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Il grido ignorato dei Balcani

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Fragili nella fragilità: c’era una volta un’ostetrica

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Conoscere i Balcani significa scoprire un pezzo di Europa che troppo spesso viene considerato lontano ed estraneo, nonostante la vicinanza geografica. Il termine “Balcani”, non particolarmente apprezzato dalle popolazioni locali, deriva dalla lingua turca e in origine indicava genericamente una catena montuosa. Oggigiorno, con il termine Balcani si fa riferimento ad una regione situata ai margini sud orientali del continente europeo, area che da molti decenni è stata spesso caratterizzata da fenomeni di grave crisi ed instabilità sociale e politica. Da sempre infatti la regione è stata teatro di rivolte, scontri e sanguinose guerre tra gli Stati e tra le diverse comunità che vi abitano al loro interno, anche in periodi molto recenti.

Questa regione resta una parte emarginata dell’Europa, sulla quale non viene riposta abbastanza attenzione.

Nei secoli passati, l’area è stata dominata dai turchi ottomani, grazie ai quali le numerose culture presenti coesistevano tra di loro in un clima di stabilità, che ha iniziato tuttavia a vacillare con la caduta dell’Impero e con la conseguente conquista dell’autonomia dei Paesi che ne facevano parte.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, è nato il termine “balcanizzazione”, che si riferiva alla frammentazione dei territori imposta dalle potenze europee trascurando la composizione etnica dell’area.

Elemento che certamente accumula i vari gruppi etnici sono le lingue. Infatti, sebbene le lingue balcaniche derivino da famiglie linguistiche differenti, gli influssi storici della cultura greca e la dominazione turca hanno rappresentato un importante fattore di avvicinamento e di influenza per le varie lingue.

Per “penisola balcanica” oggi si intende l’insieme dei seguenti Stati: Grecia, parte della Turchia (la Tracia orientale), Bulgaria, Romania, Moldavia, le sei ex Repubbliche Jugoslave (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord), Albania e Kosovo.

Non essendo possibile analizzare nel dettaglio tutti gli Stati, verranno trattati soltanto alcuni di essi.

Recentemente, al centro dei dibattiti vi è principalmente il Kosovo. Quest’ultimo è uno dei più piccoli e recenti Stati della regione ed ha una storia molto travagliata. Dopo essersi autoproclamato indipendente dallo Stato serbo nel 1990, Belgrado reagì immediatamente con il pugno di ferro, attraverso attentati, episodi di pulizia etnico-religiosa e atti diretti alla repressione del movimento indipendentista kosovaro (UCK, cioè Ushtria Çlirimtare e Kosovës). Ciò vanificò la dichiarazione di indipendenza del Kosovo.

Nonostante vari tentativi di mettersi al tavolo delle trattative sotto la supervisione delle maggiori potenze mondiali, la situazione non si placò e nel 1999 la NATO inviò 50.000 soldati per assicurare stabilità e sicurezza alla regione, in attesa di un compromesso tra le parti.

Il processo di transizione apertosi allora non è ancora giunto a compimento: tutt’oggi vige il complesso sistema di amministrazione provvisoria dell’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), che assegna ampi poteri a un rappresentante speciale nominato dalle Nazioni Unite, tra le cui prerogative vi è quella di scegliere i giudici e di porre il veto sulle disposizioni di legge adottate dal governo. Sotto la supervisione del Rappresentante Speciale, operano le istituzioni provvisorie di presidenza, Governo e Assemblea parlamentare. Al termine di quasi un decennio di mediazioni fallite, nel febbraio 2008 ilParlamento kosovaro ha deciso di proclamare unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia. Alla scontata reazione di Belgrado (e, immediatamente dopo, di Mosca, sua storica alleata) ha fatto seguito quella della regione settentrionale del Kosovo, a maggioranza serba, che ha proclamato l’istituzione di un Parlamento parallelo, consolidando la propria posizione di semi-autonomia da Priština.

La situazione attuale in Kosovo si inserisce in un contesto già complesso politicamente, sia sul piano interno, che su quello internazionale che di fatto mina l’integrazione tra i Paesi.

In primo luogo, i Balcani risentono di influenze diverse: la Slovenia e la Croazia da sempre appartengono all’orbita occidentale, facendo le stesse parte anche dell’Unione europea, mentre il resto dei Paesi della regione storicamente oscilla tra la sfera d’influenza occidentale e quella russo-turca.

L’Albania e la Macedonia, ad esempio, stanno attuando delle riforme con l’obiettivo di entrare nell’Unione europea.

Tutt’altra linea segue il Montenegro, il quale tende ad avvicinarsi a ideali filo-russi e filo-serbi. Come conseguenza, il Paese non riconosce il Kosovo e il suo processo di adesione all’UE è andato in stallo.

La Serbia invece, in quanto Paese candidato, dovrebbe cercare di allinearsi alla politica estera dell’UE, ma è ancora lontana dal farlo. Disattendere tale aspettativa è una delle conseguenze di una complessa situazione geopolitica del Paese, fortemente diviso tra Est e Ovest, tra la vicinanza politica, culturale e religiosa con Mosca e il desiderio di accedere ai benefici che derivano dall’appartenenza all’Unione europea. Allo stesso modo la Bosnia ed Erzegovina sta cercando di entrare nell’Unione, nonostante si mantenga neutrale e non condanni l’azione militare russa.

I rapporti con l’Unione Europea e gli altri Stati esteri

Storicamente, i Paesi balcanici hanno sempre avuto un ruolo chiave negli scontri tra le varie potenze europee. Con la perdita di centralità del vecchio continente, la preoccupante situazione demografica ed una economia instabile, la regione ha perso la sua storica importanza strategica e ad oggi riveste solo uno scenario secondario, comunque importante, per i contrasti informali tra le potenze odierne.

L’UE è il gigante più vicino: costituisce il maggior partner economico per i Paesi, dominando le importazioni e le esportazioni, stanziando fondi e programmando investimenti, non riuscendo tuttavia a trasformare questo dominio economico in un’influenza politica concreta. Infatti, nonostante Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina siano candidati all’ingresso nell’UE, il processo si è rallentato, principalmente a causa delle varie ingerenze degli Stati membri (ad esempio, solo 22 membri su 27 riconoscono il Kosovo). Ciò alimenta un clima di sfiducia verso l’UE nei Paesi balcanici, rinforzato dalle difficoltà che questa incontra anche sulla gestione di altre questioni; il sogno di un’Europa unita passa decisamente in secondo piano, mentre cresce sempre più la necessità di azioni politiche concrete.

Oltreoceano, gli USA rappresentano i garanti della sicurezza nella regione; tutti i Paesi, ad eccezione della Serbia, hanno un legame più o meno esplicito con la NATO. Essi tendono a non interferire direttamente nelle vicende politiche, se non quando vengono “oltrepassati” certi limiti; in questo caso Washington agisce con prepotenza per ripristinare la situazione.

L’altro grande gigante del Novecento, la Russia, gode di uno storico legame con Belgrado e con le comunità ortodosse della regione. Essa cerca di interferire nella politica facendosi forte delle classi dirigenziali opposte al binomio USA-UE. A livello economico, essa possiede il predominio energetico, controllando i principali gasdotti della regione. Un altro storico partner, la Turchia, è invece il faro delle comunità islamiche, attratte dal suo modello di islam politico e con le quali essa cerca di intrecciare rapporti diplomatici. Nei recenti anni questi due storici partner hanno diversificato i loro rapporti, cercando anche realtà diverse e ottenendo risultati alterni.

Tale scenario lascia aperte molte opportunità di collaborazione e investimento per le potenze mondiali. Un Paese che ha saputo cogliere il potenziale dei Balcani è stata la Cina; entrata nell’area per la via economica, si muove principalmente costruendo rapporti informali con le classi dirigenziali, finanziando e promuovendo la costruzione di numerose infrastrutture nella regione, e, specialmente in Serbia, ha rafforzato la sua popolarità in seguito agli aiuti stanziati per la gestione della pandemia.

Ad oggi, i Balcani rimangono una regione fortemente instabile e tormentata, in costante balìa delle influenze occidentali e orientali, in cui anche i rapporti interni sono complessi. Risulta dunque difficile stabilire come si potrà evolvere questo scenario, ma con buona probabilità saranno le azioni delle grandi potenze ad avere un ruolo chiave nel futuro economico e politico della regione. Una possibile stabilizzazione della situazione si potrà avere solo quando i Paesi balcanici saranno in grado di far risuonare la propria voce e autodeterminarsi. Fondamentale sarà in particolare la capacità di dialogo con le potenze mondiali e di adeguamento agli standard previsti dall’Unione europea, al fine di un futuro ingresso.

