essere vittima di un colpo di stato militare. “Io sono il presidente della Repubblica, secondo la costituzione dello stato, e sono detenuto con la forza”, ha asserito.
C’è qualcos’altro sotto?
I processi contro Morsi avvengono nel mezzo di una campagna contro i Fratelli Musulmani, organizzazione che il presidente Sisi ha promesso di spazzare via. I supporters di Morsi sostengono inoltre che sia tutto un piano per legittimare legalmente il colpo di stato.
Nel 2014 le Nazioni Unite hanno ammonito l’Egitto per le irregolarità riscontrate nel suo sistema giudiziario. E’ apparso evidente come le garanzie di un giusto giudizio siano state più volte calpestate, ad esempio dopo la condanna a morte di più di 1200 persone in due grandi processi di massa.
Fonti: www.internazionale.it ; www.bbc.com
Il 30 gennaio il Marocco è stato riammesso all’interno dell’Unione africana (Ua). Era l’unico paese del continente a non far parte dell’organizzazione dal 1984, quando uscì in segno di protesta contro il riconoscimento dell’indipendenza del Sahara Occidentale [vedi articolo Marocco e Saharawi] che Rabat, la capitale amministrativa del Paese, considera parte del suo territorio.
Il quotidiano marocchino Le Matin, come tutta la stampa governativa, festeggia tale ritorno, considerato un successo dovuto all’impegno del re Mohammed VI, “che da anni visita tutte le capitali africane per ripristinare il ruolo del Marocco nel continente”.
Alcuni osservatori sottolineano però il rischio che si scateni una lotta interna all’Ua tra i sostenitori del Marocco e quelli del Sahara Occidentale, dato che i due schieramenti sono rimasti fermi sulle loro posizioni.
I rappresentanti del Sahara Occidentale hanno accolto con favore il ritorno del Marocco, definendolo “un passo positivo” verso la riappacificazione tra i due schieramenti.
Il nuovo capo della commissione dell’Ua, appena eletto dai leader africani, è il ministro degli esteri del Ciad Moussa Faki Mahamat, mentre il presidente della Guinea, Alpha Condé, guiderà l’organizzazione per un anno.
Mentre l’Ungheria prosegue la costruzione del muro al confine con la Serbia, con un costo previsto di 123 milioni di euro, anche la Turchia allestisce la sua barriera anti-immigrati. Ne ha completata metà, per un totale di 290 chilometri, al confine con la Siria. Lo ha reso noto Ergün Turan, presidente della Toki, l’ente di Ankara per l’edilizia pubblica, che coordina i lavori con i ministri della Difesa e delle Finanze. La barriera, composta da blocchi di cemento di tre metri di altezza e due di spessore, è sormontata da un metro di filo spinato. Oltre al muro, eretto con lo scopo dichiarato di aumentare la sicurezza evitando ingressi illegali, sono stati costruiti 260 km di strade e torri di controllo. Complessivamente, Turchia e Siria condividono un confine lungo 911 km.
Il “muro della vergogna”, come lo hanno definito in molti, si trova tra la Turchia e il Rojava. Il primo ministro turco Binali Yildirim ha espresso critiche nei confronti del muro tra gli Stati Uniti e Messico, cosa che in molti hanno considerato un’ipocrisia: “state costruendo muri, ma i muri non sono mai una soluzione. Saranno finalmente abbattuti come il muro di Berlino che si trovava lì per anni”, ha detto il primo ministro turco in occasione dell’incontro con il suo corrispettivo britannico Theresa May, a gennaio.
Il muro turco è stato criticato dall’amministrazione autonoma del nord della Siria (Rojava), che ha dichiarato che si tratta di uno sforzo per dividere i curdi che vivono da una parte e dall’altra della frontiera e anche una violazione della sovranità popolare, che è in corso di costruzione sul suolo siriano.
Il ministero degli esteri siriano e degli espatriati ha anche condannato il muro e ha chiamato il segretario generale delle Nazioni Unite e il presidente del Consiglio di sicurezza dell’Onu a far cessare le aggressioni della Turchia qualificando il muro come “violazione del principio dei rapporti di buon vicinato” secondo l’agenzia Sana. La costruzione del muro al confine tra Siria e Turchia è iniziata nel 2014 e dovrebbe essere completata entro la prima metà di questo 2017 secondo una previsione del ministro della difesa Fikri Işık del novembre dello scorso anno.
L’impresa Toki, famosa per la costruzione di blocchi di appartamenti nelle città curde distrutte in Turchia, è responsabile della costruzione di due terzi del muro. L’ agenzia, direttamente sotto i poteri del primo ministro dal 2003, ha costruito dei posti di polizia e dei posti di controllo di alta sicurezza nel sudest della Turchia. Toki sarà anche a capo del progetto controverso di ricostruzione delle città e dei distretti nella regione dominata dai curdi, distrutti durante gli scontri tra le forze di sicurezza e i giovani curdi (Yps) che avevano dichiarato l’autonomia a causa delle ingiustizie di cui erano vittime.
Il regolare commercio e gli affari degli abitanti che fornivano dei redditi a molte famiglie che vivono nella regione sono state interrotti e i rifugiati sono vittime anche della violenza delle guardie di frontiera turche. Human Rights Watch ha dichiarato che le guardie di frontiera turche sparavano e picchiavano i richiedenti asilo siriani che tentavano di raggiungere la Turchia, provocando morti e gravi ferite. Dopo il controverso accordo sull’immigrazione di Ankara con l’Ue, destinato a frenare i flussi migratori verso l’Europa, la violenza contro i rifugiati siriani è aumentata.
