Un insidioso ponte fra Europa ed Asia
Per una cittadinanza mediterranea
Un insidioso ponte fra Europa ed Asia
Per una cittadinanza mediterranea
Un insidioso ponte fra Europa ed Asia
“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.
Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.
I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.
La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.
A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.
Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.
L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.
L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))
La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.
Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.
A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.
L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.
Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.
La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.
Per una cittadinanza mediterranea
Sabato 28 gennaio si è tenuto a Firenze il primo incontro preparatorio al forum di Etica Civile, la cui quarta edizione si svolgerà a Palermo il prossimo novembre. Il tema trattato durante l’evento, che si è svolto nella sala Teatina del “Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, ha riguardato l’esigenza odierna di riscoprire e al contempo riappropriarsi del concetto di “cittadinanza mediterranea” per tutti i popoli che si affacciano nel “Mare Nostrum”.
Si sono susseguite discussioni fra relatori appartenenti a generazioni e culture differenti e sono stati presentati articoli di approfondimento sulla più generale tematica dell’etica civile. L’intervento del professor Gian Maria Piccinelli, in particolare, ha toccato delle corde a noi da sempre molto care.
Piccinelli ha iniziato il suo intervento constatando che la cittadinanza mette necessariamente in gioco le nostre diversità come esseri umani: lo Stato moderno, sviluppatosi in tutto il mondo con risultati molto differenti, deve necessariamente fare i conti con una vasta diversità di culture e religioni.
È proprio in questo contesto che il Mediterraneo deve rappresentare una “città comune”, in grado di coniugare protezione, tranquillità e sicurezza con incontro, relazione, insieme di diversità e dialogo. Le città che vi si affacciano hanno, citando il professor La Pira, una loro anima ed un loro destino, e devono concorrere al bene comune inteso come un progetto condiviso, non come un’imposizione calata dall’alto. Se questa dimensione di progettualità si sfilaccia, le città vivono una crisi, ma anche una partenza per un nuovo corso.
E così il nuovo rinnovamento cui aspirare non può prescindere, secondo Piccinelli, da tre visioni di città:
- La “città di pietra”: le radici, la cultura, su cui la comunità si fonda. Inoltre il rinnovamento non deve prescindere dall’armonia, intesa come rispetto reciproco da parte dei vari gruppi etnici.
- La “città delle relazioni”, intesa come luoghi di incontro, scambio (agorà, forum, suk …) nei quali si respira uno spirito neutro di conciliazione fra interessi diversi.
- La “città dell’anima”, intesa come separazione fra spirito e realtà profane. In questo senso risulta essere importante la separazione fisica delle realtà, che si concretizza nella presenza di un tempio, ovvero un luogo della città strettamente dedicato al culto dell’anima. Allo stesso tempo è fondamentale la separazione spirituale fra sacro e profano, intesa come qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana.
Dunque si pone la domanda di come si possa vivere una cittadinanza mediterranea. Innanzi tutto, è necessario riflettere su cosa si intenda per cittadinanza. La cittadinanza è intesa infatti come un rapporto amministrativo e giuridico fra un cittadino ed uno Stato. In questa definizione, intrinsecamente, vi è la possibilità che la cittadinanza possa svolgere un ruolo di esclusione anziché di inclusione. Può divenire un confine tra i cittadini e i non cittadini, o può discriminare sulla base delle potenzialità di poter effettivamente godere di tutti i benefici della cittadinanza. Infatti, i popoli sono spesso di fronte alla tentazione di dare vita ad una super-cittadinanza, e quindi ad un super-cittadino che ha a disposizione tutti i diritti ed i mezzi economici, culturali, tecnologici per affermarsi. Altri individui, seppur appartenenti alla stessa comunità, vengono di contro esclusi da questi privilegi, e di conseguenza emarginati. Questo fenomeno non può che dare luogo ad un aumento della forbice che divide ricchi e poveri e che tende ad aprirsi asintoticamente. Basti pensare, senza andare lontano, alle abissali differenze nel diritto alla sanità fra nord e sud Italia. In contrapposizione al fenomeno del super-cittadino si è sviluppato, a partire dal secondo dopoguerra, un desiderio di allargare la cittadinanza, di una cittadinanza cosmopolita che possa estendersi al di fuori dei confini degli stati.
La cittadinanza globale però, senza un concreto sforzo, una concreta applicazione nella vita quotidiana, rischia di rimanere un’utopia. Piccinelli sostiene, dunque, che la ricerca concreta di un’apertura della cittadinanza si fondi principalmente sulla volontà degli individui, senza prescindere dallo studio, dalla discussione, dall’incontro. Inoltre, non si potrà parlare di cittadinanza globale finché ci saranno conflitti. Nelle aree di conflitto, spesso, i cittadini chiedono soltanto l’opportunità di avere una vita “normale”, secondo la norma. Esiste quindi uno standard minimo, un modello, secondo cui possa essere definita una cittadinanza “normale”? Il professore risponde a questa domanda, da lui stesso posta, individuando tre categorie imprescindibili alla così detta “norma”:
- L’uguaglianza, aspetto fondamentale per una presa di coscienza sociale. Tale uguaglianza, intesa come parità di diritti, è necessaria per coltivare il pluralismo e le diversità.
- La partecipazione, intesa come collaborazione al progetto di bene comune. A questa categoria si contrappone fortemente la tendenza allo sviluppo del super-cittadino.
- L’accesso alle risorse economiche ed ai servizi, per consentire pari dignità e pari opportunità ai cittadini che fanno parte della comunità.
Il professore è entrato poi nel dettaglio delle culture che si affacciano nel mar Mediterraneo, fra le quali si distinguono le religioni abramitiche. È proprio la figura di Abramo su cui il professor Piccinelli ha voluto, in conclusione, riflettere. Abramo rappresenta, per le religioni del libro, l’esistenza di un orizzonte escatologico comune. Suddividendo di nuovo la riflessione in tre perle, Piccinelli cita tre caratteristiche fondamentali del profeta che possono essere uno stimolo per le nostre comunità.
- L’accoglienza, l’incontro con lo straniero, la convivenza ed il compromesso per vivere insieme nella diversità.
- L’intercessione, ovvero la preghiera per lo straniero. Infatti Abramo intercede per Sodoma, emblema della diversità fra pagani e israeliti.
- La visione e l’ascolto, “Shemà”, ovvero lo sguardo che va oltre ed è capace di vedere la promessa di Dio presente nella storia, qui ed ora.
Questi spunti di riflessione guidano necessariamente ad un desiderio di fare la differenza, un desiderio puro di rendere concreti dei principi così tanto nobili. La sfida quotidiana è quella di coltivare questo desiderio, trasformandolo in azioni e non lasciando che prevalga la tentazione del crederci impotenti.
Nel corso del forum si sono poi susseguiti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, filosofi e studiosi che hanno arricchito la riflessione sulla cittadinanza mediterranea. Particolarmente significativi sono stati anche gli interventi dei giovani presenti che hanno raccontato la propria esperienza di cittadinanza globale e di impegno civile e che si impegnano ogni giorno nell’incontro, nell’ascolto e nell’apertura all’altro.
Un insidioso ponte fra Europa ed Asia
Per una cittadinanza mediterranea
Un insidioso ponte fra Europa ed Asia
Per una cittadinanza mediterranea
Un insidioso ponte fra Europa ed Asia
Per una cittadinanza mediterranea
Un insidioso ponte fra Europa ed Asia
Per una cittadinanza mediterranea
Iran: l’anima delle proteste
Un insidioso ponte fra Europa ed Asia
Per una cittadinanza mediterranea
Iran: l’anima delle proteste
Un insidioso ponte fra Europa ed Asia
Per una cittadinanza mediterranea

Women, walking with what possesions they can carry, arrive in a steady trickle at an IDP camp erected next to an AMISOM military base near the town of Jowhar, Somalia, on November 12. Heavy rains in Somalia, coupled with recent disputes between clans, has resulted in over four thousand IDPs seeking shelter at an AMISOM military base near the town of Jowhar, with more arriving daily. AU UN IST Photo / Tobin Jones. Original public domain image from Flickr

Women, walking with what possesions they can carry, arrive in a steady trickle at an IDP camp erected next to an AMISOM military base near the town of Jowhar, Somalia, on November 12. Heavy rains in Somalia, coupled with recent disputes between clans, has resulted in over four thousand IDPs seeking shelter at an AMISOM military base near the town of Jowhar, with more arriving daily. AU UN IST Photo / Tobin Jones. Original public domain image from Flickr
“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.
Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.
I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.
La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.
A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.
Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.
L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.
L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))
La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.
Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.
A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.
L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.
Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.
La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Sabato 28 gennaio si è tenuto a Firenze il primo incontro preparatorio al forum di Etica Civile, la cui quarta edizione si svolgerà a Palermo il prossimo novembre. Il tema trattato durante l’evento, che si è svolto nella sala Teatina del “Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, ha riguardato l’esigenza odierna di riscoprire e al contempo riappropriarsi del concetto di “cittadinanza mediterranea” per tutti i popoli che si affacciano nel “Mare Nostrum”.
Si sono susseguite discussioni fra relatori appartenenti a generazioni e culture differenti e sono stati presentati articoli di approfondimento sulla più generale tematica dell’etica civile. L’intervento del professor Gian Maria Piccinelli, in particolare, ha toccato delle corde a noi da sempre molto care.
Piccinelli ha iniziato il suo intervento constatando che la cittadinanza mette necessariamente in gioco le nostre diversità come esseri umani: lo Stato moderno, sviluppatosi in tutto il mondo con risultati molto differenti, deve necessariamente fare i conti con una vasta diversità di culture e religioni.
È proprio in questo contesto che il Mediterraneo deve rappresentare una “città comune”, in grado di coniugare protezione, tranquillità e sicurezza con incontro, relazione, insieme di diversità e dialogo. Le città che vi si affacciano hanno, citando il professor La Pira, una loro anima ed un loro destino, e devono concorrere al bene comune inteso come un progetto condiviso, non come un’imposizione calata dall’alto. Se questa dimensione di progettualità si sfilaccia, le città vivono una crisi, ma anche una partenza per un nuovo corso.
E così il nuovo rinnovamento cui aspirare non può prescindere, secondo Piccinelli, da tre visioni di città:
- La “città di pietra”: le radici, la cultura, su cui la comunità si fonda. Inoltre il rinnovamento non deve prescindere dall’armonia, intesa come rispetto reciproco da parte dei vari gruppi etnici.
- La “città delle relazioni”, intesa come luoghi di incontro, scambio (agorà, forum, suk …) nei quali si respira uno spirito neutro di conciliazione fra interessi diversi.
- La “città dell’anima”, intesa come separazione fra spirito e realtà profane. In questo senso risulta essere importante la separazione fisica delle realtà, che si concretizza nella presenza di un tempio, ovvero un luogo della città strettamente dedicato al culto dell’anima. Allo stesso tempo è fondamentale la separazione spirituale fra sacro e profano, intesa come qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana.
Dunque si pone la domanda di come si possa vivere una cittadinanza mediterranea. Innanzi tutto, è necessario riflettere su cosa si intenda per cittadinanza. La cittadinanza è intesa infatti come un rapporto amministrativo e giuridico fra un cittadino ed uno Stato. In questa definizione, intrinsecamente, vi è la possibilità che la cittadinanza possa svolgere un ruolo di esclusione anziché di inclusione. Può divenire un confine tra i cittadini e i non cittadini, o può discriminare sulla base delle potenzialità di poter effettivamente godere di tutti i benefici della cittadinanza. Infatti, i popoli sono spesso di fronte alla tentazione di dare vita ad una super-cittadinanza, e quindi ad un super-cittadino che ha a disposizione tutti i diritti ed i mezzi economici, culturali, tecnologici per affermarsi. Altri individui, seppur appartenenti alla stessa comunità, vengono di contro esclusi da questi privilegi, e di conseguenza emarginati. Questo fenomeno non può che dare luogo ad un aumento della forbice che divide ricchi e poveri e che tende ad aprirsi asintoticamente. Basti pensare, senza andare lontano, alle abissali differenze nel diritto alla sanità fra nord e sud Italia. In contrapposizione al fenomeno del super-cittadino si è sviluppato, a partire dal secondo dopoguerra, un desiderio di allargare la cittadinanza, di una cittadinanza cosmopolita che possa estendersi al di fuori dei confini degli stati.
La cittadinanza globale però, senza un concreto sforzo, una concreta applicazione nella vita quotidiana, rischia di rimanere un’utopia. Piccinelli sostiene, dunque, che la ricerca concreta di un’apertura della cittadinanza si fondi principalmente sulla volontà degli individui, senza prescindere dallo studio, dalla discussione, dall’incontro. Inoltre, non si potrà parlare di cittadinanza globale finché ci saranno conflitti. Nelle aree di conflitto, spesso, i cittadini chiedono soltanto l’opportunità di avere una vita “normale”, secondo la norma. Esiste quindi uno standard minimo, un modello, secondo cui possa essere definita una cittadinanza “normale”? Il professore risponde a questa domanda, da lui stesso posta, individuando tre categorie imprescindibili alla così detta “norma”:
- L’uguaglianza, aspetto fondamentale per una presa di coscienza sociale. Tale uguaglianza, intesa come parità di diritti, è necessaria per coltivare il pluralismo e le diversità.
- La partecipazione, intesa come collaborazione al progetto di bene comune. A questa categoria si contrappone fortemente la tendenza allo sviluppo del super-cittadino.
- L’accesso alle risorse economiche ed ai servizi, per consentire pari dignità e pari opportunità ai cittadini che fanno parte della comunità.
Il professore è entrato poi nel dettaglio delle culture che si affacciano nel mar Mediterraneo, fra le quali si distinguono le religioni abramitiche. È proprio la figura di Abramo su cui il professor Piccinelli ha voluto, in conclusione, riflettere. Abramo rappresenta, per le religioni del libro, l’esistenza di un orizzonte escatologico comune. Suddividendo di nuovo la riflessione in tre perle, Piccinelli cita tre caratteristiche fondamentali del profeta che possono essere uno stimolo per le nostre comunità.
- L’accoglienza, l’incontro con lo straniero, la convivenza ed il compromesso per vivere insieme nella diversità.
- L’intercessione, ovvero la preghiera per lo straniero. Infatti Abramo intercede per Sodoma, emblema della diversità fra pagani e israeliti.
- La visione e l’ascolto, “Shemà”, ovvero lo sguardo che va oltre ed è capace di vedere la promessa di Dio presente nella storia, qui ed ora.
Questi spunti di riflessione guidano necessariamente ad un desiderio di fare la differenza, un desiderio puro di rendere concreti dei principi così tanto nobili. La sfida quotidiana è quella di coltivare questo desiderio, trasformandolo in azioni e non lasciando che prevalga la tentazione del crederci impotenti.
Nel corso del forum si sono poi susseguiti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, filosofi e studiosi che hanno arricchito la riflessione sulla cittadinanza mediterranea. Particolarmente significativi sono stati anche gli interventi dei giovani presenti che hanno raccontato la propria esperienza di cittadinanza globale e di impegno civile e che si impegnano ogni giorno nell’incontro, nell’ascolto e nell’apertura all’altro.