Bibliografia e sitografia 

Bonifati Lidia, Conoscere i Balcani: in essi c’è la nostra storia, in Lo Spiegone, 11 settembre 2017, https://lospiegone.com/2017/09/11/conoscere-i-balcani-in-essi-ce-la-nostra-storia/

De Munter André, I Balcani occidentali, Parlamento Europeo, aprile 2023, https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/168/i-balcani-occidentali

Fruscione Giorgio, Balcani: se l’Occidente sbaglia approccio sul dossier kosovaro, Istituto per gli Studi di politica internazionale, 6 settembre 2023, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/balcani-se-loccidente-sbaglia-approccio-sul-dossier-kosovaro-139711

Petrovic Nadan, Balcani: il retaggio storico, la crisi post-Covid e la sfida dell’allargamento, Centro Studi di Politica Internazionale, 6 luglio 2020, https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/dibattiti/la-ue-i-balcani-la-scommessa-dellallargamento/balcani-il-retaggio-storico

La storia dei Balcani, in Il labirinto del Kosovo, a cura di Laurana Lajolo, 28 giugno 1999,  https://www.italia-liberazione.it/novecento/antecedenti.html

Penisola Balcanica, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/penisola-balcanica/

Balcani, Dizionario di Storia, 2010, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/balcani_(Dizionario-di-Storia)/

Kosovo, in Atlante Geopolitico, 2015, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/kosovo_(Atlante-Geopolitico)/

La tormentata storia dei Balcani, Istituto Italiano Edizioni Atlas, 2019, https://youtu.be/J03HVfhKghY

“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.

Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.

I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.

La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.

A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.

Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.

L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.

L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))

La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.

Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.

A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.

L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.

Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.

La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Sabato 28 gennaio si è tenuto a Firenze il primo incontro preparatorio al forum di Etica Civile, la cui quarta edizione si svolgerà a Palermo il prossimo novembre. Il tema trattato durante l’evento, che si è svolto nella sala Teatina del “Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, ha riguardato l’esigenza odierna di riscoprire e al contempo riappropriarsi del concetto di “cittadinanza mediterranea” per tutti i popoli che si affacciano nel “Mare Nostrum”.

Si sono susseguite discussioni fra relatori appartenenti a generazioni e culture differenti e sono stati presentati articoli di approfondimento sulla più generale tematica dell’etica civile. L’intervento del professor Gian Maria Piccinelli, in particolare, ha toccato delle corde a noi da sempre molto care.

Piccinelli ha iniziato il suo intervento constatando che la cittadinanza mette necessariamente in gioco le nostre diversità come esseri umani: lo Stato moderno, sviluppatosi in tutto il mondo con risultati molto differenti, deve necessariamente fare i conti con una vasta diversità di culture e religioni.

È proprio in questo contesto che il Mediterraneo deve rappresentare una “città comune”, in grado di coniugare protezione, tranquillità e sicurezza con incontro, relazione, insieme di diversità e dialogo. Le città che vi si affacciano hanno, citando il professor La Pira, una loro anima ed un loro destino, e devono concorrere al bene comune inteso come un progetto condiviso, non come un’imposizione calata dall’alto. Se questa dimensione di progettualità si sfilaccia, le città vivono una crisi, ma anche una partenza per un nuovo corso.

E così il nuovo rinnovamento cui aspirare non può prescindere, secondo Piccinelli, da tre visioni di città:

  • La “città di pietra”: le radici, la cultura, su cui la comunità si fonda. Inoltre il rinnovamento non deve prescindere dall’armonia, intesa come rispetto reciproco da parte dei vari gruppi etnici.
  • La “città delle relazioni”, intesa come luoghi di incontro, scambio (agorà, forum, suk …) nei quali si respira uno spirito neutro di conciliazione fra interessi diversi.
  • La “città dell’anima”, intesa come separazione fra spirito e realtà profane. In questo senso risulta essere importante la separazione fisica delle realtà, che si concretizza nella presenza di un tempio, ovvero un luogo della città strettamente dedicato al culto dell’anima. Allo stesso tempo è fondamentale la separazione spirituale fra sacro e profano, intesa come qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana.

Dunque si pone la domanda di come si possa vivere una cittadinanza mediterranea. Innanzi tutto, è necessario riflettere su cosa si intenda per cittadinanza. La cittadinanza è intesa infatti come un rapporto amministrativo e giuridico fra un cittadino ed uno Stato. In questa definizione, intrinsecamente, vi è la possibilità che la cittadinanza possa svolgere un ruolo di esclusione anziché di inclusione. Può divenire un confine tra i cittadini e i non cittadini, o può discriminare sulla base delle potenzialità di poter effettivamente godere di tutti i benefici della cittadinanza. Infatti, i popoli sono spesso di fronte alla tentazione di dare vita ad una super-cittadinanza, e quindi ad un super-cittadino che ha a disposizione tutti i diritti ed i mezzi economici, culturali, tecnologici per affermarsi. Altri individui, seppur appartenenti alla stessa comunità, vengono di contro esclusi da questi privilegi, e di conseguenza emarginati. Questo fenomeno non può che dare luogo ad un aumento della forbice che divide ricchi e poveri e che tende ad aprirsi asintoticamente. Basti pensare, senza andare lontano, alle abissali differenze nel diritto alla sanità fra nord e sud Italia. In contrapposizione al fenomeno del super-cittadino si è sviluppato, a partire dal secondo dopoguerra, un desiderio di allargare la cittadinanza, di una cittadinanza cosmopolita che possa estendersi al di fuori dei confini degli stati.

La cittadinanza globale però, senza un concreto sforzo, una concreta applicazione nella vita quotidiana, rischia di rimanere un’utopia. Piccinelli sostiene, dunque, che la ricerca concreta di un’apertura della cittadinanza si fondi principalmente sulla volontà degli individui, senza prescindere dallo studio, dalla discussione, dall’incontro. Inoltre, non si potrà parlare di cittadinanza globale finché ci saranno conflitti. Nelle aree di conflitto, spesso, i cittadini chiedono soltanto l’opportunità di avere una vita “normale”, secondo la norma. Esiste quindi uno standard minimo, un modello, secondo cui possa essere definita una cittadinanza “normale”? Il professore risponde a questa domanda, da lui stesso posta, individuando tre categorie imprescindibili alla così detta “norma”:

  • L’uguaglianza, aspetto fondamentale per una presa di coscienza sociale. Tale uguaglianza, intesa come parità di diritti, è necessaria per coltivare il pluralismo e le diversità.
  • La partecipazione, intesa come collaborazione al progetto di bene comune. A questa categoria si contrappone fortemente la tendenza allo sviluppo del super-cittadino.
  • L’accesso alle risorse economiche ed ai servizi, per consentire pari dignità e pari opportunità ai cittadini che fanno parte della comunità.

Il professore è entrato poi nel dettaglio delle culture che si affacciano nel mar Mediterraneo, fra le quali si distinguono le religioni abramitiche. È proprio la figura di Abramo su cui il professor Piccinelli ha voluto, in conclusione, riflettere. Abramo rappresenta, per le religioni del libro, l’esistenza di un orizzonte escatologico comune. Suddividendo di nuovo la riflessione in tre perle, Piccinelli cita tre caratteristiche fondamentali del profeta che possono essere uno stimolo per le nostre comunità.

  • L’accoglienza, l’incontro con lo straniero, la convivenza ed il compromesso per vivere insieme nella diversità.
  • L’intercessione, ovvero la preghiera per lo straniero. Infatti Abramo intercede per Sodoma, emblema della diversità fra pagani e israeliti.
  • La visione e l’ascolto, “Shemà”, ovvero lo sguardo che va oltre ed è capace di vedere la promessa di Dio presente nella storia, qui ed ora.

Questi spunti di riflessione guidano necessariamente ad un desiderio di fare la differenza, un desiderio puro di rendere concreti dei principi così tanto nobili. La sfida quotidiana è quella di coltivare questo desiderio, trasformandolo in azioni e non lasciando che prevalga la tentazione del crederci impotenti.

Nel corso del forum si sono poi susseguiti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, filosofi e studiosi che hanno arricchito la riflessione sulla cittadinanza mediterranea. Particolarmente significativi sono stati anche gli interventi dei giovani presenti che hanno raccontato la propria esperienza di cittadinanza globale e di impegno civile e che si impegnano ogni giorno nell’incontro, nell’ascolto e nell’apertura all’altro.

Il 13 settembre 2022, a Teheran, Mahsa Amini è stata arrestata dalla polizia religiosa iraniana per non aver correttamente osservato la normativa sull’obbligo di portare il velo. La ragazza è stata portata in una stazione di polizia ed è deceduta, in circostanze non chiarite, il 16 settembre 2022. Mahsa, 22 anni, era di origine curda e proveniva dalla provincia del Kurdistan, dove i controlli sui comportamenti sociali sono meno severi rispetto a Teheran.