La liberazione di Raqqa, invece di mettere fine al conflitto in Siria, sembra avere aperto una nuova fase di scontri, con il paese trasformato in un’arena in cui Stati Uniti, Turchia, Russia e Iran cercano di affermare la propria supremazia. Il territorio è ancora diviso, restano aree in mano ai ribelli, altre ai curdi e altre ancora in mano ad Assad.
Le zone di de-escalation stabilite a Ginevra si sono in parte trasformate in aree di bombardamento. Le aree di crisi sono molte; una è Afrin, nel nordovest del paese, dove la Turchia ha lanciato un’operazione contro le milizie curde e oltre 15mila persone sono state sfollate; e quella nella Ghuta orientale, alle porte di Damasco, l’enclave tenuta dai ribelli in cui 400mila persone sono sotto assedio: almeno 750 di loro dovrebbero essere trasferite urgentemente o ricevere cure mediche, ma i soccorsi non possono arrivare.
Il 29 gennaio è stato bombardato dall’esercito di Assad l’ospedale di Saraqab, sempre nella regione di Idlib, sostenuto da Medici senza frontiere: gli attacchi sono arrivati mentre l’ospedale riceveva i feriti di un precedente raid contro il mercato della città che aveva causato undici vittime.
Questi bombardamenti prendono di mira soprattutto zone civili, ospedali compresi, in totale violazione del diritto internazionale umanitario. L’8 febbraio un nuovo attacco riportato dal quotidiano Al Araby al Jadid parla di 24 morti nella Ghuta orientale sotto i bombardamenti intesivi del regime siriano e della Russia: “Il numero delle vittime rischia ancora di aumentare”, scrive il giornale, “data l’intensità dei bombardamenti in zone civili e il sovraffollamento nei centri medici”. Scrive Egeland su Twitter: “Idlib in Siria è un gigantesco campo profughi. Ci sono 1,3 milioni di donne, bambini e uomini sfollati in tutta la provincia. Non possiamo tollerare una guerra contro profughi e ospedali”.
Migliaia di bambini sono stati uccisi dal 2011, ma anche per quelli sopravvissuti la situazione resta desolante. Il numero di bambini in età scolare è drasticamente diminuito, visto l’esodo di numerose famiglie verso paesi più sicuri – un milione in meno che nel 2010. E di questi, più del 40% non va più a scuola. Il sistema di educazione siriano è stato distrutto dalla guerra, con una scuola su quattro che è stata danneggiata o distrutta, usata come rifugio, o convertita in edificio militare. Anche se le scuole fossero intatte, molte non sarebbero in grado di restare aperte, visto che un quarto del personale insegnante del paese – circa 52.000 insegnanti – non si trovano più al loro posto.
In alcune zone non è permesso l’ingresso di beni di prima necessità, e nel paese cresce il livello di inflazione.
La situazione non migliora, però, neanche per i milioni di siriani che hanno cercato rifugio in altri paesi. Dopo la presa di Raqqa, infatti, è iniziato il rientro, volontario o forzato, di migliaia di esuli. Secondo quanto emerge dal rapporto (disponibile a questo link), il numero di siriani ritornati nelle loro case in Siria, principalmente sfollati interni, è passato da 560.000 nel 2016 a 721mila nel 2017, ma per ogni persona rientrata ci sono stati almeno tre nuovi sfollati a causa del conflitto in corso in molte aree del Paese. Nei primi 10 mesi del 2017 già circa 250mila persone sono state forzatamente respinte in Siria al confine con la Turchia. Attualmente, inoltre, quasi 35.000 persone sono ancora bloccate alla frontiera con la Giordania dove stanno affrontando il rigido inverno quasi privi di assistenza. Dall’inizio del 2017, le autorità giordane hanno rimandato in Siria circa 400 rifugiati al mese, mentre si stima che in Libano circa 10.000 rifugiati siano stati rimpatriati in Siria a bordo dei bus.
Le Ong presenti sul territorio esprimono quindi grande preoccupazione per il generale clima di ostilità nei confronti dei rifugiati, le condizioni sempre più difficili nei Paesi limitrofi che li ospitano e il fatto che le recenti vittorie del governo siriano nel conflitto abbiano alimentato la retorica fuorviante secondo cui la Siria sarebbe un luogo sicuro per il rientro delle persone.
Un paese che non trova requie, diviso all’interno e conteso da troppi. Scrive Khaled Khalifa, scrittore siriano che ha deciso di non lasciare la sua terra: “Questi sono i pensieri di uno scrittore solitario – uno che non ha più niente da perdere, avendo osservato, per lungo tempo, gli sforzi dei siriani per riconquistare il loro paese per poi perdere tutto. È come se il prezzo che i siriani devono pagare per riconquistare la propria dignità e libertà includa ogni pietra, albero, nicchia e fessura, così che i siriani non possono, in realtà, togliere la loro terra alle grinfie della dittatura. Hanno vissuto all’ombra di una dittatura per 50 anni, durante i quali hanno trovato modi infiniti per resistervi e convivere col suo declino – anche se solo trattenendo la lingua e aspettando, difendendo una cultura che vive da migliaia di anni.”
Una varietà infinita di colori, sapori, bellezze naturali, architettoniche ed artistiche; una ricchezza culturale che affonda le proprie radici in una delle civiltà più antiche del pianeta. Queste sono le caratteristiche dell’antica Persia, oggi Iran: una sorta di locus amoenus che pare scomparire dietro la rovinosa burrasca politico-economica che scuote il paese. Il rumoroso raid americano di gennaio a Baghdad è stato infatti solo la naturale conseguenza di tensioni che persistono da anni e che solo nel 2015 sembravano essersi allentate, grazie al Piano d’azione congiunto globale, più conosciuto come accordo sul nucleare iraniano.
Nel 2018 gli USA sono usciti unilateralmente dal patto rilanciando le sanzioni economiche contro il Paese mediorientale. Dunque, una nazione con potenziale economico fra i più elevati al mondo (dovuto, tra le altre cose, ai giacimenti di petrolio) vive paradossalmente il dramma della povertà.
