Il grido ignorato dei Balcani

  Conoscere i Balcani significa scoprire un pezzo di Europa che troppo spesso viene considerato lontano ed estraneo, nonostante la vicinanza geografica. Il termine “Balcani”, non particolarmente apprezzato dalle popolazioni locali, deriva dalla lingua turca e in origine indicava genericamente una catena montuosa. Oggigiorno, con il termine Balcani si fa…

Un insidioso ponte fra Europa ed Asia

“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”. Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha…

Il grido ignorato dei Balcani

 

Conoscere i Balcani significa scoprire un pezzo di Europa che troppo spesso viene considerato lontano ed estraneo, nonostante la vicinanza geografica. Il termine “Balcani”, non particolarmente apprezzato dalle popolazioni locali, deriva dalla lingua turca e in origine indicava genericamente una catena montuosa. Oggigiorno, con il termine Balcani si fa riferimento ad una regione situata ai margini sud orientali del continente europeo, area che da molti decenni è stata spesso caratterizzata da fenomeni di grave crisi ed instabilità sociale e politica. Da sempre infatti la regione è stata teatro di rivolte, scontri e sanguinose guerre tra gli Stati e tra le diverse comunità che vi abitano al loro interno, anche in periodi molto recenti.

Questa regione resta una parte emarginata dell’Europa, sulla quale non viene riposta abbastanza attenzione.

Nei secoli passati, l’area è stata dominata dai turchi ottomani, grazie ai quali le numerose culture presenti coesistevano tra di loro in un clima di stabilità, che ha iniziato tuttavia a vacillare con la caduta dell’Impero e con la conseguente conquista dell’autonomia dei Paesi che ne facevano parte.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, è nato il termine “balcanizzazione”, che si riferiva alla frammentazione dei territori imposta dalle potenze europee trascurando la composizione etnica dell’area.

Elemento che certamente accumula i vari gruppi etnici sono le lingue. Infatti, sebbene le lingue balcaniche derivino da famiglie linguistiche differenti, gli influssi storici della cultura greca e la dominazione turca hanno rappresentato un importante fattore di avvicinamento e di influenza per le varie lingue.

Per “penisola balcanica” oggi si intende l’insieme dei seguenti Stati: Grecia, parte della Turchia (la Tracia orientale), Bulgaria, Romania, Moldavia, le sei ex Repubbliche Jugoslave (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord), Albania e Kosovo.

Non essendo possibile analizzare nel dettaglio tutti gli Stati, verranno trattati soltanto alcuni di essi.

Recentemente, al centro dei dibattiti vi è principalmente il Kosovo. Quest’ultimo è uno dei più piccoli e recenti Stati della regione ed ha una storia molto travagliata. Dopo essersi autoproclamato indipendente dallo Stato serbo nel 1990, Belgrado reagì immediatamente con il pugno di ferro, attraverso attentati, episodi di pulizia etnico-religiosa e atti diretti alla repressione del movimento indipendentista kosovaro (UCK, cioè Ushtria Çlirimtare e Kosovës). Ciò vanificò la dichiarazione di indipendenza del Kosovo.

Nonostante vari tentativi di mettersi al tavolo delle trattative sotto la supervisione delle maggiori potenze mondiali, la situazione non si placò e nel 1999 la NATO inviò 50.000 soldati per assicurare stabilità e sicurezza alla regione, in attesa di un compromesso tra le parti.

Il processo di transizione apertosi allora non è ancora giunto a compimento: tutt’oggi vige il complesso sistema di amministrazione provvisoria dell’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), che assegna ampi poteri a un rappresentante speciale nominato dalle Nazioni Unite, tra le cui prerogative vi è quella di scegliere i giudici e di porre il veto sulle disposizioni di legge adottate dal governo. Sotto la supervisione del Rappresentante Speciale, operano le istituzioni provvisorie di presidenza, Governo e Assemblea parlamentare. Al termine di quasi un decennio di mediazioni fallite, nel febbraio 2008 ilParlamento kosovaro ha deciso di proclamare unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia. Alla scontata reazione di Belgrado (e, immediatamente dopo, di Mosca, sua storica alleata) ha fatto seguito quella della regione settentrionale del Kosovo, a maggioranza serba, che ha proclamato l’istituzione di un Parlamento parallelo, consolidando la propria posizione di semi-autonomia da Priština.

La situazione attuale in Kosovo si inserisce in un contesto già complesso politicamente, sia sul piano interno, che su quello internazionale che di fatto mina l’integrazione tra i Paesi.

In primo luogo, i Balcani risentono di influenze diverse: la Slovenia e la Croazia da sempre appartengono all’orbita occidentale, facendo le stesse parte anche dell’Unione europea, mentre il resto dei Paesi della regione storicamente oscilla tra la sfera d’influenza occidentale e quella russo-turca.

L’Albania e la Macedonia, ad esempio, stanno attuando delle riforme con l’obiettivo di entrare nell’Unione europea.