Il 13 settembre 2022, a Teheran, Mahsa Amini è stata arrestata dalla polizia religiosa iraniana per non aver correttamente osservato la normativa sull’obbligo di portare il velo. La ragazza è stata portata in una stazione di polizia ed è deceduta, in circostanze non chiarite, il 16 settembre 2022. Mahsa, 22 anni, era di origine curda e proveniva dalla provincia del Kurdistan, dove i controlli sui comportamenti sociali sono meno severi rispetto a Teheran.
La morte di Mahsa Amini è stata descritta da molti come “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Dopo il suo arresto, molti iraniani sono scesi in piazza e, da settembre, stanno portando avanti quella che è la rivolta più duratura della storia dell’Iran dopo quella del 1979 (vedi il report dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale – ISPI).

Mappa dei principali focolai di protesta in Iran nel periodo 16 Settembre – 7 Dicembre. Fonte: ISW – Institute for the Study of War
Il leitmotiv che guida le proteste pone le sue basi sulle parole chiave: “donne, vita, libertà”.
Come accade per ogni evento storico, non esiste un motivo specifico per cui sia stata proprio la morte di Mahsa, e non un altro evento, a segnare l’inizio delle rivolte. Infatti, andando ad esaminare la situazione del Paese, emerge come la morte di Mahsa Amini e l’obbligo di portare il velo siano solo la punta dell’iceberg di un malumore sociale che ha radici ben più profonde e complesse.
L’Iran non è un Paese nuovo a sommosse popolari che spesso appaiono di dimensioni enormi a noi occidentali. Partendo a ritroso, la protesta dalle conseguenze più rilevanti è sicuramente quella con cui il popolo Iraniano, nel 1979, riuscì a costringere all’esilio lo Scià di Persia.
L’ordine di grandezza delle proteste scatenatesi anche a seguito della morte di Mahsa Amini richiama obbligatoriamente alla mente la rivoluzione del 1979, sebbene siano necessari dei paragoni e delle precisazioni.
La rivolta che portò all’esilio dello Scià fu indubbiamente la somma di molteplici fattori. I moti di protesta infatti avevano come obiettivo la liberazione da un regime ormai corrotto. Anche nelle proteste odierne una fetta dei rivoltosi persegue la stessa meta, sebbene ancora non abbiano raggiunto la dimensione “rivoluzionaria” che caratterizzò quelle del ’79. Si noti che la generazione che guidò quelle proteste crede ancora, anche solo parzialmente, nell’ideale della repubblica Islamica. Dunque, tale generazione non è schierata a favore delle proteste in atto.
Provando a leggere fra le righe delle proteste odierne, si possono individuare diversi fattori che le animano e le differenziano dalla rivoluzione del ’79.
In primo luogo, le rivolte sono alimentate da motivi politici e da una richiesta di maggior libertà e dignità. Nell’estate del 2022, da parte del Governo Iraniano, vi è stato un inasprimento delle misure di controllo sulle regole di abbigliamento, con conseguenti proteste delle popolazioni giovanili. Tali misure hanno previsto, tra le altre cose, l’istituzione di una “Giornata dell’Hijab e della castità”. Inoltre, è stato stilato un nuovo codice di abbigliamento dedicato solamente al genere femminile. È stata poi definita la possibilità di utilizzare il riconoscimento facciale per individuare le donne vestite in modo improprio nei luoghi pubblici. Segue dunque che lo scontro con il Governo per una maggior libertà sia una delle cause principali delle rivolte.
Anche la religione ha poi un ruolo fondamentale nelle proteste. Tuttavia, è importante sottolineare che quelle iraniane non sono proteste contro la religione, quanto piuttosto contro un’interpretazione radicale dell’Islam. I giovani iraniani, infatti, si sentono privati non soltanto delle libertà personali, ma anche di speranza per il loro futuro. Il potere religioso, in opposizione, utilizza a titolo di esempio i disagi sociali presenti in Occidente (come prostituzione, tossicodipendenza…) come conseguenza necessaria di uno stile di vita più libero.
Un’altra motivazione, più nascosta, alla base delle rivolte risiede anche nel malcontento provocato dalla disastrosa situazione economica in cui vive gran parte della popolazione iraniana, essendo il Paese gravato da molteplici sanzioni economiche imposte dall’Occidente.
Dalle proteste emerge poi che lo scontro, oltre ad essere politico e religioso, è anche generazionale. Sono i giovani, in primo luogo, a portare avanti le proteste e a non rispecchiarsi nei valori incarnati dal Governo. Si tratta di un punto di forza delle rivolte, che ha consentito una propagazione che non sarebbe mai stata possibile in un Paese occidentale. L’Iran infatti è un Paese giovane e più della metà della popolazione ha meno di 30 anni. Le rivolte in effetti stanno avendo una diffusione ed una durata che ha pochi eguali. Inoltre, l’eccezionale durata delle proteste è dovuta anche al fatto che si tratta di un’azione di rivolta spontanea. In altre parole non c’è, ad oggi, una leadership chiara. Questa assenza di un leader risulta essere per certi versi un timore per la classe dirigente, ma comporta anche dei limiti. Da una parte infatti, se ci fosse un leader, il Governo avrebbe un obiettivo preciso e sarebbe più facile mettere a tacere le rivolte. Dall’altra, tuttavia, l’assenza di una figura di riferimento e di una strutturazione organica delle rivolte, conduce al rischio che l’energia che le contraddistingue possa esaurirsi nel tempo. Aleggia quindi la possibilità che le proteste non riescano a trovare un canalizzazione istituzionale, o che altre strutture già organizzate approfittino di questo vuoto, come avvenne in Egitto per i Fratelli Musulmani durante la Primavera Araba nel 2010-2011.
Un altro elemento di forza delle rivolte è la grande identità collettiva. L’Iran ha una storia millenaria, in cui hanno governato grandissime istituzioni come l’Impero Romano e l’Impero Persiano. Nel corso della storia, dunque, il popolo iraniano ha sviluppato una cultura e dei costumi fortemente radicati e condivisi da gran parte della popolazione. Questa coscienza di massa è inevitabilmente terreno fertile per la nascita di moti popolari.
Oltre alla diffusione che hanno avuto in loco le proteste, un ruolo importante è stato giocato anche dai social media. Le notizie delle proteste in Iran oggi sono arrivate in tutto il mondo, con tanto di hashtag e trend di ragazze che si tagliano ciocche di capelli come supporto simbolico alle donne iraniane. È proprio grazie alla comunicazione in tempo reale che le proteste odierne sono riuscite ad avere una così vasta estensione anche dal punto di vista territoriale. Tuttavia è importante non confondere lo strumento con il fine: infatti, è fondamentale avere un messaggio da comunicare (fine), in modo tale da usare i media (mezzo) in modo proficuo.
La risposta del regime alle rivolte per ora è stata notevolmente severa. La direzione intrapresa dalle proteste difficilmente sembra poter portare ad un dialogo a livello governativo. Si è creata una situazione di “muro di gomma”, nella quale le richieste dei rivoltosi non possono trovare una sponda tra nessuno dei membri dell’establishment. Essendo impraticabile la via negoziale, il Governo ha risposto con la violenza. Fino ad oggi si annoverano più di 500 morti, nonché arresti di massa, minacce di esecuzione ed esecuzioni vere e proprie.
Un’altra abile mossa messa in atto dall’establishment è stata quella di insinuare che le proteste siano manovrate dai “nemici della Repubblica Islamica” (Stati Uniti e Israele). Accusare i rivoltosi di essere “strumenti di agende esterne” da una parte delegittima le proteste e, dall’altra, stringe il popolo contro un nemico esterno comune: non si vuole ammettere, chiaramente, che la popolazione sia scontenta del regime.
Nessuna di tali azioni tuttavia è riuscita a sedare il dissenso che continua a crescere. Ad oggi fare una previsione sull’esito delle rivolte è pressoché impossibile, data la varietà di anime che le alimentano. Ipotizzando anche un’eventuale caduta del regime, è difficile prevedere cosa seguirà. Una vera transizione non sembra possibile al momento, non essendoci corpi intermedi (associazioni, partiti…) ma, come in ogni regime autoritario, soltanto i singoli cittadini e il potere.