La morte di Mahsa Amini è stata descritta da molti come “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Dopo il suo arresto, molti iraniani sono scesi in piazza e, da settembre, stanno portando avanti quella che è la rivolta più duratura della storia dell’Iran dopo quella del 1979 (vedi il report dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale – ISPI).

Mappa dei principali focolai di protesta in Iran nel periodo 16 Settembre – 7 Dicembre. Fonte: ISW – Institute for the Study of War

Il leitmotiv che guida le proteste pone le sue basi sulle parole chiave: “donne, vita, libertà”.

Come accade per ogni evento storico, non esiste un motivo specifico per cui sia stata proprio la morte di Mahsa, e non un altro evento, a segnare l’inizio delle rivolte. Infatti, andando ad esaminare la situazione del Paese, emerge come la morte di Mahsa Amini e l’obbligo di portare il velo siano solo la punta dell’iceberg di un malumore sociale che ha radici ben più profonde e complesse.

L’Iran non è un Paese nuovo a sommosse popolari che spesso appaiono di dimensioni enormi a noi occidentali. Partendo a ritroso, la protesta dalle conseguenze più rilevanti è sicuramente quella con cui il popolo Iraniano, nel 1979, riuscì a costringere all’esilio lo Scià di Persia.

L’ordine di grandezza delle proteste scatenatesi anche a seguito della morte di Mahsa Amini richiama obbligatoriamente alla mente la rivoluzione del 1979, sebbene siano necessari dei paragoni e delle precisazioni.

La rivolta che portò all’esilio dello Scià fu indubbiamente la somma di molteplici fattori. I moti di protesta infatti avevano come obiettivo la liberazione da un regime ormai corrotto. Anche nelle proteste odierne una fetta dei rivoltosi persegue la stessa meta, sebbene ancora non abbiano raggiunto la dimensione “rivoluzionaria” che caratterizzò quelle del ’79. Si noti che la generazione che guidò quelle proteste crede ancora, anche solo parzialmente, nell’ideale della repubblica Islamica. Dunque, tale generazione non è schierata a favore delle proteste in atto.

Provando a leggere fra le righe delle proteste odierne, si possono individuare diversi fattori che le animano e le differenziano dalla rivoluzione del ’79.

In primo luogo, le rivolte sono alimentate da motivi politici e da una richiesta di maggior libertà e dignità. Nell’estate del 2022, da parte del Governo Iraniano, vi è stato un inasprimento delle misure di controllo sulle regole di abbigliamento, con conseguenti proteste delle popolazioni giovanili. Tali misure hanno previsto, tra le altre cose, l’istituzione di una “Giornata dell’Hijab e della castità”. Inoltre, è stato stilato un nuovo codice di abbigliamento dedicato solamente al genere femminile. È stata poi definita la possibilità di utilizzare il riconoscimento facciale per individuare le donne vestite in modo improprio nei luoghi pubblici. Segue dunque che lo scontro con il Governo per una maggior libertà sia una delle cause principali delle rivolte.

Anche la religione ha poi un ruolo fondamentale nelle proteste. Tuttavia, è importante sottolineare che quelle iraniane non sono proteste contro la religione, quanto piuttosto contro un’interpretazione radicale dell’Islam. I giovani iraniani, infatti, si sentono privati non soltanto delle libertà personali, ma anche di speranza per il loro futuro. Il potere religioso, in opposizione, utilizza a titolo di esempio i disagi sociali presenti in Occidente (come prostituzione, tossicodipendenza…) come conseguenza necessaria di uno stile di vita più libero.

Un’altra motivazione, più nascosta, alla base delle rivolte risiede anche nel malcontento provocato dalla disastrosa situazione economica in cui vive gran parte della popolazione iraniana, essendo il Paese gravato da molteplici sanzioni economiche imposte dall’Occidente.

Dalle proteste emerge poi che lo scontro, oltre ad essere politico e religioso, è anche generazionale. Sono i giovani, in primo luogo, a portare avanti le proteste e a non rispecchiarsi nei valori incarnati dal Governo. Si tratta di un punto di forza delle rivolte, che ha consentito una propagazione che non sarebbe mai stata possibile in un Paese occidentale. L’Iran infatti è un Paese giovane e più della metà della popolazione ha meno di 30 anni. Le rivolte in effetti stanno avendo una diffusione ed una durata che ha pochi eguali. Inoltre, l’eccezionale durata delle proteste è dovuta anche al fatto che si tratta di un’azione di rivolta spontanea. In altre parole non c’è, ad oggi, una leadership chiara. Questa assenza di un leader risulta essere per certi versi un timore per la classe dirigente, ma comporta anche dei limiti. Da una parte infatti, se ci fosse un leader, il Governo avrebbe un obiettivo preciso e sarebbe più facile mettere a tacere le rivolte. Dall’altra, tuttavia, l’assenza di una figura di riferimento e di una strutturazione organica delle rivolte, conduce al rischio che l’energia che le contraddistingue possa esaurirsi nel tempo. Aleggia quindi la possibilità che le proteste non riescano a trovare un canalizzazione istituzionale, o che altre strutture già organizzate approfittino di questo vuoto, come avvenne in Egitto per i Fratelli Musulmani durante la Primavera Araba nel 2010-2011.

Un altro elemento di forza delle rivolte è la grande identità collettiva. L’Iran ha una storia millenaria, in cui hanno governato grandissime istituzioni come l’Impero Romano e l’Impero Persiano. Nel corso della storia, dunque, il popolo iraniano ha sviluppato una cultura e dei costumi fortemente radicati e condivisi da gran parte della popolazione. Questa coscienza di massa è inevitabilmente terreno fertile per la nascita di moti popolari.

Oltre alla diffusione che hanno avuto in loco le proteste, un ruolo importante è stato giocato anche dai social media. Le notizie delle proteste in Iran oggi sono arrivate in tutto il mondo, con tanto di hashtag e trend di ragazze che si tagliano ciocche di capelli come supporto simbolico alle donne iraniane. È proprio grazie alla comunicazione in tempo reale che le proteste odierne sono riuscite ad avere una così vasta estensione anche dal punto di vista territoriale. Tuttavia è importante non confondere lo strumento con il fine: infatti, è fondamentale avere un messaggio da comunicare (fine), in modo tale da usare i media (mezzo) in modo proficuo.

La risposta del regime alle rivolte per ora è stata notevolmente severa. La direzione intrapresa dalle proteste difficilmente sembra poter portare ad un dialogo a livello governativo. Si è creata una situazione di “muro di gomma”, nella quale le richieste dei rivoltosi non possono trovare una sponda tra nessuno dei membri dell’establishment. Essendo impraticabile la via negoziale, il Governo ha risposto con la violenza. Fino ad oggi si annoverano più di 500 morti, nonché arresti di massa, minacce di esecuzione ed esecuzioni vere e proprie.

Un’altra abile mossa messa in atto dall’establishment è stata quella di insinuare che le proteste siano manovrate dai “nemici della Repubblica Islamica” (Stati Uniti e Israele). Accusare i rivoltosi di essere “strumenti di agende esterne” da una parte delegittima le proteste e, dall’altra, stringe il popolo contro un nemico esterno comune: non si vuole ammettere, chiaramente, che la popolazione sia scontenta del regime.

Nessuna di tali azioni tuttavia è riuscita a sedare il dissenso che continua a crescere. Ad oggi fare una previsione sull’esito delle rivolte è pressoché impossibile, data la varietà di anime che le alimentano. Ipotizzando anche un’eventuale caduta del regime, è difficile prevedere cosa seguirà. Una vera transizione non sembra possibile al momento, non essendoci corpi intermedi (associazioni, partiti…) ma, come in ogni regime autoritario, soltanto i singoli cittadini e il potere.

Il Libano è tornato all’attenzione dell’opinione pubblica in seguito all’esplosione di 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio nel porto di Beirut, il 4 agosto 2020. Esplosione che ha provocato 217 morti, oltre 7000 feriti e 300mila sfollati, segnando una delle pagine più drammatiche della storia recente del Paese. Secondo la Banca Mondiale, l’esplosione ha causato danni per circa quattro miliardi di dollari. Infatti, il 90% delle importazioni del Paese, avveniva attraverso il porto di Beirut, snodo economico cruciale del Libano. La maggior parte delle riserve alimentari sono state distrutte ed ancora oggi più di un milione di persone sul territorio libanese si trova in una condizione di povertà assoluta e incertezza alimentare. Le disuguaglianze sociali sono tangibili ed evidentissime e di conseguenza, a fronte di pochi cittadini che possono permettersi di scappare o andarsene, ce ne sono tantissimi intrappolati in un luogo che li costringe a condizioni di vita estremamente misere. Nel Paese ci sono inoltre più di due milioni di rifugiati, in particolare siriani e palestinesi. 