Tutt’altra linea segue il Montenegro, il quale tende ad avvicinarsi a ideali filo-russi e filo-serbi. Come conseguenza, il Paese non riconosce il Kosovo e il suo processo di adesione all’UE è andato in stallo.

La Serbia invece, in quanto Paese candidato, dovrebbe cercare di allinearsi alla politica estera dell’UE, ma è ancora lontana dal farlo. Disattendere tale aspettativa è una delle conseguenze di una complessa situazione geopolitica del Paese, fortemente diviso tra Est e Ovest, tra la vicinanza politica, culturale e religiosa con Mosca e il desiderio di accedere ai benefici che derivano dall’appartenenza all’Unione europea. Allo stesso modo la Bosnia ed Erzegovina sta cercando di entrare nell’Unione, nonostante si mantenga neutrale e non condanni l’azione militare russa.

I rapporti con l’Unione Europea e gli altri Stati esteri

Storicamente, i Paesi balcanici hanno sempre avuto un ruolo chiave negli scontri tra le varie potenze europee. Con la perdita di centralità del vecchio continente, la preoccupante situazione demografica ed una economia instabile, la regione ha perso la sua storica importanza strategica e ad oggi riveste solo uno scenario secondario, comunque importante, per i contrasti informali tra le potenze odierne.

L’UE è il gigante più vicino: costituisce il maggior partner economico per i Paesi, dominando le importazioni e le esportazioni, stanziando fondi e programmando investimenti, non riuscendo tuttavia a trasformare questo dominio economico in un’influenza politica concreta. Infatti, nonostante Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina siano candidati all’ingresso nell’UE, il processo si è rallentato, principalmente a causa delle varie ingerenze degli Stati membri (ad esempio, solo 22 membri su 27 riconoscono il Kosovo). Ciò alimenta un clima di sfiducia verso l’UE nei Paesi balcanici, rinforzato dalle difficoltà che questa incontra anche sulla gestione di altre questioni; il sogno di un’Europa unita passa decisamente in secondo piano, mentre cresce sempre più la necessità di azioni politiche concrete.

Oltreoceano, gli USA rappresentano i garanti della sicurezza nella regione; tutti i Paesi, ad eccezione della Serbia, hanno un legame più o meno esplicito con la NATO. Essi tendono a non interferire direttamente nelle vicende politiche, se non quando vengono “oltrepassati” certi limiti; in questo caso Washington agisce con prepotenza per ripristinare la situazione.

L’altro grande gigante del Novecento, la Russia, gode di uno storico legame con Belgrado e con le comunità ortodosse della regione. Essa cerca di interferire nella politica facendosi forte delle classi dirigenziali opposte al binomio USA-UE. A livello economico, essa possiede il predominio energetico, controllando i principali gasdotti della regione. Un altro storico partner, la Turchia, è invece il faro delle comunità islamiche, attratte dal suo modello di islam politico e con le quali essa cerca di intrecciare rapporti diplomatici. Nei recenti anni questi due storici partner hanno diversificato i loro rapporti, cercando anche realtà diverse e ottenendo risultati alterni.

Tale scenario lascia aperte molte opportunità di collaborazione e investimento per le potenze mondiali. Un Paese che ha saputo cogliere il potenziale dei Balcani è stata la Cina; entrata nell’area per la via economica, si muove principalmente costruendo rapporti informali con le classi dirigenziali, finanziando e promuovendo la costruzione di numerose infrastrutture nella regione, e, specialmente in Serbia, ha rafforzato la sua popolarità in seguito agli aiuti stanziati per la gestione della pandemia.

Ad oggi, i Balcani rimangono una regione fortemente instabile e tormentata, in costante balìa delle influenze occidentali e orientali, in cui anche i rapporti interni sono complessi. Risulta dunque difficile stabilire come si potrà evolvere questo scenario, ma con buona probabilità saranno le azioni delle grandi potenze ad avere un ruolo chiave nel futuro economico e politico della regione. Una possibile stabilizzazione della situazione si potrà avere solo quando i Paesi balcanici saranno in grado di far risuonare la propria voce e autodeterminarsi. Fondamentale sarà in particolare la capacità di dialogo con le potenze mondiali e di adeguamento agli standard previsti dall’Unione europea, al fine di un futuro ingresso.