L’Iran è reduce dalle recenti elezioni parlamentari dello scorso 21 febbraio, i cui principali connotati sono stati da una parte la bassissima affluenza, complice l’epidemia di coronavirus che vede l’Iran tra i paesi più colpiti insieme alla Cina e all’Italia, e dall’altra la ribalta dei conservatori sui riformisti di Rouhani, che rappresenta la maggioranza uscente. Erano stati infatti i riformisti ad accordarsi con gli Stati Uniti sul nucleare; inoltre la morte del generale Qasem Soleimani, considerato un modello da parte di molti iraniani, specialmente fra i giovani, ha suscitato una forte reazione conservatrice nella popolazione. Era considerato un simbolo di stabilità e forza, in paragone all’amministrazione politica nella quale gran parte della popolazione aveva ed ha perso la fiducia, specialmente dopo il voltafaccia USA.
Il risultato di questi ultimi concitati anni è un paese in emergenza, con un governo riformista non sostenuto dal parlamento fortemente conservatore.
Questo complicato contesto è oggetto principale della discussione internazionale, senza però che ci sia un effettivo interesse da parte dei media di raccontare come sia vivere in Iran. Fariba Hachtroudi, scrittrice iraniana, si batte da molti anni per raccontare un paese diverso. Sostiene infatti che in Europa non ci sia una profonda conoscenza di cosa accada in Medioriente. “Cosa bisogna fare dunque? Venire in Iran e dare un’immagine esatta di ciò che accade in questo paese”, dice in un’intervista rilasciata ad arabpress.eu. La scrittrice denuncia un paese pieno di contraddizioni: da un lato, la cultura è considerata un fondamento portante della società, l’istruzione giovanile è diffusa e di ottimo livello; dall’altro, la forte corruzione, la privazione di molte libertà personali e la forte instabilità economica hanno portato il popolo all’esasperazione. Essere iraniani nel 2020, dunque, significa dover convivere ogni giorno con la sensazione di essere seduti su un forziere d’oro, senza possederne le chiavi. Fariba confida nel popolo iraniano, è convinta che possa salvarsi da solo e che anzi nessun paese estero debba intervenire. È però anche molto lucida nel rendersi conto che se dovesse crollare completamente l’equilibrio fra il popolo e lo stato, l’Iran si vedrebbe esposto alle interferenze dei paesi esteri, pronti a sostenere una fazione piuttosto che l’altra, approfittando della situazione politica per ottenere benefici sull’importazione di petrolio. Fariba si rivolge a noi, chiedendoci di non fermarci alla superficie dei fatti di cronaca, ma di spingerci oltre e non considerare il Medioriente come una fonte di ricchezza, ma come la casa di persone con un volto, una storia, e una complicatissima vita da affrontare. L’invito principale che ci fa è quello di non confondere il popolo con il governo che, in paesi come l’Iran, sono ben lungi da essere la medesima cosa.
Jean-Paul Sartre disse che “quando il ricco fa la guerra, è il povero a morire”. Per l’Iran non si parla di una guerra in campo aperto, ma di una guerra di stampo politico-economico. Di qualsiasi genere di guerra si parli, infine, sono sempre i più deboli a scontare le pene conseguenti alle scelte dei più forti.
Il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ha annunciato le sue dimissioni su Instagram. “Mi scuso di non essere più in grado di ricoprire il mio incarico e per tutte le mie mancanze nell’esercizio delle mie funzioni”, ha dichiarato il negoziatore capo dell’accordo internazionale sul nucleare iraniano siglato nel 2015.
Al momento non sono state rese note le motivazioni delle dimissioni del diplomatico di lungo corso. Domenica Zarif aveva fatto appello agli ambienti conservatori iraniani perché accettassero il varo di due leggi che puntano a mettere in regola Teheran con le normative antiriciclaggio. Queste ultime sono volte a combattere il finanziamento al terrorismo e il crimine organizzato transnazionale e sono previste dall’organizzazione intergovernativa Gruppo d’azione finanziaria internazionale (Fatf). L’obiettivo è quello di mantenere aperti i canali commerciali e bancari con il resto del mondo nonostante le sanzioni americane.
Lo schieramento conservatore teme che queste norme possano mettere a repentaglio il sostegno iraniano a diverse milizie all’estero, prime fra tutte quelle di Hezbollah in Libano. Anche la Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ha criticato l’insistenza di esponenti governativi – tra cui appunto Zarif – per l’approvazione di queste norme antiriciclaggio.
In carica dal 2013, L’ormai ex ministro è considerato un moderato ed è stato tra le figure più influenti all’estero del governo del presidente Hassan Rohani. E’ stato un protagonista chiave dell’accordo sul nucleare iraniano raggiunto nel 2015 con le potenze mondiali. Accordo dal futuro incerto, dopo che il presidente americano Donald Trump ha deciso di ritirarsi dall’intesa. L’Ue dal canto suo non è stata ancora in grado di prendere decisioni per superare le sanzioni americane.
Tgcom24 Mondo
Florence Mediterranean Mayor’s Forum
“Noi crediamo che il Mediterraneo sia ancora oggi ciò che era in passato: una fonte inesauribile di creatività, un vivace e universale focolaio che irradia l’umanità con la luce della conoscenza, la grazia della bellezza e il calore della fraternità” (Giorgio La Pira, “Congresso Mediterraneo della Cultura”, 19 febbraio 1960).
È con queste parole che, la mattina del 25 febbraio, presso il Salone dei Cinquecento, ha inizio il Convegno dei sindaci del Mediterraneo, voluto dal sindaco Nardella, nel segno dei Colloqui del Mediterraneo di Giorgio La Pira, in contemporanea ai lavori del Convegno dei Vescovi del Mediterraneo.