Chiaramente, la gestione dell’emergenza ha portato alla luce con maggiore forza una crisi economica che già da anni incombe sul Libano, che già altre volte aveva versato in condizioni di dissesto finanziario.  Il debito pubblico del Paese supera il 100% del PIL da decenni, e oggi sfiora il 180%. E dal 2018 Beirut attraversa una recessione che in tre anni ha spazzato via il 40% del reddito pro capite e la valuta locale ha subito una svalutazione del 90% nei confronti del dollaro.

Quello che era uno dei Paesi più ricchi del Medio Oriente, pur con tanti problemi, a marzo dell’anno scorso ha dichiarato bancarotta per la prima volta nella sua storia. 

La situazione, a due anni da questo accadimento disastroso, è tutt’altro che in ripresa. Il Paese è al collasso politico ed economico. La principale forza politico-militare libanese resta Hezbollah, organizzazione sciita e filo iraniana. Mancano le risorse per far fronte alle esigenze primarie degli abitanti, come i farmaci o la corrente elettrica, che in molte città o quartieri non è ancora stata ripristinata. Così, le strade sono al buio, negli ospedali non è possibile operare, nelle case non si può utilizzare alcun elettrodomestico, la conservazione dei cibi non è quasi più possibile, gli ascensori non funzionano. Le condizioni sanitarie sono drammatiche. I medici scappano altrove, quelli che rimangono devono trovare carburante di contrabbando per poter operare o tenere accesi i macchinari per analisi ed esami. 

La situazione in Libano non accenna a migliorare. Nelle ultime ore, durante un incontro con il sottosegretario generale delle Nazioni Unite, Amina Mohammad, Il primo ministro libanese, Najib Miqati, ha chiesto il sostegno delle Nazioni Unite alla sicurezza alimentare del Libano, secondo il piano Onu per far fronte alle ripercussioni della la guerra in Ucraina. Infatti, la guerra tra Ucraina e Russia, sta avendo conseguenze devastanti in Libano aumentando la situazione di povertà estrema in cui versa la popolazione. Nell’incontro con il sottosegretario generale dell’Onu, Miqati ha anche invitato le Nazioni Unite a “sostenere il Libano nell’affrontare le molteplici sfide derivanti dalla crisi degli sfollati siriani”, una crisi che ha colpito il Paese dall’inizio della guerra in Siria nel 2011 in tutti i settori: sociale, economico, sicurezza e politico.

1) Per approfondire, “Hezbollah in Libano: tra politica e lotta armata”, pubblicato sempre su questa pagina il 4 Marzo 2021.

Fonti consultate

Florence Mediterranean Mayor’s Forum 

Noi crediamo che il Mediterraneo sia ancora oggi ciò che era in passato: una fonte inesauribile di creatività, un vivace e universale focolaio che irradia l’umanità con la luce della conoscenza, la grazia della bellezza e il calore della fraternità(Giorgio La Pira, “Congresso Mediterraneo della Cultura”, 19 febbraio 1960).

È con queste parole che, la mattina del 25 febbraio, presso il Salone dei Cinquecento, ha inizio il Convegno dei sindaci del Mediterraneo, voluto dal sindaco Nardella, nel segno dei Colloqui del Mediterraneo di Giorgio La Pira, in contemporanea ai lavori del Convegno dei Vescovi del Mediterraneo.

Ho avuto la grande opportunità di poter partecipare alle tre giornate di lavori che si sono svolte in alcuni dei luoghi più significativi della città, Palazzo Vecchio, Teatro del Maggio Musicale e Chiesa di Santa Croce, grazie all’Università di Firenze che ha deciso di selezionare 25 studenti ai quali dare la possibilità di fare un’importante esperienza di citizen political inclusion. In particolare, ho avuto il piacere di svolgere attività di supporto e orientamento per la sindaca della città di Sarajevo, Benjamina Karic, avendo così l’occasione di testimoniare l’impegno e la dedizione che ognuno dei sindaci ha dimostrato durante i lavori. 

Ancora di più, questi sono stati giorni speciali per me, poiché vissuti nello spirito dell’Opera.

L’obiettivo della Conferenza è stato quello di favorire una nuova attenzione verso il Mediterraneo, attraverso il dialogo tra le sue città principali, promuovendo e accogliendo azioni che incoraggino e diano un supporto alla cooperazione e alla pace. 

Proprio il sindaco Nardella, in apertura dell’evento, ha voluto rendere omaggio a La Pira, invitando i sindaci a cooperare per la pace, nella consapevolezza delle diversità che caratterizzano i popoli del Mediterraneo, ma sottolineando le comuni radici che questi condividono. Radici in virtù delle quali i sindaci delle città mediterranee si sentano chiamati a collaborare, riconoscendo l’importanza fondamentale delle città come attrici politiche ed istituzionali sulla scena internazionale, soprattutto in un periodo storico in cui i governi nazionali dimostrano difficoltà nel comprendere la complessità delle problematiche che interessano più direttamente i cittadini.  

La prima giornata di lavori si è articolata in quattro sessioni, ognuna delle quali dedicata ad una questione di attualità la cui discussione si rende necessaria per poter creare un’azione comune e concreta da parte delle città: sviluppo culturale e cooperazione; sanità pubblica e protezione sociale; ambiente e sviluppo economico sostenibile; migrazioni attraverso il Mediterraneo. A partire dall’intervento di un ospite e tramite la presenza di un moderatore, si sono tenuti i “dialoghi urbani”, ovvero sessioni di dialogo tra i sindaci, che hanno potuto così presentare e discutere problematiche che affliggono le realtà cittadine. I temi affrontati sono stati molti, gli interventi e il confronto interessanti e, soprattutto, sono state proposte soluzioni concrete alla necessità di raggiungere la stabilità, la coesistenza pacifica e lo sviluppo economico-sociale nella regione mediterranea attraverso lo sviluppo culturale, alla base del miglioramento.

In particolare, mi hanno colpito le parole del professore Romano Prodi che, citando Giorgio La Pira, ha affermato che il dialogo è possibile, la pace non è un’utopia ma un obiettivo concreto e, proprio al fine di raggiungerlo è necessario partire dalla cultura e dalla formazione, proponendo così l’idea di un’Università del Mediterraneo. Un sistema di università paritarie, con doppia sede una al nord e una al sud, con numero uguale di professori e studenti del nord e del sud, cosicché dopo qualche anno si costituirebbe una comunità di migliaia di ragazzi che studiano insieme e si confrontano, che sono capaci di contribuire in modo concreto al futuro del Mediterraneo, oggi fortemente frammentato e in conflitto. 

Inoltre, durante la sessione dedicata alla questione dei flussi migratori che interessano il Mediterraneo, si sono susseguiti interventi da parte di importanti figure, quali Filippo Grandi, alto commissario ONU per i rifugiati, e Antonio Vitorino, direttore generale dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Tuttavia, personalmente, ritengo che sia stato di impatto ancora maggiore lo spazio di dibattitto e confronto apertosi successivamente, quando molti sindaci hanno preso la parola per affrontare  il problema della gestione degli ingenti flussi migratori attraverso il Mediterraneo, proponendo possibili soluzioni concrete, attraverso l’implementazione di nuove politiche pubbliche, sottolineando come l’azione delle città e dei sindaci ricopra un ruolo primario nell’ambito dell’accoglienza e dell’integrazione. In particolare, ho reputato interessanti e significative le parole del primo cittadino di Pozzallo, Roberto Ammatuna, che citando La Pira, originario proprio di questo comune in provincia di Ragusa, ha rilanciato l’idea della necessità di una politica euro-mediterranea, poiché “il concetto di Europa, altrimenti, non produce niente di soddisfacente se non è arricchito dal concetto di Mediterraneo”.

Il 26 febbraio, secondo giorno di lavori, sindaci e vescovi si sono riuniti, prima nel Salone dei Cinquecento e poi presso il Teatro del Maggio Musicale, in un incontro simbolico ma non solo, poiché ha rappresentato una fondamentale occasione di dialogo tra religione e politica per la collaborazione volta alla costruzione della Pace.

Da un lato è di rilievo storico che le Chiese mediterranee si siano incontrate, a prescindere dalle loro diversità, forti del fatto che la dimensione religiosa può svolgere un ruolo di primaria importanza per la cultura della solidarietà e di conseguenze per la politica della pace. Dall’altro lato, questo evento rappresenta la possibilità per la politica di assumere nuovamente la componente spirituale che nel corso del tempo è andata perdendo. L’incontro avvenuto tra religione e politica può essere un evento utile per superare la perdita di una visione unitaria, integrale della vita umana, in cui la politica è illuminata dal Vangelo ed è il più grande atto di carità, come sosteneva La Pira.  

A tal proposito, la giornata è stata ricca di interventi, a partire da quello del Cardinale Bassetti e di Monsignor Raspanti che hanno aperto lo spazio di incontro tra sindaci e vescovi, i quali hanno partecipato attivamente alla presentazione di idee e proposte concrete per la realizzazione di un rapporto e dialogo interculturale e interreligioso. 