“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.
Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.
I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.
La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.
A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.
Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.
L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.
L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))
La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.
Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.
A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.
L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.
Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.
La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Sabato 28 gennaio si è tenuto a Firenze il primo incontro preparatorio al forum di Etica Civile, la cui quarta edizione si svolgerà a Palermo il prossimo novembre. Il tema trattato durante l’evento, che si è svolto nella sala Teatina del “Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, ha riguardato l’esigenza odierna di riscoprire e al contempo riappropriarsi del concetto di “cittadinanza mediterranea” per tutti i popoli che si affacciano nel “Mare Nostrum”.
Si sono susseguite discussioni fra relatori appartenenti a generazioni e culture differenti e sono stati presentati articoli di approfondimento sulla più generale tematica dell’etica civile. L’intervento del professor Gian Maria Piccinelli, in particolare, ha toccato delle corde a noi da sempre molto care.
Piccinelli ha iniziato il suo intervento constatando che la cittadinanza mette necessariamente in gioco le nostre diversità come esseri umani: lo Stato moderno, sviluppatosi in tutto il mondo con risultati molto differenti, deve necessariamente fare i conti con una vasta diversità di culture e religioni.
È proprio in questo contesto che il Mediterraneo deve rappresentare una “città comune”, in grado di coniugare protezione, tranquillità e sicurezza con incontro, relazione, insieme di diversità e dialogo. Le città che vi si affacciano hanno, citando il professor La Pira, una loro anima ed un loro destino, e devono concorrere al bene comune inteso come un progetto condiviso, non come un’imposizione calata dall’alto. Se questa dimensione di progettualità si sfilaccia, le città vivono una crisi, ma anche una partenza per un nuovo corso.
E così il nuovo rinnovamento cui aspirare non può prescindere, secondo Piccinelli, da tre visioni di città:
- La “città di pietra”: le radici, la cultura, su cui la comunità si fonda. Inoltre il rinnovamento non deve prescindere dall’armonia, intesa come rispetto reciproco da parte dei vari gruppi etnici.
- La “città delle relazioni”, intesa come luoghi di incontro, scambio (agorà, forum, suk …) nei quali si respira uno spirito neutro di conciliazione fra interessi diversi.
- La “città dell’anima”, intesa come separazione fra spirito e realtà profane. In questo senso risulta essere importante la separazione fisica delle realtà, che si concretizza nella presenza di un tempio, ovvero un luogo della città strettamente dedicato al culto dell’anima. Allo stesso tempo è fondamentale la separazione spirituale fra sacro e profano, intesa come qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana.
Dunque si pone la domanda di come si possa vivere una cittadinanza mediterranea. Innanzi tutto, è necessario riflettere su cosa si intenda per cittadinanza. La cittadinanza è intesa infatti come un rapporto amministrativo e giuridico fra un cittadino ed uno Stato. In questa definizione, intrinsecamente, vi è la possibilità che la cittadinanza possa svolgere un ruolo di esclusione anziché di inclusione. Può divenire un confine tra i cittadini e i non cittadini, o può discriminare sulla base delle potenzialità di poter effettivamente godere di tutti i benefici della cittadinanza. Infatti, i popoli sono spesso di fronte alla tentazione di dare vita ad una super-cittadinanza, e quindi ad un super-cittadino che ha a disposizione tutti i diritti ed i mezzi economici, culturali, tecnologici per affermarsi. Altri individui, seppur appartenenti alla stessa comunità, vengono di contro esclusi da questi privilegi, e di conseguenza emarginati. Questo fenomeno non può che dare luogo ad un aumento della forbice che divide ricchi e poveri e che tende ad aprirsi asintoticamente. Basti pensare, senza andare lontano, alle abissali differenze nel diritto alla sanità fra nord e sud Italia. In contrapposizione al fenomeno del super-cittadino si è sviluppato, a partire dal secondo dopoguerra, un desiderio di allargare la cittadinanza, di una cittadinanza cosmopolita che possa estendersi al di fuori dei confini degli stati.
La cittadinanza globale però, senza un concreto sforzo, una concreta applicazione nella vita quotidiana, rischia di rimanere un’utopia. Piccinelli sostiene, dunque, che la ricerca concreta di un’apertura della cittadinanza si fondi principalmente sulla volontà degli individui, senza prescindere dallo studio, dalla discussione, dall’incontro. Inoltre, non si potrà parlare di cittadinanza globale finché ci saranno conflitti. Nelle aree di conflitto, spesso, i cittadini chiedono soltanto l’opportunità di avere una vita “normale”, secondo la norma. Esiste quindi uno standard minimo, un modello, secondo cui possa essere definita una cittadinanza “normale”? Il professore risponde a questa domanda, da lui stesso posta, individuando tre categorie imprescindibili alla così detta “norma”:
- L’uguaglianza, aspetto fondamentale per una presa di coscienza sociale. Tale uguaglianza, intesa come parità di diritti, è necessaria per coltivare il pluralismo e le diversità.
- La partecipazione, intesa come collaborazione al progetto di bene comune. A questa categoria si contrappone fortemente la tendenza allo sviluppo del super-cittadino.
- L’accesso alle risorse economiche ed ai servizi, per consentire pari dignità e pari opportunità ai cittadini che fanno parte della comunità.
Il professore è entrato poi nel dettaglio delle culture che si affacciano nel mar Mediterraneo, fra le quali si distinguono le religioni abramitiche. È proprio la figura di Abramo su cui il professor Piccinelli ha voluto, in conclusione, riflettere. Abramo rappresenta, per le religioni del libro, l’esistenza di un orizzonte escatologico comune. Suddividendo di nuovo la riflessione in tre perle, Piccinelli cita tre caratteristiche fondamentali del profeta che possono essere uno stimolo per le nostre comunità.
- L’accoglienza, l’incontro con lo straniero, la convivenza ed il compromesso per vivere insieme nella diversità.
- L’intercessione, ovvero la preghiera per lo straniero. Infatti Abramo intercede per Sodoma, emblema della diversità fra pagani e israeliti.
- La visione e l’ascolto, “Shemà”, ovvero lo sguardo che va oltre ed è capace di vedere la promessa di Dio presente nella storia, qui ed ora.
Questi spunti di riflessione guidano necessariamente ad un desiderio di fare la differenza, un desiderio puro di rendere concreti dei principi così tanto nobili. La sfida quotidiana è quella di coltivare questo desiderio, trasformandolo in azioni e non lasciando che prevalga la tentazione del crederci impotenti.
Nel corso del forum si sono poi susseguiti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, filosofi e studiosi che hanno arricchito la riflessione sulla cittadinanza mediterranea. Particolarmente significativi sono stati anche gli interventi dei giovani presenti che hanno raccontato la propria esperienza di cittadinanza globale e di impegno civile e che si impegnano ogni giorno nell’incontro, nell’ascolto e nell’apertura all’altro.

Il 13 settembre 2022, a Teheran, Mahsa Amini è stata arrestata dalla polizia religiosa iraniana per non aver correttamente osservato la normativa sull’obbligo di portare il velo. La ragazza è stata portata in una stazione di polizia ed è deceduta, in circostanze non chiarite, il 16 settembre 2022. Mahsa, 22 anni, era di origine curda e proveniva dalla provincia del Kurdistan, dove i controlli sui comportamenti sociali sono meno severi rispetto a Teheran.
La morte di Mahsa Amini è stata descritta da molti come “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Dopo il suo arresto, molti iraniani sono scesi in piazza e, da settembre, stanno portando avanti quella che è la rivolta più duratura della storia dell’Iran dopo quella del 1979 (vedi il report dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale – ISPI).

Mappa dei principali focolai di protesta in Iran nel periodo 16 Settembre – 7 Dicembre. Fonte: ISW – Institute for the Study of War
Il leitmotiv che guida le proteste pone le sue basi sulle parole chiave: “donne, vita, libertà”.
Come accade per ogni evento storico, non esiste un motivo specifico per cui sia stata proprio la morte di Mahsa, e non un altro evento, a segnare l’inizio delle rivolte. Infatti, andando ad esaminare la situazione del Paese, emerge come la morte di Mahsa Amini e l’obbligo di portare il velo siano solo la punta dell’iceberg di un malumore sociale che ha radici ben più profonde e complesse.
L’Iran non è un Paese nuovo a sommosse popolari che spesso appaiono di dimensioni enormi a noi occidentali. Partendo a ritroso, la protesta dalle conseguenze più rilevanti è sicuramente quella con cui il popolo Iraniano, nel 1979, riuscì a costringere all’esilio lo Scià di Persia.
L’ordine di grandezza delle proteste scatenatesi anche a seguito della morte di Mahsa Amini richiama obbligatoriamente alla mente la rivoluzione del 1979, sebbene siano necessari dei paragoni e delle precisazioni.
La rivolta che portò all’esilio dello Scià fu indubbiamente la somma di molteplici fattori. I moti di protesta infatti avevano come obiettivo la liberazione da un regime ormai corrotto. Anche nelle proteste odierne una fetta dei rivoltosi persegue la stessa meta, sebbene ancora non abbiano raggiunto la dimensione “rivoluzionaria” che caratterizzò quelle del ’79. Si noti che la generazione che guidò quelle proteste crede ancora, anche solo parzialmente, nell’ideale della repubblica Islamica. Dunque, tale generazione non è schierata a favore delle proteste in atto.
Provando a leggere fra le righe delle proteste odierne, si possono individuare diversi fattori che le animano e le differenziano dalla rivoluzione del ’79.
In primo luogo, le rivolte sono alimentate da motivi politici e da una richiesta di maggior libertà e dignità. Nell’estate del 2022, da parte del Governo Iraniano, vi è stato un inasprimento delle misure di controllo sulle regole di abbigliamento, con conseguenti proteste delle popolazioni giovanili. Tali misure hanno previsto, tra le altre cose, l’istituzione di una “Giornata dell’Hijab e della castità”. Inoltre, è stato stilato un nuovo codice di abbigliamento dedicato solamente al genere femminile. È stata poi definita la possibilità di utilizzare il riconoscimento facciale per individuare le donne vestite in modo improprio nei luoghi pubblici. Segue dunque che lo scontro con il Governo per una maggior libertà sia una delle cause principali delle rivolte.
Anche la religione ha poi un ruolo fondamentale nelle proteste. Tuttavia, è importante sottolineare che quelle iraniane non sono proteste contro la religione, quanto piuttosto contro un’interpretazione radicale dell’Islam. I giovani iraniani, infatti, si sentono privati non soltanto delle libertà personali, ma anche di speranza per il loro futuro. Il potere religioso, in opposizione, utilizza a titolo di esempio i disagi sociali presenti in Occidente (come prostituzione, tossicodipendenza…) come conseguenza necessaria di uno stile di vita più libero.
Un’altra motivazione, più nascosta, alla base delle rivolte risiede anche nel malcontento provocato dalla disastrosa situazione economica in cui vive gran parte della popolazione iraniana, essendo il Paese gravato da molteplici sanzioni economiche imposte dall’Occidente.
Dalle proteste emerge poi che lo scontro, oltre ad essere politico e religioso, è anche generazionale. Sono i giovani, in primo luogo, a portare avanti le proteste e a non rispecchiarsi nei valori incarnati dal Governo. Si tratta di un punto di forza delle rivolte, che ha consentito una propagazione che non sarebbe mai stata possibile in un Paese occidentale. L’Iran infatti è un Paese giovane e più della metà della popolazione ha meno di 30 anni. Le rivolte in effetti stanno avendo una diffusione ed una durata che ha pochi eguali. Inoltre, l’eccezionale durata delle proteste è dovuta anche al fatto che si tratta di un’azione di rivolta spontanea. In altre parole non c’è, ad oggi, una leadership chiara. Questa assenza di un leader risulta essere per certi versi un timore per la classe dirigente, ma comporta anche dei limiti. Da una parte infatti, se ci fosse un leader, il Governo avrebbe un obiettivo preciso e sarebbe più facile mettere a tacere le rivolte. Dall’altra, tuttavia, l’assenza di una figura di riferimento e di una strutturazione organica delle rivolte, conduce al rischio che l’energia che le contraddistingue possa esaurirsi nel tempo. Aleggia quindi la possibilità che le proteste non riescano a trovare un canalizzazione istituzionale, o che altre strutture già organizzate approfittino di questo vuoto, come avvenne in Egitto per i Fratelli Musulmani durante la Primavera Araba nel 2010-2011.
Un altro elemento di forza delle rivolte è la grande identità collettiva. L’Iran ha una storia millenaria, in cui hanno governato grandissime istituzioni come l’Impero Romano e l’Impero Persiano. Nel corso della storia, dunque, il popolo iraniano ha sviluppato una cultura e dei costumi fortemente radicati e condivisi da gran parte della popolazione. Questa coscienza di massa è inevitabilmente terreno fertile per la nascita di moti popolari.
Oltre alla diffusione che hanno avuto in loco le proteste, un ruolo importante è stato giocato anche dai social media. Le notizie delle proteste in Iran oggi sono arrivate in tutto il mondo, con tanto di hashtag e trend di ragazze che si tagliano ciocche di capelli come supporto simbolico alle donne iraniane. È proprio grazie alla comunicazione in tempo reale che le proteste odierne sono riuscite ad avere una così vasta estensione anche dal punto di vista territoriale. Tuttavia è importante non confondere lo strumento con il fine: infatti, è fondamentale avere un messaggio da comunicare (fine), in modo tale da usare i media (mezzo) in modo proficuo.
La risposta del regime alle rivolte per ora è stata notevolmente severa. La direzione intrapresa dalle proteste difficilmente sembra poter portare ad un dialogo a livello governativo. Si è creata una situazione di “muro di gomma”, nella quale le richieste dei rivoltosi non possono trovare una sponda tra nessuno dei membri dell’establishment. Essendo impraticabile la via negoziale, il Governo ha risposto con la violenza. Fino ad oggi si annoverano più di 500 morti, nonché arresti di massa, minacce di esecuzione ed esecuzioni vere e proprie.
Un’altra abile mossa messa in atto dall’establishment è stata quella di insinuare che le proteste siano manovrate dai “nemici della Repubblica Islamica” (Stati Uniti e Israele). Accusare i rivoltosi di essere “strumenti di agende esterne” da una parte delegittima le proteste e, dall’altra, stringe il popolo contro un nemico esterno comune: non si vuole ammettere, chiaramente, che la popolazione sia scontenta del regime.
Nessuna di tali azioni tuttavia è riuscita a sedare il dissenso che continua a crescere. Ad oggi fare una previsione sull’esito delle rivolte è pressoché impossibile, data la varietà di anime che le alimentano. Ipotizzando anche un’eventuale caduta del regime, è difficile prevedere cosa seguirà. Una vera transizione non sembra possibile al momento, non essendoci corpi intermedi (associazioni, partiti…) ma, come in ogni regime autoritario, soltanto i singoli cittadini e il potere.