Bibliografia e sitografia 

Bonifati Lidia, Conoscere i Balcani: in essi c’è la nostra storia, in Lo Spiegone, 11 settembre 2017, https://lospiegone.com/2017/09/11/conoscere-i-balcani-in-essi-ce-la-nostra-storia/

De Munter André, I Balcani occidentali, Parlamento Europeo, aprile 2023, https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/168/i-balcani-occidentali

Fruscione Giorgio, Balcani: se l’Occidente sbaglia approccio sul dossier kosovaro, Istituto per gli Studi di politica internazionale, 6 settembre 2023, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/balcani-se-loccidente-sbaglia-approccio-sul-dossier-kosovaro-139711

Petrovic Nadan, Balcani: il retaggio storico, la crisi post-Covid e la sfida dell’allargamento, Centro Studi di Politica Internazionale, 6 luglio 2020, https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/dibattiti/la-ue-i-balcani-la-scommessa-dellallargamento/balcani-il-retaggio-storico

La storia dei Balcani, in Il labirinto del Kosovo, a cura di Laurana Lajolo, 28 giugno 1999,  https://www.italia-liberazione.it/novecento/antecedenti.html

Penisola Balcanica, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/penisola-balcanica/

Balcani, Dizionario di Storia, 2010, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/balcani_(Dizionario-di-Storia)/

Kosovo, in Atlante Geopolitico, 2015, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/kosovo_(Atlante-Geopolitico)/

La tormentata storia dei Balcani, Istituto Italiano Edizioni Atlas, 2019, https://youtu.be/J03HVfhKghY

Un insidioso ponte fra Europa ed Asia

“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.

Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.

I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.

La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.

A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.

Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.

L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.

L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))

La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.

Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.

A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.

L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.

Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.

La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Il grido ignorato dei Balcani

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Conoscere i Balcani significa scoprire un pezzo di Europa che troppo spesso viene considerato lontano ed estraneo, nonostante la vicinanza geografica. Il termine “Balcani”, non particolarmente apprezzato dalle popolazioni locali, deriva dalla lingua turca e in origine indicava genericamente una catena montuosa. Oggigiorno, con il termine Balcani si fa riferimento ad una regione situata ai margini sud orientali del continente europeo, area che da molti decenni è stata spesso caratterizzata da fenomeni di grave crisi ed instabilità sociale e politica. Da sempre infatti la regione è stata teatro di rivolte, scontri e sanguinose guerre tra gli Stati e tra le diverse comunità che vi abitano al loro interno, anche in periodi molto recenti.

Questa regione resta una parte emarginata dell’Europa, sulla quale non viene riposta abbastanza attenzione.

Nei secoli passati, l’area è stata dominata dai turchi ottomani, grazie ai quali le numerose culture presenti coesistevano tra di loro in un clima di stabilità, che ha iniziato tuttavia a vacillare con la caduta dell’Impero e con la conseguente conquista dell’autonomia dei Paesi che ne facevano parte.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, è nato il termine “balcanizzazione”, che si riferiva alla frammentazione dei territori imposta dalle potenze europee trascurando la composizione etnica dell’area.

Elemento che certamente accumula i vari gruppi etnici sono le lingue. Infatti, sebbene le lingue balcaniche derivino da famiglie linguistiche differenti, gli influssi storici della cultura greca e la dominazione turca hanno rappresentato un importante fattore di avvicinamento e di influenza per le varie lingue.

Per “penisola balcanica” oggi si intende l’insieme dei seguenti Stati: Grecia, parte della Turchia (la Tracia orientale), Bulgaria, Romania, Moldavia, le sei ex Repubbliche Jugoslave (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord), Albania e Kosovo.

Non essendo possibile analizzare nel dettaglio tutti gli Stati, verranno trattati soltanto alcuni di essi.

Recentemente, al centro dei dibattiti vi è principalmente il Kosovo. Quest’ultimo è uno dei più piccoli e recenti Stati della regione ed ha una storia molto travagliata. Dopo essersi autoproclamato indipendente dallo Stato serbo nel 1990, Belgrado reagì immediatamente con il pugno di ferro, attraverso attentati, episodi di pulizia etnico-religiosa e atti diretti alla repressione del movimento indipendentista kosovaro (UCK, cioè Ushtria Çlirimtare e Kosovës). Ciò vanificò la dichiarazione di indipendenza del Kosovo.

Nonostante vari tentativi di mettersi al tavolo delle trattative sotto la supervisione delle maggiori potenze mondiali, la situazione non si placò e nel 1999 la NATO inviò 50.000 soldati per assicurare stabilità e sicurezza alla regione, in attesa di un compromesso tra le parti.

Il processo di transizione apertosi allora non è ancora giunto a compimento: tutt’oggi vige il complesso sistema di amministrazione provvisoria dell’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), che assegna ampi poteri a un rappresentante speciale nominato dalle Nazioni Unite, tra le cui prerogative vi è quella di scegliere i giudici e di porre il veto sulle disposizioni di legge adottate dal governo. Sotto la supervisione del Rappresentante Speciale, operano le istituzioni provvisorie di presidenza, Governo e Assemblea parlamentare. Al termine di quasi un decennio di mediazioni fallite, nel febbraio 2008 ilParlamento kosovaro ha deciso di proclamare unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia. Alla scontata reazione di Belgrado (e, immediatamente dopo, di Mosca, sua storica alleata) ha fatto seguito quella della regione settentrionale del Kosovo, a maggioranza serba, che ha proclamato l’istituzione di un Parlamento parallelo, consolidando la propria posizione di semi-autonomia da Priština.