Ho avuto la grande opportunità di poter partecipare alle tre giornate di lavori che si sono svolte in alcuni dei luoghi più significativi della città, Palazzo Vecchio, Teatro del Maggio Musicale e Chiesa di Santa Croce, grazie all’Università di Firenze che ha deciso di selezionare 25 studenti ai quali dare la possibilità di fare un’importante esperienza di citizen political inclusion. In particolare, ho avuto il piacere di svolgere attività di supporto e orientamento per la sindaca della città di Sarajevo, Benjamina Karic, avendo così l’occasione di testimoniare l’impegno e la dedizione che ognuno dei sindaci ha dimostrato durante i lavori.
Ancora di più, questi sono stati giorni speciali per me, poiché vissuti nello spirito dell’Opera.
L’obiettivo della Conferenza è stato quello di favorire una nuova attenzione verso il Mediterraneo, attraverso il dialogo tra le sue città principali, promuovendo e accogliendo azioni che incoraggino e diano un supporto alla cooperazione e alla pace.
Proprio il sindaco Nardella, in apertura dell’evento, ha voluto rendere omaggio a La Pira, invitando i sindaci a cooperare per la pace, nella consapevolezza delle diversità che caratterizzano i popoli del Mediterraneo, ma sottolineando le comuni radici che questi condividono. Radici in virtù delle quali i sindaci delle città mediterranee si sentano chiamati a collaborare, riconoscendo l’importanza fondamentale delle città come attrici politiche ed istituzionali sulla scena internazionale, soprattutto in un periodo storico in cui i governi nazionali dimostrano difficoltà nel comprendere la complessità delle problematiche che interessano più direttamente i cittadini.
La prima giornata di lavori si è articolata in quattro sessioni, ognuna delle quali dedicata ad una questione di attualità la cui discussione si rende necessaria per poter creare un’azione comune e concreta da parte delle città: sviluppo culturale e cooperazione; sanità pubblica e protezione sociale; ambiente e sviluppo economico sostenibile; migrazioni attraverso il Mediterraneo. A partire dall’intervento di un ospite e tramite la presenza di un moderatore, si sono tenuti i “dialoghi urbani”, ovvero sessioni di dialogo tra i sindaci, che hanno potuto così presentare e discutere problematiche che affliggono le realtà cittadine. I temi affrontati sono stati molti, gli interventi e il confronto interessanti e, soprattutto, sono state proposte soluzioni concrete alla necessità di raggiungere la stabilità, la coesistenza pacifica e lo sviluppo economico-sociale nella regione mediterranea attraverso lo sviluppo culturale, alla base del miglioramento.
In particolare, mi hanno colpito le parole del professore Romano Prodi che, citando Giorgio La Pira, ha affermato che il dialogo è possibile, la pace non è un’utopia ma un obiettivo concreto e, proprio al fine di raggiungerlo è necessario partire dalla cultura e dalla formazione, proponendo così l’idea di un’Università del Mediterraneo. Un sistema di università paritarie, con doppia sede una al nord e una al sud, con numero uguale di professori e studenti del nord e del sud, cosicché dopo qualche anno si costituirebbe una comunità di migliaia di ragazzi che studiano insieme e si confrontano, che sono capaci di contribuire in modo concreto al futuro del Mediterraneo, oggi fortemente frammentato e in conflitto.
Inoltre, durante la sessione dedicata alla questione dei flussi migratori che interessano il Mediterraneo, si sono susseguiti interventi da parte di importanti figure, quali Filippo Grandi, alto commissario ONU per i rifugiati, e Antonio Vitorino, direttore generale dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Tuttavia, personalmente, ritengo che sia stato di impatto ancora maggiore lo spazio di dibattitto e confronto apertosi successivamente, quando molti sindaci hanno preso la parola per affrontare il problema della gestione degli ingenti flussi migratori attraverso il Mediterraneo, proponendo possibili soluzioni concrete, attraverso l’implementazione di nuove politiche pubbliche, sottolineando come l’azione delle città e dei sindaci ricopra un ruolo primario nell’ambito dell’accoglienza e dell’integrazione. In particolare, ho reputato interessanti e significative le parole del primo cittadino di Pozzallo, Roberto Ammatuna, che citando La Pira, originario proprio di questo comune in provincia di Ragusa, ha rilanciato l’idea della necessità di una politica euro-mediterranea, poiché “il concetto di Europa, altrimenti, non produce niente di soddisfacente se non è arricchito dal concetto di Mediterraneo”.
Il 26 febbraio, secondo giorno di lavori, sindaci e vescovi si sono riuniti, prima nel Salone dei Cinquecento e poi presso il Teatro del Maggio Musicale, in un incontro simbolico ma non solo, poiché ha rappresentato una fondamentale occasione di dialogo tra religione e politica per la collaborazione volta alla costruzione della Pace.
Da un lato è di rilievo storico che le Chiese mediterranee si siano incontrate, a prescindere dalle loro diversità, forti del fatto che la dimensione religiosa può svolgere un ruolo di primaria importanza per la cultura della solidarietà e di conseguenze per la politica della pace. Dall’altro lato, questo evento rappresenta la possibilità per la politica di assumere nuovamente la componente spirituale che nel corso del tempo è andata perdendo. L’incontro avvenuto tra religione e politica può essere un evento utile per superare la perdita di una visione unitaria, integrale della vita umana, in cui la politica è illuminata dal Vangelo ed è il più grande atto di carità, come sosteneva La Pira.
A tal proposito, la giornata è stata ricca di interventi, a partire da quello del Cardinale Bassetti e di Monsignor Raspanti che hanno aperto lo spazio di incontro tra sindaci e vescovi, i quali hanno partecipato attivamente alla presentazione di idee e proposte concrete per la realizzazione di un rapporto e dialogo interculturale e interreligioso.