Tra questi, ricordo con piacere Monsignor Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, il quale ha ribadito quanto sia necessario lavorare ancora affinché venga raggiunto un buon grado di dialogo tra attori istituzionali ed ecclesiastici.

Alla fine della mattina, a conclusione del dialogo intercorso tra sindaci e vescovi è stata presentata e firmata la Dichiarazione di Firenze, ovvero una carta che si presenta simbolicamente come un ponte tra Europa e Mediterraneo, sottoscritta dai partecipanti ai due convegni, in cui sono suggellati valori e ideali quali la pace, sviluppo sociale ed economico, cultura e relazione tra i popoli, dei quali è auspicabile che i primi cittadini e i rappresentanti religiosi si facciano portatori. 

Successivamente, presso il Teatro del Maggio Musicale, si è tenuta una tavola rotonda che ha visto il coinvolgimento di Giampiero Massolo, presidente ISPI, Jean-Marc Aveline, vescovo di Marsiglia, la sindaca di Sarajevo, la vicesindaca di Tel Aviv e il sindaco di Izmir, con la partecipazione di Rondine Cittadella della Pace. È stato un momento di confronto, ma non solo, in quanto ha rappresentato anche l’occasione per denunciare ad una voce sola la guerra in Ucraina, chiedendo che Kiev non fosse sottoposta allo stesso destino a cui Sarajevo è stata sottoposta trent’anni fa.  

Infine, il cardinale Bassetti ha voluto concludere regalando un discorso, a mio parare, pregno di significato. Infatti, ha sottolineato che i giovani sono “rondini che volano verso la primavera” – come ripeteva La Pira, e verso l’orizzonte della Pace, della Giustizia e dell’Amore, che sono i valori presenti nella Carta di Firenze; però, i giovani hanno necessariamente bisogno di punti di appoggio, dove risposare, e questi devono essere gli adulti, che quindi hanno il compito di dare loro sostegno restando umili e, soprattutto, con la consapevolezza che sono i giovani ad indicare la strada e a farsi portatori dei valori necessari. Infine, ha aggiunto che questo è anche proprio il significato della città che è unica, irripetibile, viva; la città non ha la struttura dello Stato, non ha le armi e quindi deve essere pacifica, nella città si vedono i problemi della gente.

A conclusione dell’evento, domenica mattina 27 febbraio, si è tenuto un ultimo grande momento storico: il dialogo tra la città di Istanbul, Atene e Gerusalemme. I sindaci di queste città, dall’importante portato storico, artistico e culturale, si sono confrontate per la prima volta, lanciando un ulteriore messaggio di apertura alla cooperazione, al dialogo interculturale e interreligioso per il raggiungimento della pace tra i popoli. 

A distanza di alcune settimane, soffermandomi a guardare ciò che è stato il Convegno dei Sindaci, e dei Vescovi, del Mediterraneo, capisco quanto sia stato un evento epocale, nel segno profetico di La Pira, per effetto del quale l’Europa non potrà più far finta di nulla e ignorare i problemi del Mediterraneo. Inoltre, l’incontro dei sindaci assume e attualizza uno dei capisaldi del pensiero lapiriano: le città sono il nesso attraverso cui passa la storia e hanno una concreta vocazione internazionale. Quindi, ecco, costruire il futuro, costruire le città, abbattere i muri e costruire ponti e fidarsi dei giovani, perché noi siamo le rondini che volano verso la primavera e gli adulti hanno il compito di seguire il nostro volo e volare con noi.   

Rachele Vannini

Le Chiese del Mediterraneo si incontrano a Firenze

Tra mercoledì 23 e domenica 27 dello scorso mese, si è tenuto a Firenze il forum ecclesiale “Mediterraneo frontiera di pace” che ha coinvolto sessanta cardinali, patriarchi e vescovi di trenta paesi del Mediterraneo, in tandem con l’analogo incontro pensato per i sindaci di sessantacinque città di questi Paesi. L’appuntamento, naturale proseguimento dei lavori avviati a Bari nel 2020, è stato pensato dalla CEI e organizzato insieme con l’amministrazione del comune di Firenze.

Scopo di questi colloqui è quello di avvicinare realtà apparentemente lontane, costruire una rete di relazioni all’interno della chiesa cattolica tutta e rinvigorire l’azione di testimonianza nelle comunità locali, con la ricchezza acquisita dall’ascolto dell’altrui esperienza. Tuttavia, i vescovi hanno ritenuto importante che all’incontro e al dialogo seguisse l’azione: l’idea è quella di un’«opera segno» che dia continuità alle parole. È così che, come da Bari2020 è nato il progetto con i giovani di Rondine – cittadella della Pace, nella fase preparatoria dell’appuntamento fiorentino l’Opera per la gioventù Giorgio La Pira assieme alla Fondazione Giovanni Paolo II, alla Fondazione Giorgio La Pira e al Centro Internazionale La Pira ha presentato alla CEI un progetto, poi approvato, che consentisse la creazione di un “Consiglio dei giovani cattolici del Mediterraneo”.

Insieme a Tina Hamalaya, referente per la Fondazione Giovanni Paolo II, il mio compito, come referente per l’Opera, era quello di presentare ai vescovi delle altre conferenze episcopali e dei numerosi sinodi presenti tale progetto: è così che ho avuto l’occasione di conoscere alcune figure di rilievo del mondo della Chiesa cattolica, anche nelle loro espressioni più umane. È stato inevitabile, stando a stretto contatto con il gruppo per cinque giorni, notare gli aspetti caratteristici di coloro con i quali ho condiviso un pasto, spesso e volentieri l’occasione nella quale trovavo più spazio per costruire relazioni genuine e private di tanti filtri, o magari un viaggio in taxi o in autobus.

Al pranzo del mercoledì Tina, di origine libanese, mi ha detto che eravamo in compagnia “del suo amico vescovo”, che poi ho conosciuto come Vicario apostolico di Beirut in Libano, Sua Eccellenza Mons. Cesar Essayan. Fuori dal ristorante ci siamo poi imbattuti in S.E.R. Mons. Ilario Antoniazzi, Arcivescovo di Tunisi e S.E.R. Mons. Stanislav Hocevar, sloveno, Arcivescovo di Belgrado, Segretario Generale della Conferenza episcopale internazionale dei Santi Cirillo e Metodio, invitandoli dunque a pranzo con noi. Con Monsignor Hocevar, il quale si è affidato a noi per l’ordinazione di una buona carbonara, ho potuto dialogare a lungo sulle difficoltà di una Chiesa che raccoglie dentro di sé numerose anime, etnie e culture, spesso e volentieri in aperto contrasto tra loro: basti pensare che nella stessa Conferenza episcopale troviamo serbi, montenegrini, kosovari e macedoni del nord.

Mons. Cesar, col quale mi sono trovato a condividere molti momenti in quei giorni, è un amico della Fondazione Giovanni Paolo II, che infatti ha molti progetti attivi in Libano; ho scoperto in lui una persona ricca di esperienza e di profondità, che dietro un’apparenza di placida e bonaria pacatezza, nasconde un’astuzia vigile e sottile.

Nel pomeriggio il presidente del consiglio, Mario Draghi, è passato a salutare l’assemblea che cominciava a preparare i lavori; non nascondo di aver provato una certa, reverenziale, emozione nell’averlo visto passare proprio di fronte a me. Tra i tanti spunti, il presidente nel suo discorso ha ricordato i Colloqui mediterranei voluti da La Pira tra il 1958 e il 1964, sottolineando il ruolo del dialogo interreligioso nella costruzione della pace, e ha voluto dedicare parole particolarmente calcate all’esigenza di guardare ai giovani, affinché non siano lasciati ai margini, ma anzi siano protagonisti. Poi il saluto di Bassetti, Presidente della CEI, il quale ha ribadito la missione delle Chiese nel Mediterraneo, ricordando spesso la figura di La Pira: lo ha fatto anche citando David Sassoli.

Giovedì mattina il risveglio è stato tetro e greve: la notizia dell’invasione russa in Ucraina ha sconvolto il mondo. Già durante la celebrazione eucaristica delle 7:30 l’intenzione di pregare per la pace si è sentita forte. Bassetti ha riferito di essere in contatto con l’arcivescovo di Kyiv, Mons. Svjatoslav Ševčuk, rifugiatosi con molti fedeli nei locali sotterranei della cattedrale.