“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.
Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.
I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.
La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.
A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.
Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.
L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.
L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))
La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.
Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.
A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.
L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.
Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.
La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Sabato 28 gennaio si è tenuto a Firenze il primo incontro preparatorio al forum di Etica Civile, la cui quarta edizione si svolgerà a Palermo il prossimo novembre. Il tema trattato durante l’evento, che si è svolto nella sala Teatina del “Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, ha riguardato l’esigenza odierna di riscoprire e al contempo riappropriarsi del concetto di “cittadinanza mediterranea” per tutti i popoli che si affacciano nel “Mare Nostrum”.
Si sono susseguite discussioni fra relatori appartenenti a generazioni e culture differenti e sono stati presentati articoli di approfondimento sulla più generale tematica dell’etica civile. L’intervento del professor Gian Maria Piccinelli, in particolare, ha toccato delle corde a noi da sempre molto care.
Piccinelli ha iniziato il suo intervento constatando che la cittadinanza mette necessariamente in gioco le nostre diversità come esseri umani: lo Stato moderno, sviluppatosi in tutto il mondo con risultati molto differenti, deve necessariamente fare i conti con una vasta diversità di culture e religioni.
È proprio in questo contesto che il Mediterraneo deve rappresentare una “città comune”, in grado di coniugare protezione, tranquillità e sicurezza con incontro, relazione, insieme di diversità e dialogo. Le città che vi si affacciano hanno, citando il professor La Pira, una loro anima ed un loro destino, e devono concorrere al bene comune inteso come un progetto condiviso, non come un’imposizione calata dall’alto. Se questa dimensione di progettualità si sfilaccia, le città vivono una crisi, ma anche una partenza per un nuovo corso.
E così il nuovo rinnovamento cui aspirare non può prescindere, secondo Piccinelli, da tre visioni di città:
- La “città di pietra”: le radici, la cultura, su cui la comunità si fonda. Inoltre il rinnovamento non deve prescindere dall’armonia, intesa come rispetto reciproco da parte dei vari gruppi etnici.
- La “città delle relazioni”, intesa come luoghi di incontro, scambio (agorà, forum, suk …) nei quali si respira uno spirito neutro di conciliazione fra interessi diversi.
- La “città dell’anima”, intesa come separazione fra spirito e realtà profane. In questo senso risulta essere importante la separazione fisica delle realtà, che si concretizza nella presenza di un tempio, ovvero un luogo della città strettamente dedicato al culto dell’anima. Allo stesso tempo è fondamentale la separazione spirituale fra sacro e profano, intesa come qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana.
Dunque si pone la domanda di come si possa vivere una cittadinanza mediterranea. Innanzi tutto, è necessario riflettere su cosa si intenda per cittadinanza. La cittadinanza è intesa infatti come un rapporto amministrativo e giuridico fra un cittadino ed uno Stato. In questa definizione, intrinsecamente, vi è la possibilità che la cittadinanza possa svolgere un ruolo di esclusione anziché di inclusione. Può divenire un confine tra i cittadini e i non cittadini, o può discriminare sulla base delle potenzialità di poter effettivamente godere di tutti i benefici della cittadinanza. Infatti, i popoli sono spesso di fronte alla tentazione di dare vita ad una super-cittadinanza, e quindi ad un super-cittadino che ha a disposizione tutti i diritti ed i mezzi economici, culturali, tecnologici per affermarsi. Altri individui, seppur appartenenti alla stessa comunità, vengono di contro esclusi da questi privilegi, e di conseguenza emarginati. Questo fenomeno non può che dare luogo ad un aumento della forbice che divide ricchi e poveri e che tende ad aprirsi asintoticamente. Basti pensare, senza andare lontano, alle abissali differenze nel diritto alla sanità fra nord e sud Italia. In contrapposizione al fenomeno del super-cittadino si è sviluppato, a partire dal secondo dopoguerra, un desiderio di allargare la cittadinanza, di una cittadinanza cosmopolita che possa estendersi al di fuori dei confini degli stati.
La cittadinanza globale però, senza un concreto sforzo, una concreta applicazione nella vita quotidiana, rischia di rimanere un’utopia. Piccinelli sostiene, dunque, che la ricerca concreta di un’apertura della cittadinanza si fondi principalmente sulla volontà degli individui, senza prescindere dallo studio, dalla discussione, dall’incontro. Inoltre, non si potrà parlare di cittadinanza globale finché ci saranno conflitti. Nelle aree di conflitto, spesso, i cittadini chiedono soltanto l’opportunità di avere una vita “normale”, secondo la norma. Esiste quindi uno standard minimo, un modello, secondo cui possa essere definita una cittadinanza “normale”? Il professore risponde a questa domanda, da lui stesso posta, individuando tre categorie imprescindibili alla così detta “norma”:
- L’uguaglianza, aspetto fondamentale per una presa di coscienza sociale. Tale uguaglianza, intesa come parità di diritti, è necessaria per coltivare il pluralismo e le diversità.
- La partecipazione, intesa come collaborazione al progetto di bene comune. A questa categoria si contrappone fortemente la tendenza allo sviluppo del super-cittadino.
- L’accesso alle risorse economiche ed ai servizi, per consentire pari dignità e pari opportunità ai cittadini che fanno parte della comunità.
Il professore è entrato poi nel dettaglio delle culture che si affacciano nel mar Mediterraneo, fra le quali si distinguono le religioni abramitiche. È proprio la figura di Abramo su cui il professor Piccinelli ha voluto, in conclusione, riflettere. Abramo rappresenta, per le religioni del libro, l’esistenza di un orizzonte escatologico comune. Suddividendo di nuovo la riflessione in tre perle, Piccinelli cita tre caratteristiche fondamentali del profeta che possono essere uno stimolo per le nostre comunità.
- L’accoglienza, l’incontro con lo straniero, la convivenza ed il compromesso per vivere insieme nella diversità.
- L’intercessione, ovvero la preghiera per lo straniero. Infatti Abramo intercede per Sodoma, emblema della diversità fra pagani e israeliti.
- La visione e l’ascolto, “Shemà”, ovvero lo sguardo che va oltre ed è capace di vedere la promessa di Dio presente nella storia, qui ed ora.
Questi spunti di riflessione guidano necessariamente ad un desiderio di fare la differenza, un desiderio puro di rendere concreti dei principi così tanto nobili. La sfida quotidiana è quella di coltivare questo desiderio, trasformandolo in azioni e non lasciando che prevalga la tentazione del crederci impotenti.
Nel corso del forum si sono poi susseguiti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, filosofi e studiosi che hanno arricchito la riflessione sulla cittadinanza mediterranea. Particolarmente significativi sono stati anche gli interventi dei giovani presenti che hanno raccontato la propria esperienza di cittadinanza globale e di impegno civile e che si impegnano ogni giorno nell’incontro, nell’ascolto e nell’apertura all’altro.

Il 13 settembre 2022, a Teheran, Mahsa Amini è stata arrestata dalla polizia religiosa iraniana per non aver correttamente osservato la normativa sull’obbligo di portare il velo. La ragazza è stata portata in una stazione di polizia ed è deceduta, in circostanze non chiarite, il 16 settembre 2022. Mahsa, 22 anni, era di origine curda e proveniva dalla provincia del Kurdistan, dove i controlli sui comportamenti sociali sono meno severi rispetto a Teheran.
La morte di Mahsa Amini è stata descritta da molti come “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Dopo il suo arresto, molti iraniani sono scesi in piazza e, da settembre, stanno portando avanti quella che è la rivolta più duratura della storia dell’Iran dopo quella del 1979 (vedi il report dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale – ISPI).