La situazione attuale in Kosovo si inserisce in un contesto già complesso politicamente, sia sul piano interno, che su quello internazionale che di fatto mina l’integrazione tra i Paesi.

In primo luogo, i Balcani risentono di influenze diverse: la Slovenia e la Croazia da sempre appartengono all’orbita occidentale, facendo le stesse parte anche dell’Unione europea, mentre il resto dei Paesi della regione storicamente oscilla tra la sfera d’influenza occidentale e quella russo-turca.

L’Albania e la Macedonia, ad esempio, stanno attuando delle riforme con l’obiettivo di entrare nell’Unione europea.

Tutt’altra linea segue il Montenegro, il quale tende ad avvicinarsi a ideali filo-russi e filo-serbi. Come conseguenza, il Paese non riconosce il Kosovo e il suo processo di adesione all’UE è andato in stallo.

La Serbia invece, in quanto Paese candidato, dovrebbe cercare di allinearsi alla politica estera dell’UE, ma è ancora lontana dal farlo. Disattendere tale aspettativa è una delle conseguenze di una complessa situazione geopolitica del Paese, fortemente diviso tra Est e Ovest, tra la vicinanza politica, culturale e religiosa con Mosca e il desiderio di accedere ai benefici che derivano dall’appartenenza all’Unione europea. Allo stesso modo la Bosnia ed Erzegovina sta cercando di entrare nell’Unione, nonostante si mantenga neutrale e non condanni l’azione militare russa.

I rapporti con l’Unione Europea e gli altri Stati esteri

Storicamente, i Paesi balcanici hanno sempre avuto un ruolo chiave negli scontri tra le varie potenze europee. Con la perdita di centralità del vecchio continente, la preoccupante situazione demografica ed una economia instabile, la regione ha perso la sua storica importanza strategica e ad oggi riveste solo uno scenario secondario, comunque importante, per i contrasti informali tra le potenze odierne.

L’UE è il gigante più vicino: costituisce il maggior partner economico per i Paesi, dominando le importazioni e le esportazioni, stanziando fondi e programmando investimenti, non riuscendo tuttavia a trasformare questo dominio economico in un’influenza politica concreta. Infatti, nonostante Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina siano candidati all’ingresso nell’UE, il processo si è rallentato, principalmente a causa delle varie ingerenze degli Stati membri (ad esempio, solo 22 membri su 27 riconoscono il Kosovo). Ciò alimenta un clima di sfiducia verso l’UE nei Paesi balcanici, rinforzato dalle difficoltà che questa incontra anche sulla gestione di altre questioni; il sogno di un’Europa unita passa decisamente in secondo piano, mentre cresce sempre più la necessità di azioni politiche concrete.

Oltreoceano, gli USA rappresentano i garanti della sicurezza nella regione; tutti i Paesi, ad eccezione della Serbia, hanno un legame più o meno esplicito con la NATO. Essi tendono a non interferire direttamente nelle vicende politiche, se non quando vengono “oltrepassati” certi limiti; in questo caso Washington agisce con prepotenza per ripristinare la situazione.

L’altro grande gigante del Novecento, la Russia, gode di uno storico legame con Belgrado e con le comunità ortodosse della regione. Essa cerca di interferire nella politica facendosi forte delle classi dirigenziali opposte al binomio USA-UE. A livello economico, essa possiede il predominio energetico, controllando i principali gasdotti della regione. Un altro storico partner, la Turchia, è invece il faro delle comunità islamiche, attratte dal suo modello di islam politico e con le quali essa cerca di intrecciare rapporti diplomatici. Nei recenti anni questi due storici partner hanno diversificato i loro rapporti, cercando anche realtà diverse e ottenendo risultati alterni.

Tale scenario lascia aperte molte opportunità di collaborazione e investimento per le potenze mondiali. Un Paese che ha saputo cogliere il potenziale dei Balcani è stata la Cina; entrata nell’area per la via economica, si muove principalmente costruendo rapporti informali con le classi dirigenziali, finanziando e promuovendo la costruzione di numerose infrastrutture nella regione, e, specialmente in Serbia, ha rafforzato la sua popolarità in seguito agli aiuti stanziati per la gestione della pandemia.

Ad oggi, i Balcani rimangono una regione fortemente instabile e tormentata, in costante balìa delle influenze occidentali e orientali, in cui anche i rapporti interni sono complessi. Risulta dunque difficile stabilire come si potrà evolvere questo scenario, ma con buona probabilità saranno le azioni delle grandi potenze ad avere un ruolo chiave nel futuro economico e politico della regione. Una possibile stabilizzazione della situazione si potrà avere solo quando i Paesi balcanici saranno in grado di far risuonare la propria voce e autodeterminarsi. Fondamentale sarà in particolare la capacità di dialogo con le potenze mondiali e di adeguamento agli standard previsti dall’Unione europea, al fine di un futuro ingresso.