Tra questi, ricordo con piacere Monsignor Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, il quale ha ribadito quanto sia necessario lavorare ancora affinché venga raggiunto un buon grado di dialogo tra attori istituzionali ed ecclesiastici.
Alla fine della mattina, a conclusione del dialogo intercorso tra sindaci e vescovi è stata presentata e firmata la Dichiarazione di Firenze, ovvero una carta che si presenta simbolicamente come un ponte tra Europa e Mediterraneo, sottoscritta dai partecipanti ai due convegni, in cui sono suggellati valori e ideali quali la pace, sviluppo sociale ed economico, cultura e relazione tra i popoli, dei quali è auspicabile che i primi cittadini e i rappresentanti religiosi si facciano portatori.
Successivamente, presso il Teatro del Maggio Musicale, si è tenuta una tavola rotonda che ha visto il coinvolgimento di Giampiero Massolo, presidente ISPI, Jean-Marc Aveline, vescovo di Marsiglia, la sindaca di Sarajevo, la vicesindaca di Tel Aviv e il sindaco di Izmir, con la partecipazione di Rondine Cittadella della Pace. È stato un momento di confronto, ma non solo, in quanto ha rappresentato anche l’occasione per denunciare ad una voce sola la guerra in Ucraina, chiedendo che Kiev non fosse sottoposta allo stesso destino a cui Sarajevo è stata sottoposta trent’anni fa.
Infine, il cardinale Bassetti ha voluto concludere regalando un discorso, a mio parare, pregno di significato. Infatti, ha sottolineato che i giovani sono “rondini che volano verso la primavera” – come ripeteva La Pira, e verso l’orizzonte della Pace, della Giustizia e dell’Amore, che sono i valori presenti nella Carta di Firenze; però, i giovani hanno necessariamente bisogno di punti di appoggio, dove risposare, e questi devono essere gli adulti, che quindi hanno il compito di dare loro sostegno restando umili e, soprattutto, con la consapevolezza che sono i giovani ad indicare la strada e a farsi portatori dei valori necessari. Infine, ha aggiunto che questo è anche proprio il significato della città che è unica, irripetibile, viva; la città non ha la struttura dello Stato, non ha le armi e quindi deve essere pacifica, nella città si vedono i problemi della gente.
A conclusione dell’evento, domenica mattina 27 febbraio, si è tenuto un ultimo grande momento storico: il dialogo tra la città di Istanbul, Atene e Gerusalemme. I sindaci di queste città, dall’importante portato storico, artistico e culturale, si sono confrontate per la prima volta, lanciando un ulteriore messaggio di apertura alla cooperazione, al dialogo interculturale e interreligioso per il raggiungimento della pace tra i popoli.
A distanza di alcune settimane, soffermandomi a guardare ciò che è stato il Convegno dei Sindaci, e dei Vescovi, del Mediterraneo, capisco quanto sia stato un evento epocale, nel segno profetico di La Pira, per effetto del quale l’Europa non potrà più far finta di nulla e ignorare i problemi del Mediterraneo. Inoltre, l’incontro dei sindaci assume e attualizza uno dei capisaldi del pensiero lapiriano: le città sono il nesso attraverso cui passa la storia e hanno una concreta vocazione internazionale. Quindi, ecco, costruire il futuro, costruire le città, abbattere i muri e costruire ponti e fidarsi dei giovani, perché noi siamo le rondini che volano verso la primavera e gli adulti hanno il compito di seguire il nostro volo e volare con noi.
Rachele Vannini
Le Chiese del Mediterraneo si incontrano a Firenze
Tra mercoledì 23 e domenica 27 dello scorso mese, si è tenuto a Firenze il forum ecclesiale “Mediterraneo frontiera di pace” che ha coinvolto sessanta cardinali, patriarchi e vescovi di trenta paesi del Mediterraneo, in tandem con l’analogo incontro pensato per i sindaci di sessantacinque città di questi Paesi. L’appuntamento, naturale proseguimento dei lavori avviati a Bari nel 2020, è stato pensato dalla CEI e organizzato insieme con l’amministrazione del comune di Firenze.
Scopo di questi colloqui è quello di avvicinare realtà apparentemente lontane, costruire una rete di relazioni all’interno della chiesa cattolica tutta e rinvigorire l’azione di testimonianza nelle comunità locali, con la ricchezza acquisita dall’ascolto dell’altrui esperienza. Tuttavia, i vescovi hanno ritenuto importante che all’incontro e al dialogo seguisse l’azione: l’idea è quella di un’«opera segno» che dia continuità alle parole. È così che, come da Bari2020 è nato il progetto con i giovani di Rondine – cittadella della Pace, nella fase preparatoria dell’appuntamento fiorentino l’Opera per la gioventù Giorgio La Pira assieme alla Fondazione Giovanni Paolo II, alla Fondazione Giorgio La Pira e al Centro Internazionale La Pira ha presentato alla CEI un progetto, poi approvato, che consentisse la creazione di un “Consiglio dei giovani cattolici del Mediterraneo”.
Insieme a Tina Hamalaya, referente per la Fondazione Giovanni Paolo II, il mio compito, come referente per l’Opera, era quello di presentare ai vescovi delle altre conferenze episcopali e dei numerosi sinodi presenti tale progetto: è così che ho avuto l’occasione di conoscere alcune figure di rilievo del mondo della Chiesa cattolica, anche nelle loro espressioni più umane. È stato inevitabile, stando a stretto contatto con il gruppo per cinque giorni, notare gli aspetti caratteristici di coloro con i quali ho condiviso un pasto, spesso e volentieri l’occasione nella quale trovavo più spazio per costruire relazioni genuine e private di tanti filtri, o magari un viaggio in taxi o in autobus.