Mappa dei principali focolai di protesta in Iran nel periodo 16 Settembre – 7 Dicembre. Fonte: ISW – Institute for the Study of War
Il leitmotiv che guida le proteste pone le sue basi sulle parole chiave: “donne, vita, libertà”.
Come accade per ogni evento storico, non esiste un motivo specifico per cui sia stata proprio la morte di Mahsa, e non un altro evento, a segnare l’inizio delle rivolte. Infatti, andando ad esaminare la situazione del Paese, emerge come la morte di Mahsa Amini e l’obbligo di portare il velo siano solo la punta dell’iceberg di un malumore sociale che ha radici ben più profonde e complesse.
L’Iran non è un Paese nuovo a sommosse popolari che spesso appaiono di dimensioni enormi a noi occidentali. Partendo a ritroso, la protesta dalle conseguenze più rilevanti è sicuramente quella con cui il popolo Iraniano, nel 1979, riuscì a costringere all’esilio lo Scià di Persia.
L’ordine di grandezza delle proteste scatenatesi anche a seguito della morte di Mahsa Amini richiama obbligatoriamente alla mente la rivoluzione del 1979, sebbene siano necessari dei paragoni e delle precisazioni.
La rivolta che portò all’esilio dello Scià fu indubbiamente la somma di molteplici fattori. I moti di protesta infatti avevano come obiettivo la liberazione da un regime ormai corrotto. Anche nelle proteste odierne una fetta dei rivoltosi persegue la stessa meta, sebbene ancora non abbiano raggiunto la dimensione “rivoluzionaria” che caratterizzò quelle del ’79. Si noti che la generazione che guidò quelle proteste crede ancora, anche solo parzialmente, nell’ideale della repubblica Islamica. Dunque, tale generazione non è schierata a favore delle proteste in atto.
Provando a leggere fra le righe delle proteste odierne, si possono individuare diversi fattori che le animano e le differenziano dalla rivoluzione del ’79.
In primo luogo, le rivolte sono alimentate da motivi politici e da una richiesta di maggior libertà e dignità. Nell’estate del 2022, da parte del Governo Iraniano, vi è stato un inasprimento delle misure di controllo sulle regole di abbigliamento, con conseguenti proteste delle popolazioni giovanili. Tali misure hanno previsto, tra le altre cose, l’istituzione di una “Giornata dell’Hijab e della castità”. Inoltre, è stato stilato un nuovo codice di abbigliamento dedicato solamente al genere femminile. È stata poi definita la possibilità di utilizzare il riconoscimento facciale per individuare le donne vestite in modo improprio nei luoghi pubblici. Segue dunque che lo scontro con il Governo per una maggior libertà sia una delle cause principali delle rivolte.
Anche la religione ha poi un ruolo fondamentale nelle proteste. Tuttavia, è importante sottolineare che quelle iraniane non sono proteste contro la religione, quanto piuttosto contro un’interpretazione radicale dell’Islam. I giovani iraniani, infatti, si sentono privati non soltanto delle libertà personali, ma anche di speranza per il loro futuro. Il potere religioso, in opposizione, utilizza a titolo di esempio i disagi sociali presenti in Occidente (come prostituzione, tossicodipendenza…) come conseguenza necessaria di uno stile di vita più libero.
Un’altra motivazione, più nascosta, alla base delle rivolte risiede anche nel malcontento provocato dalla disastrosa situazione economica in cui vive gran parte della popolazione iraniana, essendo il Paese gravato da molteplici sanzioni economiche imposte dall’Occidente.
Dalle proteste emerge poi che lo scontro, oltre ad essere politico e religioso, è anche generazionale. Sono i giovani, in primo luogo, a portare avanti le proteste e a non rispecchiarsi nei valori incarnati dal Governo. Si tratta di un punto di forza delle rivolte, che ha consentito una propagazione che non sarebbe mai stata possibile in un Paese occidentale. L’Iran infatti è un Paese giovane e più della metà della popolazione ha meno di 30 anni. Le rivolte in effetti stanno avendo una diffusione ed una durata che ha pochi eguali. Inoltre, l’eccezionale durata delle proteste è dovuta anche al fatto che si tratta di un’azione di rivolta spontanea. In altre parole non c’è, ad oggi, una leadership chiara. Questa assenza di un leader risulta essere per certi versi un timore per la classe dirigente, ma comporta anche dei limiti. Da una parte infatti, se ci fosse un leader, il Governo avrebbe un obiettivo preciso e sarebbe più facile mettere a tacere le rivolte. Dall’altra, tuttavia, l’assenza di una figura di riferimento e di una strutturazione organica delle rivolte, conduce al rischio che l’energia che le contraddistingue possa esaurirsi nel tempo. Aleggia quindi la possibilità che le proteste non riescano a trovare un canalizzazione istituzionale, o che altre strutture già organizzate approfittino di questo vuoto, come avvenne in Egitto per i Fratelli Musulmani durante la Primavera Araba nel 2010-2011.
Un altro elemento di forza delle rivolte è la grande identità collettiva. L’Iran ha una storia millenaria, in cui hanno governato grandissime istituzioni come l’Impero Romano e l’Impero Persiano. Nel corso della storia, dunque, il popolo iraniano ha sviluppato una cultura e dei costumi fortemente radicati e condivisi da gran parte della popolazione. Questa coscienza di massa è inevitabilmente terreno fertile per la nascita di moti popolari.
Oltre alla diffusione che hanno avuto in loco le proteste, un ruolo importante è stato giocato anche dai social media. Le notizie delle proteste in Iran oggi sono arrivate in tutto il mondo, con tanto di hashtag e trend di ragazze che si tagliano ciocche di capelli come supporto simbolico alle donne iraniane. È proprio grazie alla comunicazione in tempo reale che le proteste odierne sono riuscite ad avere una così vasta estensione anche dal punto di vista territoriale. Tuttavia è importante non confondere lo strumento con il fine: infatti, è fondamentale avere un messaggio da comunicare (fine), in modo tale da usare i media (mezzo) in modo proficuo.
La risposta del regime alle rivolte per ora è stata notevolmente severa. La direzione intrapresa dalle proteste difficilmente sembra poter portare ad un dialogo a livello governativo. Si è creata una situazione di “muro di gomma”, nella quale le richieste dei rivoltosi non possono trovare una sponda tra nessuno dei membri dell’establishment. Essendo impraticabile la via negoziale, il Governo ha risposto con la violenza. Fino ad oggi si annoverano più di 500 morti, nonché arresti di massa, minacce di esecuzione ed esecuzioni vere e proprie.
Un’altra abile mossa messa in atto dall’establishment è stata quella di insinuare che le proteste siano manovrate dai “nemici della Repubblica Islamica” (Stati Uniti e Israele). Accusare i rivoltosi di essere “strumenti di agende esterne” da una parte delegittima le proteste e, dall’altra, stringe il popolo contro un nemico esterno comune: non si vuole ammettere, chiaramente, che la popolazione sia scontenta del regime.
Nessuna di tali azioni tuttavia è riuscita a sedare il dissenso che continua a crescere. Ad oggi fare una previsione sull’esito delle rivolte è pressoché impossibile, data la varietà di anime che le alimentano. Ipotizzando anche un’eventuale caduta del regime, è difficile prevedere cosa seguirà. Una vera transizione non sembra possibile al momento, non essendoci corpi intermedi (associazioni, partiti…) ma, come in ogni regime autoritario, soltanto i singoli cittadini e il potere.


“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.
Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.
I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.
La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.
A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.
Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.
L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.
L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))
La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.
Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.
A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.
L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.
Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.
La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Sabato 28 gennaio si è tenuto a Firenze il primo incontro preparatorio al forum di Etica Civile, la cui quarta edizione si svolgerà a Palermo il prossimo novembre. Il tema trattato durante l’evento, che si è svolto nella sala Teatina del “Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, ha riguardato l’esigenza odierna di riscoprire e al contempo riappropriarsi del concetto di “cittadinanza mediterranea” per tutti i popoli che si affacciano nel “Mare Nostrum”.
Si sono susseguite discussioni fra relatori appartenenti a generazioni e culture differenti e sono stati presentati articoli di approfondimento sulla più generale tematica dell’etica civile. L’intervento del professor Gian Maria Piccinelli, in particolare, ha toccato delle corde a noi da sempre molto care.
Piccinelli ha iniziato il suo intervento constatando che la cittadinanza mette necessariamente in gioco le nostre diversità come esseri umani: lo Stato moderno, sviluppatosi in tutto il mondo con risultati molto differenti, deve necessariamente fare i conti con una vasta diversità di culture e religioni.
È proprio in questo contesto che il Mediterraneo deve rappresentare una “città comune”, in grado di coniugare protezione, tranquillità e sicurezza con incontro, relazione, insieme di diversità e dialogo. Le città che vi si affacciano hanno, citando il professor La Pira, una loro anima ed un loro destino, e devono concorrere al bene comune inteso come un progetto condiviso, non come un’imposizione calata dall’alto. Se questa dimensione di progettualità si sfilaccia, le città vivono una crisi, ma anche una partenza per un nuovo corso.
E così il nuovo rinnovamento cui aspirare non può prescindere, secondo Piccinelli, da tre visioni di città:
- La “città di pietra”: le radici, la cultura, su cui la comunità si fonda. Inoltre il rinnovamento non deve prescindere dall’armonia, intesa come rispetto reciproco da parte dei vari gruppi etnici.
- La “città delle relazioni”, intesa come luoghi di incontro, scambio (agorà, forum, suk …) nei quali si respira uno spirito neutro di conciliazione fra interessi diversi.
- La “città dell’anima”, intesa come separazione fra spirito e realtà profane. In questo senso risulta essere importante la separazione fisica delle realtà, che si concretizza nella presenza di un tempio, ovvero un luogo della città strettamente dedicato al culto dell’anima. Allo stesso tempo è fondamentale la separazione spirituale fra sacro e profano, intesa come qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana.
Dunque si pone la domanda di come si possa vivere una cittadinanza mediterranea. Innanzi tutto, è necessario riflettere su cosa si intenda per cittadinanza. La cittadinanza è intesa infatti come un rapporto amministrativo e giuridico fra un cittadino ed uno Stato. In questa definizione, intrinsecamente, vi è la possibilità che la cittadinanza possa svolgere un ruolo di esclusione anziché di inclusione. Può divenire un confine tra i cittadini e i non cittadini, o può discriminare sulla base delle potenzialità di poter effettivamente godere di tutti i benefici della cittadinanza. Infatti, i popoli sono spesso di fronte alla tentazione di dare vita ad una super-cittadinanza, e quindi ad un super-cittadino che ha a disposizione tutti i diritti ed i mezzi economici, culturali, tecnologici per affermarsi. Altri individui, seppur appartenenti alla stessa comunità, vengono di contro esclusi da questi privilegi, e di conseguenza emarginati. Questo fenomeno non può che dare luogo ad un aumento della forbice che divide ricchi e poveri e che tende ad aprirsi asintoticamente. Basti pensare, senza andare lontano, alle abissali differenze nel diritto alla sanità fra nord e sud Italia. In contrapposizione al fenomeno del super-cittadino si è sviluppato, a partire dal secondo dopoguerra, un desiderio di allargare la cittadinanza, di una cittadinanza cosmopolita che possa estendersi al di fuori dei confini degli stati.
La cittadinanza globale però, senza un concreto sforzo, una concreta applicazione nella vita quotidiana, rischia di rimanere un’utopia. Piccinelli sostiene, dunque, che la ricerca concreta di un’apertura della cittadinanza si fondi principalmente sulla volontà degli individui, senza prescindere dallo studio, dalla discussione, dall’incontro. Inoltre, non si potrà parlare di cittadinanza globale finché ci saranno conflitti. Nelle aree di conflitto, spesso, i cittadini chiedono soltanto l’opportunità di avere una vita “normale”, secondo la norma. Esiste quindi uno standard minimo, un modello, secondo cui possa essere definita una cittadinanza “normale”? Il professore risponde a questa domanda, da lui stesso posta, individuando tre categorie imprescindibili alla così detta “norma”:
- L’uguaglianza, aspetto fondamentale per una presa di coscienza sociale. Tale uguaglianza, intesa come parità di diritti, è necessaria per coltivare il pluralismo e le diversità.
- La partecipazione, intesa come collaborazione al progetto di bene comune. A questa categoria si contrappone fortemente la tendenza allo sviluppo del super-cittadino.
- L’accesso alle risorse economiche ed ai servizi, per consentire pari dignità e pari opportunità ai cittadini che fanno parte della comunità.
Il professore è entrato poi nel dettaglio delle culture che si affacciano nel mar Mediterraneo, fra le quali si distinguono le religioni abramitiche. È proprio la figura di Abramo su cui il professor Piccinelli ha voluto, in conclusione, riflettere. Abramo rappresenta, per le religioni del libro, l’esistenza di un orizzonte escatologico comune. Suddividendo di nuovo la riflessione in tre perle, Piccinelli cita tre caratteristiche fondamentali del profeta che possono essere uno stimolo per le nostre comunità.
- L’accoglienza, l’incontro con lo straniero, la convivenza ed il compromesso per vivere insieme nella diversità.
- L’intercessione, ovvero la preghiera per lo straniero. Infatti Abramo intercede per Sodoma, emblema della diversità fra pagani e israeliti.
- La visione e l’ascolto, “Shemà”, ovvero lo sguardo che va oltre ed è capace di vedere la promessa di Dio presente nella storia, qui ed ora.
Questi spunti di riflessione guidano necessariamente ad un desiderio di fare la differenza, un desiderio puro di rendere concreti dei principi così tanto nobili. La sfida quotidiana è quella di coltivare questo desiderio, trasformandolo in azioni e non lasciando che prevalga la tentazione del crederci impotenti.
Nel corso del forum si sono poi susseguiti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, filosofi e studiosi che hanno arricchito la riflessione sulla cittadinanza mediterranea. Particolarmente significativi sono stati anche gli interventi dei giovani presenti che hanno raccontato la propria esperienza di cittadinanza globale e di impegno civile e che si impegnano ogni giorno nell’incontro, nell’ascolto e nell’apertura all’altro.

Il 13 settembre 2022, a Teheran, Mahsa Amini è stata arrestata dalla polizia religiosa iraniana per non aver correttamente osservato la normativa sull’obbligo di portare il velo. La ragazza è stata portata in una stazione di polizia ed è deceduta, in circostanze non chiarite, il 16 settembre 2022. Mahsa, 22 anni, era di origine curda e proveniva dalla provincia del Kurdistan, dove i controlli sui comportamenti sociali sono meno severi rispetto a Teheran.
La morte di Mahsa Amini è stata descritta da molti come “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Dopo il suo arresto, molti iraniani sono scesi in piazza e, da settembre, stanno portando avanti quella che è la rivolta più duratura della storia dell’Iran dopo quella del 1979 (vedi il report dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale – ISPI).