Bibliografia e sitografia 

Bonifati Lidia, Conoscere i Balcani: in essi c’è la nostra storia, in Lo Spiegone, 11 settembre 2017, https://lospiegone.com/2017/09/11/conoscere-i-balcani-in-essi-ce-la-nostra-storia/

De Munter André, I Balcani occidentali, Parlamento Europeo, aprile 2023, https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/168/i-balcani-occidentali

Fruscione Giorgio, Balcani: se l’Occidente sbaglia approccio sul dossier kosovaro, Istituto per gli Studi di politica internazionale, 6 settembre 2023, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/balcani-se-loccidente-sbaglia-approccio-sul-dossier-kosovaro-139711

Petrovic Nadan, Balcani: il retaggio storico, la crisi post-Covid e la sfida dell’allargamento, Centro Studi di Politica Internazionale, 6 luglio 2020, https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/dibattiti/la-ue-i-balcani-la-scommessa-dellallargamento/balcani-il-retaggio-storico

La storia dei Balcani, in Il labirinto del Kosovo, a cura di Laurana Lajolo, 28 giugno 1999,  https://www.italia-liberazione.it/novecento/antecedenti.html

Penisola Balcanica, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/penisola-balcanica/

Balcani, Dizionario di Storia, 2010, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/balcani_(Dizionario-di-Storia)/

Kosovo, in Atlante Geopolitico, 2015, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/kosovo_(Atlante-Geopolitico)/

La tormentata storia dei Balcani, Istituto Italiano Edizioni Atlas, 2019, https://youtu.be/J03HVfhKghY

“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.

Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.

I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.

La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.

A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.

Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.

L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.

L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))

La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.

Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.

A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.

L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.

Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.

La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Sabato 28 gennaio si è tenuto a Firenze il primo incontro preparatorio al forum di Etica Civile, la cui quarta edizione si svolgerà a Palermo il prossimo novembre. Il tema trattato durante l’evento, che si è svolto nella sala Teatina del “Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, ha riguardato l’esigenza odierna di riscoprire e al contempo riappropriarsi del concetto di “cittadinanza mediterranea” per tutti i popoli che si affacciano nel “Mare Nostrum”.

Si sono susseguite discussioni fra relatori appartenenti a generazioni e culture differenti e sono stati presentati articoli di approfondimento sulla più generale tematica dell’etica civile. L’intervento del professor Gian Maria Piccinelli, in particolare, ha toccato delle corde a noi da sempre molto care.

Piccinelli ha iniziato il suo intervento constatando che la cittadinanza mette necessariamente in gioco le nostre diversità come esseri umani: lo Stato moderno, sviluppatosi in tutto il mondo con risultati molto differenti, deve necessariamente fare i conti con una vasta diversità di culture e religioni.

È proprio in questo contesto che il Mediterraneo deve rappresentare una “città comune”, in grado di coniugare protezione, tranquillità e sicurezza con incontro, relazione, insieme di diversità e dialogo. Le città che vi si affacciano hanno, citando il professor La Pira, una loro anima ed un loro destino, e devono concorrere al bene comune inteso come un progetto condiviso, non come un’imposizione calata dall’alto. Se questa dimensione di progettualità si sfilaccia, le città vivono una crisi, ma anche una partenza per un nuovo corso.

E così il nuovo rinnovamento cui aspirare non può prescindere, secondo Piccinelli, da tre visioni di città:

  • La “città di pietra”: le radici, la cultura, su cui la comunità si fonda. Inoltre il rinnovamento non deve prescindere dall’armonia, intesa come rispetto reciproco da parte dei vari gruppi etnici.
  • La “città delle relazioni”, intesa come luoghi di incontro, scambio (agorà, forum, suk …) nei quali si respira uno spirito neutro di conciliazione fra interessi diversi.
  • La “città dell’anima”, intesa come separazione fra spirito e realtà profane. In questo senso risulta essere importante la separazione fisica delle realtà, che si concretizza nella presenza di un tempio, ovvero un luogo della città strettamente dedicato al culto dell’anima. Allo stesso tempo è fondamentale la separazione spirituale fra sacro e profano, intesa come qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana.