Al pranzo del mercoledì Tina, di origine libanese, mi ha detto che eravamo in compagnia “del suo amico vescovo”, che poi ho conosciuto come Vicario apostolico di Beirut in Libano, Sua Eccellenza Mons. Cesar Essayan. Fuori dal ristorante ci siamo poi imbattuti in S.E.R. Mons. Ilario Antoniazzi, Arcivescovo di Tunisi e S.E.R. Mons. Stanislav Hocevar, sloveno, Arcivescovo di Belgrado, Segretario Generale della Conferenza episcopale internazionale dei Santi Cirillo e Metodio, invitandoli dunque a pranzo con noi. Con Monsignor Hocevar, il quale si è affidato a noi per l’ordinazione di una buona carbonara, ho potuto dialogare a lungo sulle difficoltà di una Chiesa che raccoglie dentro di sé numerose anime, etnie e culture, spesso e volentieri in aperto contrasto tra loro: basti pensare che nella stessa Conferenza episcopale troviamo serbi, montenegrini, kosovari e macedoni del nord.
Mons. Cesar, col quale mi sono trovato a condividere molti momenti in quei giorni, è un amico della Fondazione Giovanni Paolo II, che infatti ha molti progetti attivi in Libano; ho scoperto in lui una persona ricca di esperienza e di profondità, che dietro un’apparenza di placida e bonaria pacatezza, nasconde un’astuzia vigile e sottile.
Nel pomeriggio il presidente del consiglio, Mario Draghi, è passato a salutare l’assemblea che cominciava a preparare i lavori; non nascondo di aver provato una certa, reverenziale, emozione nell’averlo visto passare proprio di fronte a me. Tra i tanti spunti, il presidente nel suo discorso ha ricordato i Colloqui mediterranei voluti da La Pira tra il 1958 e il 1964, sottolineando il ruolo del dialogo interreligioso nella costruzione della pace, e ha voluto dedicare parole particolarmente calcate all’esigenza di guardare ai giovani, affinché non siano lasciati ai margini, ma anzi siano protagonisti. Poi il saluto di Bassetti, Presidente della CEI, il quale ha ribadito la missione delle Chiese nel Mediterraneo, ricordando spesso la figura di La Pira: lo ha fatto anche citando David Sassoli.
Giovedì mattina il risveglio è stato tetro e greve: la notizia dell’invasione russa in Ucraina ha sconvolto il mondo. Già durante la celebrazione eucaristica delle 7:30 l’intenzione di pregare per la pace si è sentita forte. Bassetti ha riferito di essere in contatto con l’arcivescovo di Kyiv, Mons. Svjatoslav Ševčuk, rifugiatosi con molti fedeli nei locali sotterranei della cattedrale.
La mattina ha visto quindi iniziare i lavori di gruppo, in sette tavoli, dopodiché i vescovi si sono nuovamente riuniti in plenaria nel pomeriggio. Nel confronto sono emerse sovente molte delle difficoltà che le Chiese più periferiche si trovano ad affrontare quotidianamente; tra tutte, si rammentavano spesso la mancanza di risorse e la convivenza, non sempre pacifica, con altre confessioni e culture. In Grecia, per esempio, è difficilissimo parlare di ecumenismo, poiché da molti è considerato come una “paneresia”. Durante l’assemblea, in un momento di silenzio, è squillato un telefono; mentre mi chiedevo chi avesse dimenticato la suoneria accesa, non senza uno sguardo indagatore, vedo che si alza Bassetti a rispondere: era Mattarella che ci teneva a confermare la sua presenza alla messa di domenica, nonostante e anzi ancor più voluta dopo l’annuncio della mancata presenza del Santo Padre, riferita la mattina, per motivi di salute. Più tardi, ci siamo spostati nella Basilica di Santo Spirito per un momento di approfondimento sul dialogo interreligioso. Insieme alla Pastora della Chiesa Valdese Letizia Tomassone e al neo-rabbino capo di Firenze, Gadi Piperno, ho ritrovato Izzedin Elzir, imam di Firenze e amico di lunga data dell’Opera, presente in molti degli ultimi Campi Internazionali al Villaggio La Vela. Firenze è in qualche modo la culla del dialogo interreligioso, come era chiaro a La Pira, e oggi esiste una forte collaborazione e una bella rete di relazioni tra le numerose comunità religiose che la città accoglie: molti vescovi presenti sono rimasti stupiti e si sono chiesti se qualcosa del genere potesse mai accadere nei loro luoghi.
Al pranzo di venerdì, che al solito ho passato in compagnia di Mons. Cesar, ho potuto godere anche della presenza di padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa, S.E.R. Mons. Petros Stefanou, Vescovo di Syros, Milos e Santorini e da pochi mesi presidente del Santo Sinodo dei vescovi cattolici di Grecia, e S. Em. Card. Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali presso la Santa Sede, il cui segretario, don Flavio, si è mostrato molto interessato alle attività dell’Opera. Al momento del dolce, ho assistito ad un momento che non dimenticherò, non tanto per la sua importanza, relativamente trascurabile, quanto piuttosto perché, ancora una volta, mi ha dato la possibilità di vedere eminenze, beatitudini ed eccellenze affrancarsi dai volti austeri e severi per vivere un sereno momento di convivialità, cantando insieme “tanti auguri” al Card. Betori per il suo settantacinquesimo compleanno, canto che ha accompagnato Bassetti che portava in mano una torta con una candelina, sulla quale ha poi voluto fare anche una battuta.