Mappa dei principali focolai di protesta in Iran nel periodo 16 Settembre – 7 Dicembre. Fonte: ISW – Institute for the Study of War
Il leitmotiv che guida le proteste pone le sue basi sulle parole chiave: “donne, vita, libertà”.
Come accade per ogni evento storico, non esiste un motivo specifico per cui sia stata proprio la morte di Mahsa, e non un altro evento, a segnare l’inizio delle rivolte. Infatti, andando ad esaminare la situazione del Paese, emerge come la morte di Mahsa Amini e l’obbligo di portare il velo siano solo la punta dell’iceberg di un malumore sociale che ha radici ben più profonde e complesse.
L’Iran non è un Paese nuovo a sommosse popolari che spesso appaiono di dimensioni enormi a noi occidentali. Partendo a ritroso, la protesta dalle conseguenze più rilevanti è sicuramente quella con cui il popolo Iraniano, nel 1979, riuscì a costringere all’esilio lo Scià di Persia.
L’ordine di grandezza delle proteste scatenatesi anche a seguito della morte di Mahsa Amini richiama obbligatoriamente alla mente la rivoluzione del 1979, sebbene siano necessari dei paragoni e delle precisazioni.
La rivolta che portò all’esilio dello Scià fu indubbiamente la somma di molteplici fattori. I moti di protesta infatti avevano come obiettivo la liberazione da un regime ormai corrotto. Anche nelle proteste odierne una fetta dei rivoltosi persegue la stessa meta, sebbene ancora non abbiano raggiunto la dimensione “rivoluzionaria” che caratterizzò quelle del ’79. Si noti che la generazione che guidò quelle proteste crede ancora, anche solo parzialmente, nell’ideale della repubblica Islamica. Dunque, tale generazione non è schierata a favore delle proteste in atto.
Provando a leggere fra le righe delle proteste odierne, si possono individuare diversi fattori che le animano e le differenziano dalla rivoluzione del ’79.
In primo luogo, le rivolte sono alimentate da motivi politici e da una richiesta di maggior libertà e dignità. Nell’estate del 2022, da parte del Governo Iraniano, vi è stato un inasprimento delle misure di controllo sulle regole di abbigliamento, con conseguenti proteste delle popolazioni giovanili. Tali misure hanno previsto, tra le altre cose, l’istituzione di una “Giornata dell’Hijab e della castità”. Inoltre, è stato stilato un nuovo codice di abbigliamento dedicato solamente al genere femminile. È stata poi definita la possibilità di utilizzare il riconoscimento facciale per individuare le donne vestite in modo improprio nei luoghi pubblici. Segue dunque che lo scontro con il Governo per una maggior libertà sia una delle cause principali delle rivolte.
Anche la religione ha poi un ruolo fondamentale nelle proteste. Tuttavia, è importante sottolineare che quelle iraniane non sono proteste contro la religione, quanto piuttosto contro un’interpretazione radicale dell’Islam. I giovani iraniani, infatti, si sentono privati non soltanto delle libertà personali, ma anche di speranza per il loro futuro. Il potere religioso, in opposizione, utilizza a titolo di esempio i disagi sociali presenti in Occidente (come prostituzione, tossicodipendenza…) come conseguenza necessaria di uno stile di vita più libero.
Un’altra motivazione, più nascosta, alla base delle rivolte risiede anche nel malcontento provocato dalla disastrosa situazione economica in cui vive gran parte della popolazione iraniana, essendo il Paese gravato da molteplici sanzioni economiche imposte dall’Occidente.
Dalle proteste emerge poi che lo scontro, oltre ad essere politico e religioso, è anche generazionale. Sono i giovani, in primo luogo, a portare avanti le proteste e a non rispecchiarsi nei valori incarnati dal Governo. Si tratta di un punto di forza delle rivolte, che ha consentito una propagazione che non sarebbe mai stata possibile in un Paese occidentale. L’Iran infatti è un Paese giovane e più della metà della popolazione ha meno di 30 anni. Le rivolte in effetti stanno avendo una diffusione ed una durata che ha pochi eguali. Inoltre, l’eccezionale durata delle proteste è dovuta anche al fatto che si tratta di un’azione di rivolta spontanea. In altre parole non c’è, ad oggi, una leadership chiara. Questa assenza di un leader risulta essere per certi versi un timore per la classe dirigente, ma comporta anche dei limiti. Da una parte infatti, se ci fosse un leader, il Governo avrebbe un obiettivo preciso e sarebbe più facile mettere a tacere le rivolte. Dall’altra, tuttavia, l’assenza di una figura di riferimento e di una strutturazione organica delle rivolte, conduce al rischio che l’energia che le contraddistingue possa esaurirsi nel tempo. Aleggia quindi la possibilità che le proteste non riescano a trovare un canalizzazione istituzionale, o che altre strutture già organizzate approfittino di questo vuoto, come avvenne in Egitto per i Fratelli Musulmani durante la Primavera Araba nel 2010-2011.
Un altro elemento di forza delle rivolte è la grande identità collettiva. L’Iran ha una storia millenaria, in cui hanno governato grandissime istituzioni come l’Impero Romano e l’Impero Persiano. Nel corso della storia, dunque, il popolo iraniano ha sviluppato una cultura e dei costumi fortemente radicati e condivisi da gran parte della popolazione. Questa coscienza di massa è inevitabilmente terreno fertile per la nascita di moti popolari.
Oltre alla diffusione che hanno avuto in loco le proteste, un ruolo importante è stato giocato anche dai social media. Le notizie delle proteste in Iran oggi sono arrivate in tutto il mondo, con tanto di hashtag e trend di ragazze che si tagliano ciocche di capelli come supporto simbolico alle donne iraniane. È proprio grazie alla comunicazione in tempo reale che le proteste odierne sono riuscite ad avere una così vasta estensione anche dal punto di vista territoriale. Tuttavia è importante non confondere lo strumento con il fine: infatti, è fondamentale avere un messaggio da comunicare (fine), in modo tale da usare i media (mezzo) in modo proficuo.
La risposta del regime alle rivolte per ora è stata notevolmente severa. La direzione intrapresa dalle proteste difficilmente sembra poter portare ad un dialogo a livello governativo. Si è creata una situazione di “muro di gomma”, nella quale le richieste dei rivoltosi non possono trovare una sponda tra nessuno dei membri dell’establishment. Essendo impraticabile la via negoziale, il Governo ha risposto con la violenza. Fino ad oggi si annoverano più di 500 morti, nonché arresti di massa, minacce di esecuzione ed esecuzioni vere e proprie.
Un’altra abile mossa messa in atto dall’establishment è stata quella di insinuare che le proteste siano manovrate dai “nemici della Repubblica Islamica” (Stati Uniti e Israele). Accusare i rivoltosi di essere “strumenti di agende esterne” da una parte delegittima le proteste e, dall’altra, stringe il popolo contro un nemico esterno comune: non si vuole ammettere, chiaramente, che la popolazione sia scontenta del regime.
Nessuna di tali azioni tuttavia è riuscita a sedare il dissenso che continua a crescere. Ad oggi fare una previsione sull’esito delle rivolte è pressoché impossibile, data la varietà di anime che le alimentano. Ipotizzando anche un’eventuale caduta del regime, è difficile prevedere cosa seguirà. Una vera transizione non sembra possibile al momento, non essendoci corpi intermedi (associazioni, partiti…) ma, come in ogni regime autoritario, soltanto i singoli cittadini e il potere.
“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.
Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.
I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.
La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.
A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.
Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.
L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.
L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))
La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.
Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.
A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.
L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.
Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.
La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Sabato 28 gennaio si è tenuto a Firenze il primo incontro preparatorio al forum di Etica Civile, la cui quarta edizione si svolgerà a Palermo il prossimo novembre. Il tema trattato durante l’evento, che si è svolto nella sala Teatina del “Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, ha riguardato l’esigenza odierna di riscoprire e al contempo riappropriarsi del concetto di “cittadinanza mediterranea” per tutti i popoli che si affacciano nel “Mare Nostrum”.
Si sono susseguite discussioni fra relatori appartenenti a generazioni e culture differenti e sono stati presentati articoli di approfondimento sulla più generale tematica dell’etica civile. L’intervento del professor Gian Maria Piccinelli, in particolare, ha toccato delle corde a noi da sempre molto care.
Piccinelli ha iniziato il suo intervento constatando che la cittadinanza mette necessariamente in gioco le nostre diversità come esseri umani: lo Stato moderno, sviluppatosi in tutto il mondo con risultati molto differenti, deve necessariamente fare i conti con una vasta diversità di culture e religioni.
È proprio in questo contesto che il Mediterraneo deve rappresentare una “città comune”, in grado di coniugare protezione, tranquillità e sicurezza con incontro, relazione, insieme di diversità e dialogo. Le città che vi si affacciano hanno, citando il professor La Pira, una loro anima ed un loro destino, e devono concorrere al bene comune inteso come un progetto condiviso, non come un’imposizione calata dall’alto. Se questa dimensione di progettualità si sfilaccia, le città vivono una crisi, ma anche una partenza per un nuovo corso.
E così il nuovo rinnovamento cui aspirare non può prescindere, secondo Piccinelli, da tre visioni di città:
- La “città di pietra”: le radici, la cultura, su cui la comunità si fonda. Inoltre il rinnovamento non deve prescindere dall’armonia, intesa come rispetto reciproco da parte dei vari gruppi etnici.
- La “città delle relazioni”, intesa come luoghi di incontro, scambio (agorà, forum, suk …) nei quali si respira uno spirito neutro di conciliazione fra interessi diversi.
- La “città dell’anima”, intesa come separazione fra spirito e realtà profane. In questo senso risulta essere importante la separazione fisica delle realtà, che si concretizza nella presenza di un tempio, ovvero un luogo della città strettamente dedicato al culto dell’anima. Allo stesso tempo è fondamentale la separazione spirituale fra sacro e profano, intesa come qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana.
Dunque si pone la domanda di come si possa vivere una cittadinanza mediterranea. Innanzi tutto, è necessario riflettere su cosa si intenda per cittadinanza. La cittadinanza è intesa infatti come un rapporto amministrativo e giuridico fra un cittadino ed uno Stato. In questa definizione, intrinsecamente, vi è la possibilità che la cittadinanza possa svolgere un ruolo di esclusione anziché di inclusione. Può divenire un confine tra i cittadini e i non cittadini, o può discriminare sulla base delle potenzialità di poter effettivamente godere di tutti i benefici della cittadinanza. Infatti, i popoli sono spesso di fronte alla tentazione di dare vita ad una super-cittadinanza, e quindi ad un super-cittadino che ha a disposizione tutti i diritti ed i mezzi economici, culturali, tecnologici per affermarsi. Altri individui, seppur appartenenti alla stessa comunità, vengono di contro esclusi da questi privilegi, e di conseguenza emarginati. Questo fenomeno non può che dare luogo ad un aumento della forbice che divide ricchi e poveri e che tende ad aprirsi asintoticamente. Basti pensare, senza andare lontano, alle abissali differenze nel diritto alla sanità fra nord e sud Italia. In contrapposizione al fenomeno del super-cittadino si è sviluppato, a partire dal secondo dopoguerra, un desiderio di allargare la cittadinanza, di una cittadinanza cosmopolita che possa estendersi al di fuori dei confini degli stati.
La cittadinanza globale però, senza un concreto sforzo, una concreta applicazione nella vita quotidiana, rischia di rimanere un’utopia. Piccinelli sostiene, dunque, che la ricerca concreta di un’apertura della cittadinanza si fondi principalmente sulla volontà degli individui, senza prescindere dallo studio, dalla discussione, dall’incontro. Inoltre, non si potrà parlare di cittadinanza globale finché ci saranno conflitti. Nelle aree di conflitto, spesso, i cittadini chiedono soltanto l’opportunità di avere una vita “normale”, secondo la norma. Esiste quindi uno standard minimo, un modello, secondo cui possa essere definita una cittadinanza “normale”? Il professore risponde a questa domanda, da lui stesso posta, individuando tre categorie imprescindibili alla così detta “norma”:
- L’uguaglianza, aspetto fondamentale per una presa di coscienza sociale. Tale uguaglianza, intesa come parità di diritti, è necessaria per coltivare il pluralismo e le diversità.
- La partecipazione, intesa come collaborazione al progetto di bene comune. A questa categoria si contrappone fortemente la tendenza allo sviluppo del super-cittadino.
- L’accesso alle risorse economiche ed ai servizi, per consentire pari dignità e pari opportunità ai cittadini che fanno parte della comunità.
Il professore è entrato poi nel dettaglio delle culture che si affacciano nel mar Mediterraneo, fra le quali si distinguono le religioni abramitiche. È proprio la figura di Abramo su cui il professor Piccinelli ha voluto, in conclusione, riflettere. Abramo rappresenta, per le religioni del libro, l’esistenza di un orizzonte escatologico comune. Suddividendo di nuovo la riflessione in tre perle, Piccinelli cita tre caratteristiche fondamentali del profeta che possono essere uno stimolo per le nostre comunità.
- L’accoglienza, l’incontro con lo straniero, la convivenza ed il compromesso per vivere insieme nella diversità.
- L’intercessione, ovvero la preghiera per lo straniero. Infatti Abramo intercede per Sodoma, emblema della diversità fra pagani e israeliti.
- La visione e l’ascolto, “Shemà”, ovvero lo sguardo che va oltre ed è capace di vedere la promessa di Dio presente nella storia, qui ed ora.
Questi spunti di riflessione guidano necessariamente ad un desiderio di fare la differenza, un desiderio puro di rendere concreti dei principi così tanto nobili. La sfida quotidiana è quella di coltivare questo desiderio, trasformandolo in azioni e non lasciando che prevalga la tentazione del crederci impotenti.
Nel corso del forum si sono poi susseguiti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, filosofi e studiosi che hanno arricchito la riflessione sulla cittadinanza mediterranea. Particolarmente significativi sono stati anche gli interventi dei giovani presenti che hanno raccontato la propria esperienza di cittadinanza globale e di impegno civile e che si impegnano ogni giorno nell’incontro, nell’ascolto e nell’apertura all’altro.