Dunque si pone la domanda di come si possa vivere una cittadinanza mediterranea. Innanzi tutto, è necessario riflettere su cosa si intenda per cittadinanza. La cittadinanza è intesa infatti come un rapporto amministrativo e giuridico fra un cittadino ed uno Stato. In questa definizione, intrinsecamente, vi è la possibilità che la cittadinanza possa svolgere un ruolo di esclusione anziché di inclusione. Può divenire un confine tra i cittadini e i non cittadini, o può discriminare sulla base delle potenzialità di poter effettivamente godere di tutti i benefici della cittadinanza. Infatti, i popoli sono spesso di fronte alla tentazione di dare vita ad una super-cittadinanza, e quindi ad un super-cittadino che ha a disposizione tutti i diritti ed i mezzi economici, culturali, tecnologici per affermarsi. Altri individui, seppur appartenenti alla stessa comunità, vengono di contro esclusi da questi privilegi, e di conseguenza emarginati. Questo fenomeno non può che dare luogo ad un aumento della forbice che divide ricchi e poveri e che tende ad aprirsi asintoticamente. Basti pensare, senza andare lontano, alle abissali differenze nel diritto alla sanità fra nord e sud Italia. In contrapposizione al fenomeno del super-cittadino si è sviluppato, a partire dal secondo dopoguerra, un desiderio di allargare la cittadinanza, di una cittadinanza cosmopolita che possa estendersi al di fuori dei confini degli stati.

La cittadinanza globale però, senza un concreto sforzo, una concreta applicazione nella vita quotidiana, rischia di rimanere un’utopia. Piccinelli sostiene, dunque, che la ricerca concreta di un’apertura della cittadinanza si fondi principalmente sulla volontà degli individui, senza prescindere dallo studio, dalla discussione, dall’incontro. Inoltre, non si potrà parlare di cittadinanza globale finché ci saranno conflitti. Nelle aree di conflitto, spesso, i cittadini chiedono soltanto l’opportunità di avere una vita “normale”, secondo la norma. Esiste quindi uno standard minimo, un modello, secondo cui possa essere definita una cittadinanza “normale”? Il professore risponde a questa domanda, da lui stesso posta, individuando tre categorie imprescindibili alla così detta “norma”:

  • L’uguaglianza, aspetto fondamentale per una presa di coscienza sociale. Tale uguaglianza, intesa come parità di diritti, è necessaria per coltivare il pluralismo e le diversità.
  • La partecipazione, intesa come collaborazione al progetto di bene comune. A questa categoria si contrappone fortemente la tendenza allo sviluppo del super-cittadino.
  • L’accesso alle risorse economiche ed ai servizi, per consentire pari dignità e pari opportunità ai cittadini che fanno parte della comunità.

Il professore è entrato poi nel dettaglio delle culture che si affacciano nel mar Mediterraneo, fra le quali si distinguono le religioni abramitiche. È proprio la figura di Abramo su cui il professor Piccinelli ha voluto, in conclusione, riflettere. Abramo rappresenta, per le religioni del libro, l’esistenza di un orizzonte escatologico comune. Suddividendo di nuovo la riflessione in tre perle, Piccinelli cita tre caratteristiche fondamentali del profeta che possono essere uno stimolo per le nostre comunità.

  • L’accoglienza, l’incontro con lo straniero, la convivenza ed il compromesso per vivere insieme nella diversità.
  • L’intercessione, ovvero la preghiera per lo straniero. Infatti Abramo intercede per Sodoma, emblema della diversità fra pagani e israeliti.
  • La visione e l’ascolto, “Shemà”, ovvero lo sguardo che va oltre ed è capace di vedere la promessa di Dio presente nella storia, qui ed ora.

Questi spunti di riflessione guidano necessariamente ad un desiderio di fare la differenza, un desiderio puro di rendere concreti dei principi così tanto nobili. La sfida quotidiana è quella di coltivare questo desiderio, trasformandolo in azioni e non lasciando che prevalga la tentazione del crederci impotenti.

Nel corso del forum si sono poi susseguiti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, filosofi e studiosi che hanno arricchito la riflessione sulla cittadinanza mediterranea. Particolarmente significativi sono stati anche gli interventi dei giovani presenti che hanno raccontato la propria esperienza di cittadinanza globale e di impegno civile e che si impegnano ogni giorno nell’incontro, nell’ascolto e nell’apertura all’altro.

 

Conoscere i Balcani significa scoprire un pezzo di Europa che troppo spesso viene considerato lontano ed estraneo, nonostante la vicinanza geografica. Il termine “Balcani”, non particolarmente apprezzato dalle popolazioni locali, deriva dalla lingua turca e in origine indicava genericamente una catena montuosa. Oggigiorno, con il termine Balcani si fa riferimento ad una regione situata ai margini sud orientali del continente europeo, area che da molti decenni è stata spesso caratterizzata da fenomeni di grave crisi ed instabilità sociale e politica. Da sempre infatti la regione è stata teatro di rivolte, scontri e sanguinose guerre tra gli Stati e tra le diverse comunità che vi abitano al loro interno, anche in periodi molto recenti.

Questa regione resta una parte emarginata dell’Europa, sulla quale non viene riposta abbastanza attenzione.

Nei secoli passati, l’area è stata dominata dai turchi ottomani, grazie ai quali le numerose culture presenti coesistevano tra di loro in un clima di stabilità, che ha iniziato tuttavia a vacillare con la caduta dell’Impero e con la conseguente conquista dell’autonomia dei Paesi che ne facevano parte.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, è nato il termine “balcanizzazione”, che si riferiva alla frammentazione dei territori imposta dalle potenze europee trascurando la composizione etnica dell’area.