La domenica mattina, in Palazzo Vecchio, vescovi e sindaci si sono riuniti insieme per firmare il documento redatto alla fine dei lavori, la “Carta di Firenze”. Hanno parlato, tra gli altri, i sindaci delle città di Atene, Istambul e Gerusalemme, accolti con entusiasmo dall’omologo Nardella. Dopo la messa, presieduta da Bassetti e che ha visto la partecipazione del Presidente della Repubblica, ci siamo trattenuti per pranzo presso il convento di Santa Croce, e ho potuto ancora scambiare due parole con il Patriarca di Gerusalemme, Sua Beatitudine Pierbattista Pizzaballa e con il sindaco Nardella, che ha ricordato con grande piacere le sue presenze al Campo Internazionale.
Una volta conclusi i lavori ho accompagnato alla stazione l’amico Mons. Giovanni Nerbini, col quale ho condiviso tante delle esperienze che l’Opera mi ha regalato, non ultimo il viaggio che l’associazione organizzò in Russia nel 2018 per un gruppo di giovani. Prima di salutarci alla stazione, parlando con lui ripercorrevo le emozioni di quei giorni, che mi avevano mostrato una Chiesa fatta di uomini, fatta di carne; seria, ma capace di leggerezza, accogliente, ma non esente dalle debolezze che gli uomini portano con loro, umana come forse mai avevo avuto l’occasione di vedere. In questi pensieri, che nella mia mente hanno avvicinato le figure istituzionali alla quotidianità, ho realizzato ancora di più quanto la figura del laico sia più che mai importante e affatto secondaria, come dimostrano Pino e il professor La Pira, insieme a tanti altri; la Chiesa è una e non può prescindere dalle persone che la abitano, ha bisogno di loro perché le parole dei vescovi possano farsi opera, ha la necessità che le relazioni fioriscano tra coloro che si sentono diversi e divisi gli uni dagli altri, perché camminiamo insieme sul sentiero della pace indicato dal Signore.
Tommaso Righi
14 Febbraio 2017
“ Le scuole risorgono dalle macerie”
Si stima che 1,7 milioni di bambini attualmente in Siria non frequentano la scuola, è un elevato numero di potenziali giovani scolari che non conoscono la gioia di alzarsi al mattino col grembiule stirato che gli aspetta e una dolce merendina nello zainetto, il suono della campanella è stato sostituito dal frastuono delle bombe e la voce della maestra che ripete le tabelline e soffocata dalle grida di chi cerca di sopravvivere.
È alla luce di tutto questo che finalmente i primi giorni del mese di Febbraio è giunta la felice notizia della riapertura di 23 scuole primarie nelle zone orientali di Aleppo grazie all’aiuto del Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia ( UNICEF) che ha portato a termine questo obbiettivo con ottimi risultati permettendo a 6.5000 di tornare a scuola e terminare la loro formazione.
In tale progetto hanno preso vita molte iniziative come: un percorso formativo per gli insegnati con lo scopo di aiutare i bambini a recuperare i mesi e gli anni di scuola persi grazie allo sviluppo di un programma di apprendimento rapido, una campagna di sensibilizzazione per i bambini e le loro famiglie per informarli sui pericoli degli ordigni inesplosi, attività di supporto psicosociale per 35.000 bambini in rifugi e in altri siti, per aiutarli a riprendersi dagli orrori attraverso i quali sono passati, infine ha fornito i kit “scuole in una scatola” e kit ricreativi a 90.000 bambini a Idlib e nella zona rurale di Aleppo ovest.
Parafrasando le parole di Hanaa Singer, rappresentante dell’Unicef in Siria, è possibile affermare che la scuola, l’istruzione e l’educazione rappresenta per questi bambini non solo un’opportunità per crescere, giocare e imparare, ma soprattutto incarna la loro occasione per ritrovare quel senso di routine perduta, un vero e proprio ospedale per la loro anima dove poter riconquistare la loro infanzia.
“Riportare i bambini a scuola è una delle nostre maggiori priorità” afferma sempre Hanaa Singer, la quale ha messo tutto il suo impegno per garantire un nuovo futuro ai bambini siriani i quali finalmente avranno la possibilità di diventare uomini capaci di fare cose nuove e non semplicemente ripetere quello che le generazioni precedenti hanno fatto.
Caso Regeni: Il Cairo respinge l’indagine italiana su sette agenti egiziani
Dicembre 2018: il Cairo respinge la richiesta d’indagine italiana su sette agenti dei servizi egiziani, indagati per sequestro di persona, nei confronti del giovane ricercatore universitario Giulio Regeni.
Il coinvolgimento dei sette agenti indagati è legato all’analisi dei tabulati telefonici da cui risulta che il giovane ricercatore italiano era pedinato e controllato almeno fino al 25 gennaio del 2016, giorno della sua scomparsa.
Si tratta di soggetti che avrebbero di fatto messo “sotto controllo” Regeni, a partire dal dicembre del 2015, con una serie di attività culminate con la registrazione video di un colloquio tra il sindacalista Mohamed Abdallah e il ricercatore, avvenuta il 7 gennaio di quasi tre anni fa.
I risultati dell’attività di indagine svolta da Ros (Raggruppamento Operativo Speciale Arma Carabinieri) e Sco ( Servizio Centrale Operativo) sono noti alle autorità egiziane da almeno un anno, in quanto presenti nella informativa messa a disposizione nel dicembre dello scorso anno dalla magistratura romana.
(https://tg24.sky.it/mondo/2018/11/30/caso-giulio-regeni-fico-servizi-segreti.html)
Gli inquirenti egiziani responsabili del caso di Giulio Regeni tuttavia respingono la decisione dei colleghi italiani; hanno chiesto infatti a quelli italiani di indagare invece sul perché il ricercatore fosse entrato in Egitto con un visto turistico, e non con un visto per studenti, nonostante avesse in programma di condurre una ricerca accademica.