La mattina ha visto quindi iniziare i lavori di gruppo, in sette tavoli, dopodiché i vescovi si sono nuovamente riuniti in plenaria nel pomeriggio. Nel confronto sono emerse sovente molte delle difficoltà che le Chiese più periferiche si trovano ad affrontare quotidianamente; tra tutte, si rammentavano spesso la mancanza di risorse e la convivenza, non sempre pacifica, con altre confessioni e culture. In Grecia, per esempio, è difficilissimo parlare di ecumenismo, poiché da molti è considerato come una “paneresia”. Durante l’assemblea, in un momento di silenzio, è squillato un telefono; mentre mi chiedevo chi avesse dimenticato la suoneria accesa, non senza uno sguardo indagatore, vedo che si alza Bassetti a rispondere: era Mattarella che ci teneva a confermare la sua presenza alla messa di domenica, nonostante e anzi ancor più voluta dopo l’annuncio della mancata presenza del Santo Padre, riferita la mattina, per motivi di salute. Più tardi, ci siamo spostati nella Basilica di Santo Spirito per un momento di approfondimento sul dialogo interreligioso. Insieme alla Pastora della Chiesa Valdese Letizia Tomassone e al neo-rabbino capo di Firenze, Gadi Piperno, ho ritrovato Izzedin Elzir, imam di Firenze e amico di lunga data dell’Opera, presente in molti degli ultimi Campi Internazionali al Villaggio La Vela. Firenze è in qualche modo la culla del dialogo interreligioso, come era chiaro a La Pira, e oggi esiste una forte collaborazione e una bella rete di relazioni tra le numerose comunità religiose che la città accoglie: molti vescovi presenti sono rimasti stupiti e si sono chiesti se qualcosa del genere potesse mai accadere nei loro luoghi.

Al pranzo di venerdì, che al solito ho passato in compagnia di Mons. Cesar, ho potuto godere anche della presenza di padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa, S.E.R. Mons. Petros Stefanou, Vescovo di Syros, Milos e Santorini e da pochi mesi presidente del Santo Sinodo dei vescovi cattolici di Grecia, e S. Em. Card. Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali presso la Santa Sede, il cui segretario, don Flavio, si è mostrato molto interessato alle attività dell’Opera. Al momento del dolce, ho assistito ad un momento che non dimenticherò, non tanto per la sua importanza, relativamente trascurabile, quanto piuttosto perché, ancora una volta, mi ha dato la possibilità di vedere eminenze, beatitudini ed eccellenze affrancarsi dai volti austeri e severi per vivere un sereno momento di convivialità, cantando insieme “tanti auguri” al Card. Betori per il suo settantacinquesimo compleanno, canto che ha accompagnato Bassetti che portava in mano una torta con una candelina, sulla quale ha poi voluto fare anche una battuta.

La domenica mattina, in Palazzo Vecchio, vescovi e sindaci si sono riuniti insieme per firmare il documento redatto alla fine dei lavori, la “Carta di Firenze”. Hanno parlato, tra gli altri, i sindaci delle città di Atene, Istambul e Gerusalemme, accolti con entusiasmo dall’omologo Nardella. Dopo la messa, presieduta da Bassetti e che ha visto la partecipazione del Presidente della Repubblica, ci siamo trattenuti per pranzo presso il convento di Santa Croce, e ho potuto ancora scambiare due parole con il Patriarca di Gerusalemme, Sua Beatitudine Pierbattista Pizzaballa e con il sindaco Nardella, che ha ricordato con grande piacere le sue presenze al Campo Internazionale. 

Una volta conclusi i lavori ho accompagnato alla stazione l’amico Mons. Giovanni Nerbini, col quale ho condiviso tante delle esperienze che l’Opera mi ha regalato, non ultimo il viaggio che l’associazione organizzò in Russia nel 2018 per un gruppo di giovani. Prima di salutarci alla stazione, parlando con lui ripercorrevo le emozioni di quei giorni, che mi avevano mostrato una Chiesa fatta di uomini, fatta di carne; seria, ma capace di leggerezza, accogliente, ma non esente dalle debolezze che gli uomini portano con loro, umana come forse mai avevo avuto l’occasione di vedere. In questi pensieri, che nella mia mente hanno avvicinato le figure istituzionali alla quotidianità, ho realizzato ancora di più quanto la figura del laico sia più che mai importante e affatto secondaria, come dimostrano Pino e il professor La Pira, insieme a tanti altri; la Chiesa è una e non può prescindere dalle persone che la abitano, ha bisogno di loro perché le parole dei vescovi possano farsi opera, ha la necessità che le relazioni fioriscano tra coloro che si sentono diversi e divisi gli uni dagli altri, perché camminiamo insieme sul sentiero della pace indicato dal Signore.

Tommaso Righi

L’onda lunga della crisi Afghana

L’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 2000 statuì che doveva essere considerato povero chiunque vivesse con un reddito giornaliero inferiore ad un dollaro, soglia poi portata ad un dollaro e venticinque centesimi dalla Banca Mondiale nel 2008.

Sempre secondo l’Onu, nella persona del Sottosegretario Generale Martin Griffiths, ad oggi la quota dei cittadini Afghani sotto tale soglia potrebbe arrivare alla paurosa cifra del 97% e sono già 23 milioni le persone in quella terra che soffrono la fame. La situazione economica è disastrosa: un terzo del PIL Afghano è stato spazzato via dalle conseguenze della guerra e dalla riconquista talebana del Paese, comportando conseguenze gravissime sulle infrastrutture essenziali dello Stato come scuola e ospedali. Inoltre, il Paese affronta da anni una gravissima siccità che quest’anno ha distrutto il 40% dei raccolti. L’HDI (Human Development Index) delle Nazioni Unite sullo sviluppo del Paese, rimane uno dei più bassi del mondo: 169° su 188. 

Parte importante del Pil perso era costituita dalla grande quantità di aiuti internazionali che giungevano dagli stati esteri. Fondi che coprivano tre quarti della spesa pubblica, bloccati  in seguito al ritorno al potere dei talebani. Il governo americano, sia direttamente che tramite le istituzioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, ha inoltre congelato le riserve di denaro della banca Afghana che si trovavano all’estero, circa 9.5 miliardi di dollari. Funzionari americani hanno infatti affermato che “sbloccare le riserve di denaro non garantisce che i taliban le utilizzeranno per risolvere i problemi dell’Afghanistan”, confermando che l’idea americana sembra essere quella che il nuovo governo Afghano non goda di credibilità sufficiente per ricevere tale cifra senza rischio che almeno una parte venga dirottata su attività pericolose.

Le immagini dei ponti aerei organizzati dalle nazioni occidentali per mettere in salvo la popolazione, spesso personale che li aveva aiutati durante la permanenza, per quanto efficaci, non sono state seguite da politiche effettive di migliorata accoglienza: più dell’ottanta per cento dei profughi afghani sono adesso fermi in Pakistan e Iran al confine con i quali la Turchia, per evitare che questi entrino nel suo territorio, ha costruito 280 km di muro alto tre metri. 

I Paesi europei hanno mostrato la stessa esitazione che fu di scena durante la crisi siriana del 2015 e si richiamano a numeri che sembrano avere poco a che fare con la realtà della crisi. Il ponte aereo organizzato dagli Stati membri ha portato in Europa circa ventimila persone ma l’Unhcr ha chiesto di intervenire fornendo asilo a circa ulteriori quarantamila persone, ricevendo però una risposta negativa dalla Commissione Europea, non avendo questa riscontrato disponibilità degli stati membri. 

L’Italia si è impegnata autonomamente ad accogliere circa mille persone entro due anni, mediante l’intervento di Caritas, CEI, Comunità di Sant’Egidio e altre associazioni. 

Inoltre, diversi paesi fra cui Olanda, Grecia, Germania e Austria, hanno chiesto la possibilità di rimpatriare coloro cui fosse rifiutato il permesso di soggiorno. Secondo questi Paesi, senza un’effettiva politica di rimpatri, sempre più persone sarebbero spinte a lasciare il proprio paese. Tutto questo mentre continuano a giungere notizie di respingimenti operati illegalmente, e spesso purtroppo con la forza, in Croazia, Grecia, Romania ma anche al confine Italiano con la Slovenia.

È doveroso spendere una parola anche per chi non riesce ad abbandonare il Paese. Come detto, è costoso ottenere documenti validi e senza i quali è impossibile espatriare. Ottenere i documenti in un Paese in guerra è molto difficile, motivo per cui molte persone sono costrette ad affidarsi a trafficanti per poter fuggire dal paese. I costi per potersi garantire la fuga sono spesso molto ingenti e solo poche persone riescono a permetterselo. 

Ad oggi sono ancora in corso ad Oslo i negoziati fra gli Stati Europei e i taliban: in cambio dello sblocco delle riserve auree, questi ultimi si impegnano a garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona. Tra i quali permettere a bambine e ragazze di tornare a scuola nel prossimo futuro. L’attuale situazione delle donne nel Paese è poco chiara, ma certamente critica. Certo, il punto di partenza non era particolarmente roseo: nonostante dopo la caduta del primo regime talebano il Paese avesse aderito alla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), nel 2003 era comunque al 171° posto su 187 in termini di parità di genere, per quanto nelle città con più presenza occidentale il livello fosse spesso migliore. 