Il 13 settembre 2022, a Teheran, Mahsa Amini è stata arrestata dalla polizia religiosa iraniana per non aver correttamente osservato la normativa sull’obbligo di portare il velo. La ragazza è stata portata in una stazione di polizia ed è deceduta, in circostanze non chiarite, il 16 settembre 2022. Mahsa, 22 anni, era di origine curda e proveniva dalla provincia del Kurdistan, dove i controlli sui comportamenti sociali sono meno severi rispetto a Teheran.
La morte di Mahsa Amini è stata descritta da molti come “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Dopo il suo arresto, molti iraniani sono scesi in piazza e, da settembre, stanno portando avanti quella che è la rivolta più duratura della storia dell’Iran dopo quella del 1979 (vedi il report dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale – ISPI).

Mappa dei principali focolai di protesta in Iran nel periodo 16 Settembre – 7 Dicembre. Fonte: ISW – Institute for the Study of War
Il leitmotiv che guida le proteste pone le sue basi sulle parole chiave: “donne, vita, libertà”.
Come accade per ogni evento storico, non esiste un motivo specifico per cui sia stata proprio la morte di Mahsa, e non un altro evento, a segnare l’inizio delle rivolte. Infatti, andando ad esaminare la situazione del Paese, emerge come la morte di Mahsa Amini e l’obbligo di portare il velo siano solo la punta dell’iceberg di un malumore sociale che ha radici ben più profonde e complesse.
L’Iran non è un Paese nuovo a sommosse popolari che spesso appaiono di dimensioni enormi a noi occidentali. Partendo a ritroso, la protesta dalle conseguenze più rilevanti è sicuramente quella con cui il popolo Iraniano, nel 1979, riuscì a costringere all’esilio lo Scià di Persia.
L’ordine di grandezza delle proteste scatenatesi anche a seguito della morte di Mahsa Amini richiama obbligatoriamente alla mente la rivoluzione del 1979, sebbene siano necessari dei paragoni e delle precisazioni.
La rivolta che portò all’esilio dello Scià fu indubbiamente la somma di molteplici fattori. I moti di protesta infatti avevano come obiettivo la liberazione da un regime ormai corrotto. Anche nelle proteste odierne una fetta dei rivoltosi persegue la stessa meta, sebbene ancora non abbiano raggiunto la dimensione “rivoluzionaria” che caratterizzò quelle del ’79. Si noti che la generazione che guidò quelle proteste crede ancora, anche solo parzialmente, nell’ideale della repubblica Islamica. Dunque, tale generazione non è schierata a favore delle proteste in atto.
Provando a leggere fra le righe delle proteste odierne, si possono individuare diversi fattori che le animano e le differenziano dalla rivoluzione del ’79.
In primo luogo, le rivolte sono alimentate da motivi politici e da una richiesta di maggior libertà e dignità. Nell’estate del 2022, da parte del Governo Iraniano, vi è stato un inasprimento delle misure di controllo sulle regole di abbigliamento, con conseguenti proteste delle popolazioni giovanili. Tali misure hanno previsto, tra le altre cose, l’istituzione di una “Giornata dell’Hijab e della castità”. Inoltre, è stato stilato un nuovo codice di abbigliamento dedicato solamente al genere femminile. È stata poi definita la possibilità di utilizzare il riconoscimento facciale per individuare le donne vestite in modo improprio nei luoghi pubblici. Segue dunque che lo scontro con il Governo per una maggior libertà sia una delle cause principali delle rivolte.
Anche la religione ha poi un ruolo fondamentale nelle proteste. Tuttavia, è importante sottolineare che quelle iraniane non sono proteste contro la religione, quanto piuttosto contro un’interpretazione radicale dell’Islam. I giovani iraniani, infatti, si sentono privati non soltanto delle libertà personali, ma anche di speranza per il loro futuro. Il potere religioso, in opposizione, utilizza a titolo di esempio i disagi sociali presenti in Occidente (come prostituzione, tossicodipendenza…) come conseguenza necessaria di uno stile di vita più libero.
Un’altra motivazione, più nascosta, alla base delle rivolte risiede anche nel malcontento provocato dalla disastrosa situazione economica in cui vive gran parte della popolazione iraniana, essendo il Paese gravato da molteplici sanzioni economiche imposte dall’Occidente.
Dalle proteste emerge poi che lo scontro, oltre ad essere politico e religioso, è anche generazionale. Sono i giovani, in primo luogo, a portare avanti le proteste e a non rispecchiarsi nei valori incarnati dal Governo. Si tratta di un punto di forza delle rivolte, che ha consentito una propagazione che non sarebbe mai stata possibile in un Paese occidentale. L’Iran infatti è un Paese giovane e più della metà della popolazione ha meno di 30 anni. Le rivolte in effetti stanno avendo una diffusione ed una durata che ha pochi eguali. Inoltre, l’eccezionale durata delle proteste è dovuta anche al fatto che si tratta di un’azione di rivolta spontanea. In altre parole non c’è, ad oggi, una leadership chiara. Questa assenza di un leader risulta essere per certi versi un timore per la classe dirigente, ma comporta anche dei limiti. Da una parte infatti, se ci fosse un leader, il Governo avrebbe un obiettivo preciso e sarebbe più facile mettere a tacere le rivolte. Dall’altra, tuttavia, l’assenza di una figura di riferimento e di una strutturazione organica delle rivolte, conduce al rischio che l’energia che le contraddistingue possa esaurirsi nel tempo. Aleggia quindi la possibilità che le proteste non riescano a trovare un canalizzazione istituzionale, o che altre strutture già organizzate approfittino di questo vuoto, come avvenne in Egitto per i Fratelli Musulmani durante la Primavera Araba nel 2010-2011.
Un altro elemento di forza delle rivolte è la grande identità collettiva. L’Iran ha una storia millenaria, in cui hanno governato grandissime istituzioni come l’Impero Romano e l’Impero Persiano. Nel corso della storia, dunque, il popolo iraniano ha sviluppato una cultura e dei costumi fortemente radicati e condivisi da gran parte della popolazione. Questa coscienza di massa è inevitabilmente terreno fertile per la nascita di moti popolari.
Oltre alla diffusione che hanno avuto in loco le proteste, un ruolo importante è stato giocato anche dai social media. Le notizie delle proteste in Iran oggi sono arrivate in tutto il mondo, con tanto di hashtag e trend di ragazze che si tagliano ciocche di capelli come supporto simbolico alle donne iraniane. È proprio grazie alla comunicazione in tempo reale che le proteste odierne sono riuscite ad avere una così vasta estensione anche dal punto di vista territoriale. Tuttavia è importante non confondere lo strumento con il fine: infatti, è fondamentale avere un messaggio da comunicare (fine), in modo tale da usare i media (mezzo) in modo proficuo.
La risposta del regime alle rivolte per ora è stata notevolmente severa. La direzione intrapresa dalle proteste difficilmente sembra poter portare ad un dialogo a livello governativo. Si è creata una situazione di “muro di gomma”, nella quale le richieste dei rivoltosi non possono trovare una sponda tra nessuno dei membri dell’establishment. Essendo impraticabile la via negoziale, il Governo ha risposto con la violenza. Fino ad oggi si annoverano più di 500 morti, nonché arresti di massa, minacce di esecuzione ed esecuzioni vere e proprie.
Un’altra abile mossa messa in atto dall’establishment è stata quella di insinuare che le proteste siano manovrate dai “nemici della Repubblica Islamica” (Stati Uniti e Israele). Accusare i rivoltosi di essere “strumenti di agende esterne” da una parte delegittima le proteste e, dall’altra, stringe il popolo contro un nemico esterno comune: non si vuole ammettere, chiaramente, che la popolazione sia scontenta del regime.
Nessuna di tali azioni tuttavia è riuscita a sedare il dissenso che continua a crescere. Ad oggi fare una previsione sull’esito delle rivolte è pressoché impossibile, data la varietà di anime che le alimentano. Ipotizzando anche un’eventuale caduta del regime, è difficile prevedere cosa seguirà. Una vera transizione non sembra possibile al momento, non essendoci corpi intermedi (associazioni, partiti…) ma, come in ogni regime autoritario, soltanto i singoli cittadini e il potere.