Elemento che certamente accumula i vari gruppi etnici sono le lingue. Infatti, sebbene le lingue balcaniche derivino da famiglie linguistiche differenti, gli influssi storici della cultura greca e la dominazione turca hanno rappresentato un importante fattore di avvicinamento e di influenza per le varie lingue.

Per “penisola balcanica” oggi si intende l’insieme dei seguenti Stati: Grecia, parte della Turchia (la Tracia orientale), Bulgaria, Romania, Moldavia, le sei ex Repubbliche Jugoslave (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord), Albania e Kosovo.

Non essendo possibile analizzare nel dettaglio tutti gli Stati, verranno trattati soltanto alcuni di essi.

Recentemente, al centro dei dibattiti vi è principalmente il Kosovo. Quest’ultimo è uno dei più piccoli e recenti Stati della regione ed ha una storia molto travagliata. Dopo essersi autoproclamato indipendente dallo Stato serbo nel 1990, Belgrado reagì immediatamente con il pugno di ferro, attraverso attentati, episodi di pulizia etnico-religiosa e atti diretti alla repressione del movimento indipendentista kosovaro (UCK, cioè Ushtria Çlirimtare e Kosovës). Ciò vanificò la dichiarazione di indipendenza del Kosovo.

Nonostante vari tentativi di mettersi al tavolo delle trattative sotto la supervisione delle maggiori potenze mondiali, la situazione non si placò e nel 1999 la NATO inviò 50.000 soldati per assicurare stabilità e sicurezza alla regione, in attesa di un compromesso tra le parti.

Il processo di transizione apertosi allora non è ancora giunto a compimento: tutt’oggi vige il complesso sistema di amministrazione provvisoria dell’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), che assegna ampi poteri a un rappresentante speciale nominato dalle Nazioni Unite, tra le cui prerogative vi è quella di scegliere i giudici e di porre il veto sulle disposizioni di legge adottate dal governo. Sotto la supervisione del Rappresentante Speciale, operano le istituzioni provvisorie di presidenza, Governo e Assemblea parlamentare. Al termine di quasi un decennio di mediazioni fallite, nel febbraio 2008 ilParlamento kosovaro ha deciso di proclamare unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia. Alla scontata reazione di Belgrado (e, immediatamente dopo, di Mosca, sua storica alleata) ha fatto seguito quella della regione settentrionale del Kosovo, a maggioranza serba, che ha proclamato l’istituzione di un Parlamento parallelo, consolidando la propria posizione di semi-autonomia da Priština.

La situazione attuale in Kosovo si inserisce in un contesto già complesso politicamente, sia sul piano interno, che su quello internazionale che di fatto mina l’integrazione tra i Paesi.

In primo luogo, i Balcani risentono di influenze diverse: la Slovenia e la Croazia da sempre appartengono all’orbita occidentale, facendo le stesse parte anche dell’Unione europea, mentre il resto dei Paesi della regione storicamente oscilla tra la sfera d’influenza occidentale e quella russo-turca.

L’Albania e la Macedonia, ad esempio, stanno attuando delle riforme con l’obiettivo di entrare nell’Unione europea.

Tutt’altra linea segue il Montenegro, il quale tende ad avvicinarsi a ideali filo-russi e filo-serbi. Come conseguenza, il Paese non riconosce il Kosovo e il suo processo di adesione all’UE è andato in stallo.

La Serbia invece, in quanto Paese candidato, dovrebbe cercare di allinearsi alla politica estera dell’UE, ma è ancora lontana dal farlo. Disattendere tale aspettativa è una delle conseguenze di una complessa situazione geopolitica del Paese, fortemente diviso tra Est e Ovest, tra la vicinanza politica, culturale e religiosa con Mosca e il desiderio di accedere ai benefici che derivano dall’appartenenza all’Unione europea. Allo stesso modo la Bosnia ed Erzegovina sta cercando di entrare nell’Unione, nonostante si mantenga neutrale e non condanni l’azione militare russa.

I rapporti con l’Unione Europea e gli altri Stati esteri

Storicamente, i Paesi balcanici hanno sempre avuto un ruolo chiave negli scontri tra le varie potenze europee. Con la perdita di centralità del vecchio continente, la preoccupante situazione demografica ed una economia instabile, la regione ha perso la sua storica importanza strategica e ad oggi riveste solo uno scenario secondario, comunque importante, per i contrasti informali tra le potenze odierne.