Gli inquirenti egiziani infatti sostengono che l’attività di sorveglianza degli agenti rientri nei loro compiti, oltre al fatto che in Egitto non esiste un vero e proprio“registro degli indagati”.
Il presidente della Camera Fico ha comunicato, alla riunione dei capigruppo di Montecitorio, con “grande rammarico” la decisione di interrompere i rapporti parlamentari con l’Egitto. Tutti i gruppi parlamentari hanno aderito alla proposta. Fico definisce un “atto giusto, forte e coraggioso” la decisione della Procura di Roma di iscrizione nel registro degli indagati degli agenti della sicurezza nazionale egiziana. “Direi – continua – anche un atto dovuto. Visto che la Procura del Cairo non procede, è giusto lo faccia la Procura di Roma”, afferma il presidente della Camera che alla domanda sull’auspicata collaborazione con le autorità egiziane per arrivare alla verità ricorda: “A settembre sono andato al Cairo. Avevo detto sia al presidente Al Sisi sia al presidente del Parlamento egiziano che eravamo in una situazione di stallo: avevo avuto delle rassicurazioni. Ma ad oggi non è arrivata nessuna svolta”.
(https://tg24.sky.it/cronaca/2018/11/29/regeni-procura-roma-indaga-servizi-segreti-egiziani.html)
Il Parlamento egiziano si è detto sorpreso e rammaricato per “le dichiarazioni e l’atteggiamento ingiustificabile” del presidente della Camera dei deputati,
ribadendo come da anni entrambi i governi stiano collaborando alla ricerca della verità e la volontà del Cairo di proseguire la cooperazione giudiziaria tra le due Procure.
Ha assicurato che l’impegno del suo governo per fare luce sul caso non può essere messo in discussione, che la collaborazione giudiziaria, come riaffermato anche in occasione dell’ultima riunione a Il Cairo, deve assolutamente continuare e che è intenzione delle Autorità egiziane proseguire le indagini nonostante le difficoltà riscontrate.
Una dichiarazione che contrasta però con la realtà dei fatti.
Intanto la Procura di Roma ha ufficialmente iscritto cinque persone nel registro degli indagati: si tratta di ufficiali appartenenti al dipartimento di Sicurezza nazionale (servizi segreti civili) e all’ufficio dell’investigazione giudiziaria del Cairo (polizia investigativa).
Lo scorso 5 dicembre il presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, ha annunciato la sua decisione di spostare le ambasciate americane in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme.
Con tale atto, gli Stati Uniti riconoscerebbero di fatto la città contesa, mai riconosciuta dalla comunità internazionale, come capitale dello stato di Israele.
Dichiara Trump: “È ora di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele, è l’inizio di un nuovo approccio al conflitto israelo-palestinese. Israele è uno stato sovrano che ha il diritto, come ogni altro Paese, di decidere la sua capitale. Essere consapevole di questo è una condizione necessaria per raggiungere la pace”
Inoltre il presidente americano sostiene che la città non è solamente il cuore delle 3 religioni, ma di una delle democrazie più importanti del mondo, e lo definisce un mero riconoscimento della realtà, niente di più.
Immediate sono state le approvazioni dalle alte cariche di Israele, che sostengono come il presidente abbia ridato per loro diritto la città santa agli israeliani e abbia corretto l’errore storico del presidente Truman del 1943, che non l’aveva riconosciuta al popolo ebreo.
Ancora più immediate però sono state le critiche a questa decisione dalle più alte cariche di stato, sia dei paesi vicini sia di quelli relativamente lontani.
Dal canto suo, il presidente palestinese Abu Mazen in un discorso alla Nazione, ha detto che “la decisione odierna di Trump equivale a una rinuncia da parte degli Stati Uniti del ruolo di mediatori di pace. Gerusalemme – ha insistito – è la capitale eterna dello Stato di Palestina” accusando Trump di aver offerto un premio immeritato a Israele “che pure infrange tutti gli accordi”. Poi ha aggiunto che la scelta su Gerusalemme “aiuterà le organizzazioni estremistiche a intraprendere una guerra di religione che danneggerà l’intera regione che attraversa momenti critici, e ci trascinerà dentro guerre senza fine”.
Più dure sono state le parole di Hamas, dichiarando che “Saranno oltrepassate tutte le linee rosse” in una lettera indirizzata ai dirigenti arabi e musulmani e pubblicata dal movimento palestinese. Inoltre ha sentenziato che Trump “ha aperto le porte dell’inferno” sostenendo che tutto ciò sia una flagrante aggressione al popolo palestinese. Le forze di sicurezza israeliane sono in stato di allerta davanti al rischio di una “possibile violenta” rivolta palestinese, principalmente a Gerusalemme.
Estrema preoccupazione per la mossa di Trump e “per le possibili conseguenze” sulla stabilità in Medioriente è stata manifestata dall’Egitto, che denuncia la decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele e respinge ogni effetto di questa decisione. La Turchia, poi, ha bollato come “irresponsabile e illegale” la decisione dell’amministrazione americana.
In seguito l’Europa e la maggior parte dei primi ministri e ministri degli esteri ha consigliato di ritornare sulle proprie decisioni, non riconoscendo un atto del genere che possa minare alla stabilità della pace. La soluzione dovrebbe essere invece cercare di unire le nazioni, e non dividerle a causa di una città unica al mondo, sostiene il primo ministro italiano Paolo Gentiloni.
Anche Papa Francesco è intervenuto per chiedere un dietrofront a Trump, senza successo: “Gerusalemme è una città unica, sacra per gli ebrei, i cristiani e i musulmani ed ha una vocazione speciale alla pace. Rispettate lo status quo”.
Per discutere la decisione degli Stati Uniti e le possibili contromisure, Palestina e Giordania hanno chiesto alla Lega Araba un ulteriore summit.