Al momento sono molteplici le situazioni che vedono divieti e proibizioni per le donne. Ad esempio, secondo il ministero afghano per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, le donne che compiono viaggi sopra i 72 km devono essere in compagnia di un parente uomo e sono vietate pubblicità in cui appaiano le donne. Inoltre, non è prevista per le donne la possibilità di studiare sopra i 12 anni, benché fossero stati promessi corsi universitari separati che non sono mai ripartiti, anche perché necessiterebbero di insegnanti donne, e l’esercizio di questa professione è malvisto e fortemente penalizzato. Le parole del 14 dicembre 2021 di Nada al-Nashif, vice alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, possono dare un’idea di quanto lacunose siano le informazioni che ci giungono dalle città dell’Afghanistan:

“While the Taliban takeover has brought an uneasy end to fighting against Governmental forces in the country, the current situation leaves the population with little protection in terms of human rights. Women and girls in particular face great uncertainty with respect to the rights to education, to livelihoods and to participation, in which they had made important gains in the past two decades. The decree on women’s rights issued by the de facto authorities on 3 December represents an important signal but leaves many questions unanswered. For instance, it does not make clear a minimum age for marriage, nor refer to any wider women and girls’ rights to education, to work, to freedom of movement, or to participate in public life”.

Note a piè di pagina
  1. Approfondimento Internazionale.it –> Afghanistan e congelamento fondi
  2. Sebbene l’acquisizione del potere dei talebani abbia posto fine alla lotta contro le forze governative nel paese, l’attuale situazione lascia alla popolazione scarsa protezione in termini di diritti umani. Donne e ragazze in particolare affrontano una grande incertezza riguardo ai diritti all’istruzione, ai mezzi di sussistenza e alla partecipazione, in cui avevano ottenuto importanti guadagni negli ultimi due decenni. Il decreto sui diritti delle donne emanato dalle autorità di fatto il 3 dicembre rappresenta un segnale importante ma lascia senza risposta molti interrogativi. Ad esempio, non chiarisce un’età minima per il matrimonio, né fa riferimento a diritti più ampi delle donne e delle ragazze all’istruzione, al lavoro, alla libertà di movimento o alla partecipazione alla vita pubblica.

ARTICOLI PER APPROFONDIRE

https://www.agenpress.it/afghanistan-24-milioni-di-persone-in-poverta-assoluta-una-mamma-i-miei-figli-cercano-cibo-porta-a-porta/#:~:text=Afghanistan.-,24%20milioni%20di%20persone%20in%20povert%C3%A0%20assoluta.,cercano%20cibo%20porta%20a%20porta%E2%80%9D&text=AgenPress%20%E2%80%93%20Il%20World%20Food%20Programme,un%20attuale%20stato%20di%20emergenza.

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/ispitel-afghanistan-la-crisi-gia-dimenticata-32397

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/afghanistan-ritorno-allancien-regime-32793

https://www.rainews.it/articoli/2022/01/cinque-miliardi-di-dollari-per-lafghanistan-lappello-dellonu-per-salvare-il-paese-991c6960-d659-45f3-9c5c-a924d47a9520.html

https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2021/11/18/afghanistan-dalla-russia-aiuti-umanitari-380-evacuati/

https://www.internazionale.it/notizie/annalisa-camilli/2021/10/28/accoglienza-afgani-europa

https://www.openpolis.it/laccoglienza-dei-profughi-afghani-in-europa/

http://www.hdr.undp.org/en/countries/profiles/AFG

https://www.santegidio.org/pageID/30284/langID/it/itemID/45021/Al-via-il-protocollo-per-l-arrivo-di-1200-profughi-afghani-Marco-Impagliazzo-Accoglienza-e-integrazione-con-i-corridoi-umanitari-un-modello-per-l-Europa.html

http://www.genderconcerns.org/country-in-focus/afghanistan/the-situation-of-women-in-afghanistan

https://www.ilsole24ore.com/art/afghanistan-tutti-diritti-negati-donne-AEDgIhh

Dal 23 al 27 febbraio sarà Firenze ad ospitare la 2° edizione di “Mediterraneo frontiera di pace”, convegno che tra pochi giorni richiamerà nel capoluogo toscano molti dei vescovi del Mediterraneo. È un incontro fortemente voluto e promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana a due anni dal consesso di Bari, il primo ad aprire la strada a questa peculiare occasione di approfondimento. 

La novità di questa edizione è invece rappresentata dal contemporaneo invito rivolto dal sindaco Dario Nardella ai colleghi mediterranei. Una proposta raccolta da molti dei primi cittadini del “mare nostrum” che confluiranno negli stessi giorni a Firenze. La loro presenza in città darà vita ad una conferenza dei sindaci dell’intera regione, un vero e proprio summit internazionale che affiancherà l’evento voluto dalla CEI. 

Entrambe le iniziative sono  fortemente ispirate al pensiero e dall’azione del prof. Giorgio La Pira, con uno spirito che si richiama direttamente ai “Colloqui Mediterranei” e che proprio l’allora sindaco di Firenze ebbe l’intuizione di convocare.  I Congressi internazionali che, a partire dal 1958, ospitarono a Palazzo Vecchio molti uomini politici della regione, furono un canale diplomatico non ufficiale del quale Firenze, in quegli anni, fu il motore.

Oggi come allora la città è chiamata a partecipare consapevolmente a questo processo così importante, a partire dagli enti e dalle associazioni che si richiamano esplicitamente all’eredità politica e spirituale del sindaco santo. Aggregazioni e realtà laicali sono in fermento, consci della crucialità di un tale evento, capace di richiamare decine di vescovi e sindaci: provenienti dai Paesi mediterranei, tutti insieme sotto lo stesso auspicio, parte di un cammino comune. Un sentiero che inevitabilmente richiama la visione profetica di Isaia, tanto cara al Professore.

Ecco perché, in vista del duplice evento ormai prossimo, è stato pensato un momento di riflessione dal titolo “Di pace, di guerra. Il Mediterraneo oggi tra politica e fedi”. Un incontro online, svoltosi in data 5 febbraio, patrocinato da Fondazione La Pira, Centro Internazionale studenti e Opera per la gioventù, con la collaborazione di “Argomenti 2000”, associazione di amicizia politica. L’evento è stato trasmesso in diretta dal canale Youtube del Cerses – Centro di Ricerca e Studi Storici e Sociali. Una preziosa tavola rotonda che ha messo insieme vari interventi di prestigiosi relatori sul tema. Introdotti dal Prof. Riccardo Saccenti si sono susseguiti: Marco Pietro Giovannoni, Gian Maria Piccinelli, Simone Tholens, Carlo Cefaloni e Michele Zanzucchi che hanno affrontato  la situazione del Mediterraneo oggi, sotto vari aspetti.

Le riflessioni hanno aiutato ad inquadrare più chiaramente l’urgenza e la necessità di convocare un sinodo sul Mediterraneo. Uno spazio – è stato ribadito – nel quale abitare con gli altri, non loro malgrado. Un filo rosso che costituisce un orientamento preciso a cui fanno eco le tre parole di incoraggiamento che papa Francesco ha voluto rivolgere ai sindaci dell’Anci, ricevuti in udienza lo stesso 5 febbraio: paternità (maternità), periferia e pace. 

Dopo una breve introduzione, Riccardo Saccenti ha lasciato la parola a Mons. Giuseppe Betori. Nel salutare i presenti in collegamento, l’Arcivescovo di Firenze ha esortato tutti a non far cadere nel vuoto iniziative come queste, sottolineando l’importanza, invece, di riportare tutto ciò che la riflessione produce. Una fecondità – ha continuato – da condividere col Comune di Firenze e la stessa Conferenza episcopale. Senza dimenticare di attingere forza  e ispirazione nel proprio impegno dalla presenza del Signore. Puntuale, a proposito, il richiamo ad In aedificationem corporis Christi, il libretto, recuperato recentemente da alcuni scritti inediti di La Pira e pubblicato in occasione dell’anniversario della morte del “sindaco santo”.

Al prof. Marco Giovannoni, membro del comitato preparatorio del convegno, è stato affidato il compito di ripercorrere storicamente l’importanza dei “Colloqui del Mediterraneo di La Pira”. Un’eredità che vive ancora oggi: deve essere “lucerna ai nostri passi”, nel solco di quanto queste occasioni hanno saputo ispirare in passato – ha chiosato il docente presso l’Istituto di scienze religiose di Arezzo.