“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.
Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.
I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.
La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.
A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.
Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.
L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.
L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))
La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.
Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.
A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.
L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.
Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.
La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Sabato 28 gennaio si è tenuto a Firenze il primo incontro preparatorio al forum di Etica Civile, la cui quarta edizione si svolgerà a Palermo il prossimo novembre. Il tema trattato durante l’evento, che si è svolto nella sala Teatina del “Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, ha riguardato l’esigenza odierna di riscoprire e al contempo riappropriarsi del concetto di “cittadinanza mediterranea” per tutti i popoli che si affacciano nel “Mare Nostrum”.
Si sono susseguite discussioni fra relatori appartenenti a generazioni e culture differenti e sono stati presentati articoli di approfondimento sulla più generale tematica dell’etica civile. L’intervento del professor Gian Maria Piccinelli, in particolare, ha toccato delle corde a noi da sempre molto care.
Piccinelli ha iniziato il suo intervento constatando che la cittadinanza mette necessariamente in gioco le nostre diversità come esseri umani: lo Stato moderno, sviluppatosi in tutto il mondo con risultati molto differenti, deve necessariamente fare i conti con una vasta diversità di culture e religioni.
È proprio in questo contesto che il Mediterraneo deve rappresentare una “città comune”, in grado di coniugare protezione, tranquillità e sicurezza con incontro, relazione, insieme di diversità e dialogo. Le città che vi si affacciano hanno, citando il professor La Pira, una loro anima ed un loro destino, e devono concorrere al bene comune inteso come un progetto condiviso, non come un’imposizione calata dall’alto. Se questa dimensione di progettualità si sfilaccia, le città vivono una crisi, ma anche una partenza per un nuovo corso.
E così il nuovo rinnovamento cui aspirare non può prescindere, secondo Piccinelli, da tre visioni di città:
- La “città di pietra”: le radici, la cultura, su cui la comunità si fonda. Inoltre il rinnovamento non deve prescindere dall’armonia, intesa come rispetto reciproco da parte dei vari gruppi etnici.
- La “città delle relazioni”, intesa come luoghi di incontro, scambio (agorà, forum, suk …) nei quali si respira uno spirito neutro di conciliazione fra interessi diversi.
- La “città dell’anima”, intesa come separazione fra spirito e realtà profane. In questo senso risulta essere importante la separazione fisica delle realtà, che si concretizza nella presenza di un tempio, ovvero un luogo della città strettamente dedicato al culto dell’anima. Allo stesso tempo è fondamentale la separazione spirituale fra sacro e profano, intesa come qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana.
Dunque si pone la domanda di come si possa vivere una cittadinanza mediterranea. Innanzi tutto, è necessario riflettere su cosa si intenda per cittadinanza. La cittadinanza è intesa infatti come un rapporto amministrativo e giuridico fra un cittadino ed uno Stato. In questa definizione, intrinsecamente, vi è la possibilità che la cittadinanza possa svolgere un ruolo di esclusione anziché di inclusione. Può divenire un confine tra i cittadini e i non cittadini, o può discriminare sulla base delle potenzialità di poter effettivamente godere di tutti i benefici della cittadinanza. Infatti, i popoli sono spesso di fronte alla tentazione di dare vita ad una super-cittadinanza, e quindi ad un super-cittadino che ha a disposizione tutti i diritti ed i mezzi economici, culturali, tecnologici per affermarsi. Altri individui, seppur appartenenti alla stessa comunità, vengono di contro esclusi da questi privilegi, e di conseguenza emarginati. Questo fenomeno non può che dare luogo ad un aumento della forbice che divide ricchi e poveri e che tende ad aprirsi asintoticamente. Basti pensare, senza andare lontano, alle abissali differenze nel diritto alla sanità fra nord e sud Italia. In contrapposizione al fenomeno del super-cittadino si è sviluppato, a partire dal secondo dopoguerra, un desiderio di allargare la cittadinanza, di una cittadinanza cosmopolita che possa estendersi al di fuori dei confini degli stati.
La cittadinanza globale però, senza un concreto sforzo, una concreta applicazione nella vita quotidiana, rischia di rimanere un’utopia. Piccinelli sostiene, dunque, che la ricerca concreta di un’apertura della cittadinanza si fondi principalmente sulla volontà degli individui, senza prescindere dallo studio, dalla discussione, dall’incontro. Inoltre, non si potrà parlare di cittadinanza globale finché ci saranno conflitti. Nelle aree di conflitto, spesso, i cittadini chiedono soltanto l’opportunità di avere una vita “normale”, secondo la norma. Esiste quindi uno standard minimo, un modello, secondo cui possa essere definita una cittadinanza “normale”? Il professore risponde a questa domanda, da lui stesso posta, individuando tre categorie imprescindibili alla così detta “norma”:
- L’uguaglianza, aspetto fondamentale per una presa di coscienza sociale. Tale uguaglianza, intesa come parità di diritti, è necessaria per coltivare il pluralismo e le diversità.
- La partecipazione, intesa come collaborazione al progetto di bene comune. A questa categoria si contrappone fortemente la tendenza allo sviluppo del super-cittadino.
- L’accesso alle risorse economiche ed ai servizi, per consentire pari dignità e pari opportunità ai cittadini che fanno parte della comunità.
Il professore è entrato poi nel dettaglio delle culture che si affacciano nel mar Mediterraneo, fra le quali si distinguono le religioni abramitiche. È proprio la figura di Abramo su cui il professor Piccinelli ha voluto, in conclusione, riflettere. Abramo rappresenta, per le religioni del libro, l’esistenza di un orizzonte escatologico comune. Suddividendo di nuovo la riflessione in tre perle, Piccinelli cita tre caratteristiche fondamentali del profeta che possono essere uno stimolo per le nostre comunità.
- L’accoglienza, l’incontro con lo straniero, la convivenza ed il compromesso per vivere insieme nella diversità.
- L’intercessione, ovvero la preghiera per lo straniero. Infatti Abramo intercede per Sodoma, emblema della diversità fra pagani e israeliti.
- La visione e l’ascolto, “Shemà”, ovvero lo sguardo che va oltre ed è capace di vedere la promessa di Dio presente nella storia, qui ed ora.
Questi spunti di riflessione guidano necessariamente ad un desiderio di fare la differenza, un desiderio puro di rendere concreti dei principi così tanto nobili. La sfida quotidiana è quella di coltivare questo desiderio, trasformandolo in azioni e non lasciando che prevalga la tentazione del crederci impotenti.
Nel corso del forum si sono poi susseguiti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, filosofi e studiosi che hanno arricchito la riflessione sulla cittadinanza mediterranea. Particolarmente significativi sono stati anche gli interventi dei giovani presenti che hanno raccontato la propria esperienza di cittadinanza globale e di impegno civile e che si impegnano ogni giorno nell’incontro, nell’ascolto e nell’apertura all’altro.

Il 13 settembre 2022, a Teheran, Mahsa Amini è stata arrestata dalla polizia religiosa iraniana per non aver correttamente osservato la normativa sull’obbligo di portare il velo. La ragazza è stata portata in una stazione di polizia ed è deceduta, in circostanze non chiarite, il 16 settembre 2022. Mahsa, 22 anni, era di origine curda e proveniva dalla provincia del Kurdistan, dove i controlli sui comportamenti sociali sono meno severi rispetto a Teheran.
La morte di Mahsa Amini è stata descritta da molti come “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Dopo il suo arresto, molti iraniani sono scesi in piazza e, da settembre, stanno portando avanti quella che è la rivolta più duratura della storia dell’Iran dopo quella del 1979 (vedi il report dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale – ISPI).

Mappa dei principali focolai di protesta in Iran nel periodo 16 Settembre – 7 Dicembre. Fonte: ISW – Institute for the Study of War
Il leitmotiv che guida le proteste pone le sue basi sulle parole chiave: “donne, vita, libertà”.
Come accade per ogni evento storico, non esiste un motivo specifico per cui sia stata proprio la morte di Mahsa, e non un altro evento, a segnare l’inizio delle rivolte. Infatti, andando ad esaminare la situazione del Paese, emerge come la morte di Mahsa Amini e l’obbligo di portare il velo siano solo la punta dell’iceberg di un malumore sociale che ha radici ben più profonde e complesse.
L’Iran non è un Paese nuovo a sommosse popolari che spesso appaiono di dimensioni enormi a noi occidentali. Partendo a ritroso, la protesta dalle conseguenze più rilevanti è sicuramente quella con cui il popolo Iraniano, nel 1979, riuscì a costringere all’esilio lo Scià di Persia.
L’ordine di grandezza delle proteste scatenatesi anche a seguito della morte di Mahsa Amini richiama obbligatoriamente alla mente la rivoluzione del 1979, sebbene siano necessari dei paragoni e delle precisazioni.
La rivolta che portò all’esilio dello Scià fu indubbiamente la somma di molteplici fattori. I moti di protesta infatti avevano come obiettivo la liberazione da un regime ormai corrotto. Anche nelle proteste odierne una fetta dei rivoltosi persegue la stessa meta, sebbene ancora non abbiano raggiunto la dimensione “rivoluzionaria” che caratterizzò quelle del ’79. Si noti che la generazione che guidò quelle proteste crede ancora, anche solo parzialmente, nell’ideale della repubblica Islamica. Dunque, tale generazione non è schierata a favore delle proteste in atto.
Provando a leggere fra le righe delle proteste odierne, si possono individuare diversi fattori che le animano e le differenziano dalla rivoluzione del ’79.
In primo luogo, le rivolte sono alimentate da motivi politici e da una richiesta di maggior libertà e dignità. Nell’estate del 2022, da parte del Governo Iraniano, vi è stato un inasprimento delle misure di controllo sulle regole di abbigliamento, con conseguenti proteste delle popolazioni giovanili. Tali misure hanno previsto, tra le altre cose, l’istituzione di una “Giornata dell’Hijab e della castità”. Inoltre, è stato stilato un nuovo codice di abbigliamento dedicato solamente al genere femminile. È stata poi definita la possibilità di utilizzare il riconoscimento facciale per individuare le donne vestite in modo improprio nei luoghi pubblici. Segue dunque che lo scontro con il Governo per una maggior libertà sia una delle cause principali delle rivolte.
Anche la religione ha poi un ruolo fondamentale nelle proteste. Tuttavia, è importante sottolineare che quelle iraniane non sono proteste contro la religione, quanto piuttosto contro un’interpretazione radicale dell’Islam. I giovani iraniani, infatti, si sentono privati non soltanto delle libertà personali, ma anche di speranza per il loro futuro. Il potere religioso, in opposizione, utilizza a titolo di esempio i disagi sociali presenti in Occidente (come prostituzione, tossicodipendenza…) come conseguenza necessaria di uno stile di vita più libero.
Un’altra motivazione, più nascosta, alla base delle rivolte risiede anche nel malcontento provocato dalla disastrosa situazione economica in cui vive gran parte della popolazione iraniana, essendo il Paese gravato da molteplici sanzioni economiche imposte dall’Occidente.
Dalle proteste emerge poi che lo scontro, oltre ad essere politico e religioso, è anche generazionale. Sono i giovani, in primo luogo, a portare avanti le proteste e a non rispecchiarsi nei valori incarnati dal Governo. Si tratta di un punto di forza delle rivolte, che ha consentito una propagazione che non sarebbe mai stata possibile in un Paese occidentale. L’Iran infatti è un Paese giovane e più della metà della popolazione ha meno di 30 anni. Le rivolte in effetti stanno avendo una diffusione ed una durata che ha pochi eguali. Inoltre, l’eccezionale durata delle proteste è dovuta anche al fatto che si tratta di un’azione di rivolta spontanea. In altre parole non c’è, ad oggi, una leadership chiara. Questa assenza di un leader risulta essere per certi versi un timore per la classe dirigente, ma comporta anche dei limiti. Da una parte infatti, se ci fosse un leader, il Governo avrebbe un obiettivo preciso e sarebbe più facile mettere a tacere le rivolte. Dall’altra, tuttavia, l’assenza di una figura di riferimento e di una strutturazione organica delle rivolte, conduce al rischio che l’energia che le contraddistingue possa esaurirsi nel tempo. Aleggia quindi la possibilità che le proteste non riescano a trovare un canalizzazione istituzionale, o che altre strutture già organizzate approfittino di questo vuoto, come avvenne in Egitto per i Fratelli Musulmani durante la Primavera Araba nel 2010-2011.
Un altro elemento di forza delle rivolte è la grande identità collettiva. L’Iran ha una storia millenaria, in cui hanno governato grandissime istituzioni come l’Impero Romano e l’Impero Persiano. Nel corso della storia, dunque, il popolo iraniano ha sviluppato una cultura e dei costumi fortemente radicati e condivisi da gran parte della popolazione. Questa coscienza di massa è inevitabilmente terreno fertile per la nascita di moti popolari.
Oltre alla diffusione che hanno avuto in loco le proteste, un ruolo importante è stato giocato anche dai social media. Le notizie delle proteste in Iran oggi sono arrivate in tutto il mondo, con tanto di hashtag e trend di ragazze che si tagliano ciocche di capelli come supporto simbolico alle donne iraniane. È proprio grazie alla comunicazione in tempo reale che le proteste odierne sono riuscite ad avere una così vasta estensione anche dal punto di vista territoriale. Tuttavia è importante non confondere lo strumento con il fine: infatti, è fondamentale avere un messaggio da comunicare (fine), in modo tale da usare i media (mezzo) in modo proficuo.
La risposta del regime alle rivolte per ora è stata notevolmente severa. La direzione intrapresa dalle proteste difficilmente sembra poter portare ad un dialogo a livello governativo. Si è creata una situazione di “muro di gomma”, nella quale le richieste dei rivoltosi non possono trovare una sponda tra nessuno dei membri dell’establishment. Essendo impraticabile la via negoziale, il Governo ha risposto con la violenza. Fino ad oggi si annoverano più di 500 morti, nonché arresti di massa, minacce di esecuzione ed esecuzioni vere e proprie.
Un’altra abile mossa messa in atto dall’establishment è stata quella di insinuare che le proteste siano manovrate dai “nemici della Repubblica Islamica” (Stati Uniti e Israele). Accusare i rivoltosi di essere “strumenti di agende esterne” da una parte delegittima le proteste e, dall’altra, stringe il popolo contro un nemico esterno comune: non si vuole ammettere, chiaramente, che la popolazione sia scontenta del regime.
Nessuna di tali azioni tuttavia è riuscita a sedare il dissenso che continua a crescere. Ad oggi fare una previsione sull’esito delle rivolte è pressoché impossibile, data la varietà di anime che le alimentano. Ipotizzando anche un’eventuale caduta del regime, è difficile prevedere cosa seguirà. Una vera transizione non sembra possibile al momento, non essendoci corpi intermedi (associazioni, partiti…) ma, come in ogni regime autoritario, soltanto i singoli cittadini e il potere.