La Prof. Simone Tholens, docente di sicurezza internazionale presso la Cardiff University, ha presentato un’analisi approfondita, dal titolo: “Geopolitics and Governance in the Mediterranean”. Tholens, visiting professor della “European University Institute”, ha paragonato i Paesi del Mediterraneo a terre di confine geopolitiche, da intendere, cioè, come faglie in movimento che interagiscono tra loro, non soltanto nello scontro, quanto piuttosto nell’incontro. “La politica del dialogo interreligioso nel Mediterraneo” è il titolo dell’intervento a cura del prof. Gian Maria Piccinelli. Il Mediterraneo – ha spiegato l’ordinario di diritto comparato presso l’Università della Campania – è un paradigma fondamentale che trova la sua radice nel progetto umanitario di pace della famiglia di Abramo. Nel solco del sentiero di Isaia che per La Pira è una visione storica, non soltanto escatologica. 

Gli interventi finali hanno permesso di approfondire alcune tematiche concrete, prima tra tutte il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo: “Tra ponte di pace e piattaforma per la guerra”. Carlo Cefaloni, redattore di Città Nuova, ha evidenziato le contraddizioni interne al nostro Paese, in prima linea nella cooperazione internazionale e allo stesso tempo parte attiva dell’industria delle armi. Così come Michele Zanzucchi, già direttore di Città Nuova, ha offerto una testimonianza concreta della situazione e del contesto libanesi, l’esperienza della realtà, calata nel corpo vivo di un popolo ferito, ma allo stesso tempo capace di fraternità. “Il Libano – ha spiegato – è la cartina di tornasole del dialogo mediterraneo”. Una terra di frontiera, da sempre confine di popoli e culture.  

Paolo Poggianti

Articolo originariamente pubblicato su Toscana Oggi, n° 6 del 13/02/2022

LINK -> Rivedi la registrazione dell’incontro su YouTube

Prospettive 178 – Editoriale di Marco Pietro Giovannoni

L’isola di Cipro è attraversata da una crisi politica e sociale molto particolare, le cui motivazioni sono radicate nel tempo e nelle generazioni. Nei secoli, il territorio è passato di mano in mano, dalla divisione dell’Impero Romano, che l’ha lasciato in mano bizantina, da cui la presenza greca, fino al dominio ottomano tra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo, al quale invece si deve la presenza turca, per poi finire sotto il controllo inglese. Questo è un contesto di cui non si sente spesso parlare in Italia, nonostante la sua importanza geostrategica e il complesso rapporto presente tra le sue due “anime” contrapposte. La presenza di una doppia etnia (78% greca, 18% turca) ha fatto sì che si creasse una condizione politica particolare, vissuta spesso in sordina tra avvenimenti che hanno visto casi di pulizia etnica, fratture internazionali evitate all’ultimo momento e minacce militari delinearsi e a volte concretizzarsi con violenza (cfr. questo documento).

Cipro è la terza isola del mar Mediterraneo per estensione. Il 59% della sua superficie si trova sotto il controllo della Repubblica di Cipro, mentre la zona turco-cipriota a nord copre circa il 36% del territorio; il 5% è ancora sotto il controllo inglese. Per comprendere meglio la situazione attuale che caratterizza l’isola di Cipro è necessario tornare all’origine di quella che viene definita la “questione di Cipro”.

Nel 1960 l’isola raggiunse l’indipendenza dalla potenza coloniale britannica. L’accordo coinvolgeva Turchia, Grecia e Regno Unito e prevedeva la collaborazione tra la comunità turca e la comunità greca, che coabitavano nella stessa realtà, affiancando a un presidente greco-cipriota un vicepresidente turco-cipriota. Le frizioni tra le due etnie hanno portato, negli anni, alla formazione di due visioni contrapposte: quella dei greco-ciprioti di “ènosis”, ossia la riunificazione con la Grecia, e quella dei turco-ciprioti di “taksim”, che indica la separazione in due entità statali distinte. Queste tensioni sfociarono nel 1974 in un colpo di stato per mano della potenza greca, al quale seguì la risposta della Turchia, che inviò soldati dall’Anatolia nella parte nord dell’isola, tutt’oggi occupata. Le forze armate turche, dunque, sbarcarono per impedire la conquista e l’annessione alla Grecia e per tutelare i concittadini presenti sull’isola. Così nel 1979 la Turchia proclamò la nascita dello “Stato federato turco-cipriota”, attuale Repubblica turca di Cipro del Nord, riconosciuta a livello internazionale come stato a tutti gli effetti solo dalla Turchia. Tutti gli altri paesi membri delle Nazioni Unite non l’hanno riconosciuta, poiché è nata con l’uso della forza armata e della minaccia, violando il diritto internazionale. Al contrario, la Repubblica di Cipro (del Sud) è riconosciuta a livello internazionale e fa parte dell’Ue, oltre che del Commonwealth.

Le continue difficoltà nell’individuazione di un accordo hanno presentato un ostacolo potenziale all’entrata di Cipro nell’Unione europea, a cui il governo si era applicato dal 1997. Nel dicembre 2002, l’UE ha invitato formalmente Cipro ad associarsi dal 2004, insistendo che la partecipazione alla UE si sarebbe applicata all’isola intera, sperando che ciò fornisse un incentivo significativo per la riunificazione. Un piano delle Nazioni Unite promosso dal segretario generale Kofi Annan è stato sottoposto a entrambi i lati in referendum separati il 24 aprile 2004. Il lato greco in modo schiacciante ha rifiutato il programma di Annan (75,8% voti contrari) ed il lato turco ha votato in favore (64,9% voti favorevoli). La motivazione preponderante contro l’unificazione addotta da parte del lato greco è stata che il programma di Annan non prevedeva né il ritorno di tutti i rifugiati greco-ciprioti nelle loro case, né il rinvio in Turchia di tutti i coloni turchi, né il ritiro di tutte le truppe turche di occupazione, né la smilitarizzazione dell’isola. Nel valutare il risultato è interessante notare che mentre ai coloni turchi è stato permesso di votare, i rifugiati che erano fuggiti da Cipro non hanno avuto diritto di votare in un referendum che infine avrebbe determinato il loro futuro. Nel maggio 2004, Cipro è entrata nell’UE, anche se in pratica ciò si applica soltanto alla parte sud dell’isola.

Ad oggi, la situazione è in stallo e gli equilibri politici interni sono sempre delicati. L’ONU continua a lasciare sull’isola forza militare di mantenimento della pace, i militari presidiano stabilmente la “Linea Verde”, ovvero quell’area di circa 350 km2 che divide il nord turco e il sud greco, tagliando in due anche la capitale Nicosia. Tuttavia, dall’aprile del 2003 è possibile attraversare questa linea di separazione e nel 2008 è stato aperto il primo passaggio nel centro storico della capitale, in Ledra Street.

Un aspetto davvero importante riguardo la questione cipriota è la disomogeneità che caratterizza le due parti in cui l’isola si trova ad essere divisa.

Dopo la crisi degli anni ‘60, seguita alla secessione turca, l’economia cipriota ha vissuto un periodo di forte espansione, soprattutto nella parte greco-cipriota, grazie in primis al settore del turismo.

Tuttavia, la ricchezza non si è distribuita in modo omogeneo: la vita nella parte greca dell’isola risulta essere molto più agevole e vantaggiosa, rispetto a quanto accade invece nella parte nord (ad esempio i greco–ciprioti hanno un reddito pro capite annuo pari a 13.500 $ contro i 3.300 $ dei turco-ciprioti).

Un altro aspetto importante è il fatto che secondo i greco-ciprioti, il regime turco, nell’area occupata, sta deliberatamente e metodicamente sradicando ogni traccia dei 9.000 anni di cultura. Tanto per fare alcuni esempi, tutti i nomi greci delle località sono stati sostituiti con nomi turchi e le chiese, i monumenti, i cimiteri sono stati distrutti o dissacrati.

Come se non bastasse è in corso la costruzione di una barriera fisica atta a fermare i migranti siriani e afgani che si spostano dal nord dell’isola verso il sud (come si legge qui). Questo inasprisce ancora di più i rapporti tra le due fazioni, in un contesto che negli ultimi anni ha visto l’Europa esternalizzare i propri confini tramite diversi accordi con paesi come Libia e Turchia.

Dopo aver analizzato l’importante situazione ancora in corso che si trova dietro quest’isola, fatta di predominanze e conflitti riportiamo le parole del Papa, il quale guarda in alto alla ricerca della “migliore politica”, invitando a lavorare per il bene comune di ogni membro presente sulla terra, senza privilegi o esclusioni.

Nel paragrafo 154 dell’Enciclica “Fratelli tutti” spiega:

“Per rendere possibile lo sviluppo della comunità mondiale […] è necessaria la migliore politica posta al servizio del vero bene comune. […] Dio ha dato la Terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno […] la società mondiale non è il risultato della somma dei vari paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi, è la reciproca inclusione”.

La storia di Cipro ci racconta di una terra sempre in balia delle potenze continentali, e di un popolo che si trova ad essere oggetto di contese che lo deprivano di una vera identità, e della possibilità di essere padrone di sé stesso.

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