L’UE è il gigante più vicino: costituisce il maggior partner economico per i Paesi, dominando le importazioni e le esportazioni, stanziando fondi e programmando investimenti, non riuscendo tuttavia a trasformare questo dominio economico in un’influenza politica concreta. Infatti, nonostante Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina siano candidati all’ingresso nell’UE, il processo si è rallentato, principalmente a causa delle varie ingerenze degli Stati membri (ad esempio, solo 22 membri su 27 riconoscono il Kosovo). Ciò alimenta un clima di sfiducia verso l’UE nei Paesi balcanici, rinforzato dalle difficoltà che questa incontra anche sulla gestione di altre questioni; il sogno di un’Europa unita passa decisamente in secondo piano, mentre cresce sempre più la necessità di azioni politiche concrete.

Oltreoceano, gli USA rappresentano i garanti della sicurezza nella regione; tutti i Paesi, ad eccezione della Serbia, hanno un legame più o meno esplicito con la NATO. Essi tendono a non interferire direttamente nelle vicende politiche, se non quando vengono “oltrepassati” certi limiti; in questo caso Washington agisce con prepotenza per ripristinare la situazione.

L’altro grande gigante del Novecento, la Russia, gode di uno storico legame con Belgrado e con le comunità ortodosse della regione. Essa cerca di interferire nella politica facendosi forte delle classi dirigenziali opposte al binomio USA-UE. A livello economico, essa possiede il predominio energetico, controllando i principali gasdotti della regione. Un altro storico partner, la Turchia, è invece il faro delle comunità islamiche, attratte dal suo modello di islam politico e con le quali essa cerca di intrecciare rapporti diplomatici. Nei recenti anni questi due storici partner hanno diversificato i loro rapporti, cercando anche realtà diverse e ottenendo risultati alterni.

Tale scenario lascia aperte molte opportunità di collaborazione e investimento per le potenze mondiali. Un Paese che ha saputo cogliere il potenziale dei Balcani è stata la Cina; entrata nell’area per la via economica, si muove principalmente costruendo rapporti informali con le classi dirigenziali, finanziando e promuovendo la costruzione di numerose infrastrutture nella regione, e, specialmente in Serbia, ha rafforzato la sua popolarità in seguito agli aiuti stanziati per la gestione della pandemia.

Ad oggi, i Balcani rimangono una regione fortemente instabile e tormentata, in costante balìa delle influenze occidentali e orientali, in cui anche i rapporti interni sono complessi. Risulta dunque difficile stabilire come si potrà evolvere questo scenario, ma con buona probabilità saranno le azioni delle grandi potenze ad avere un ruolo chiave nel futuro economico e politico della regione. Una possibile stabilizzazione della situazione si potrà avere solo quando i Paesi balcanici saranno in grado di far risuonare la propria voce e autodeterminarsi. Fondamentale sarà in particolare la capacità di dialogo con le potenze mondiali e di adeguamento agli standard previsti dall’Unione europea, al fine di un futuro ingresso.

Bibliografia e sitografia 

Bonifati Lidia, Conoscere i Balcani: in essi c’è la nostra storia, in Lo Spiegone, 11 settembre 2017, https://lospiegone.com/2017/09/11/conoscere-i-balcani-in-essi-ce-la-nostra-storia/

De Munter André, I Balcani occidentali, Parlamento Europeo, aprile 2023, https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/168/i-balcani-occidentali

Fruscione Giorgio, Balcani: se l’Occidente sbaglia approccio sul dossier kosovaro, Istituto per gli Studi di politica internazionale, 6 settembre 2023, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/balcani-se-loccidente-sbaglia-approccio-sul-dossier-kosovaro-139711

Petrovic Nadan, Balcani: il retaggio storico, la crisi post-Covid e la sfida dell’allargamento, Centro Studi di Politica Internazionale, 6 luglio 2020, https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/dibattiti/la-ue-i-balcani-la-scommessa-dellallargamento/balcani-il-retaggio-storico

La storia dei Balcani, in Il labirinto del Kosovo, a cura di Laurana Lajolo, 28 giugno 1999,  https://www.italia-liberazione.it/novecento/antecedenti.html

Penisola Balcanica, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/penisola-balcanica/

Balcani, Dizionario di Storia, 2010, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/balcani_(Dizionario-di-Storia)/

Kosovo, in Atlante Geopolitico, 2015, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/kosovo_(Atlante-Geopolitico)/

La tormentata storia dei Balcani, Istituto Italiano Edizioni Atlas, 2019, https://youtu.be/J03HVfhKghY

“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.

Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.

I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.

La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.

A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.

Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.

L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.

L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))

La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.

Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.

A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.

L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.

Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.

La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Sabato 28 gennaio si è tenuto a Firenze il primo incontro preparatorio al forum di Etica Civile, la cui quarta edizione si svolgerà a Palermo il prossimo novembre. Il tema trattato durante l’evento, che si è svolto nella sala Teatina del “Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, ha riguardato l’esigenza odierna di riscoprire e al contempo riappropriarsi del concetto di “cittadinanza mediterranea” per tutti i popoli che si affacciano nel “Mare Nostrum”.

Si sono susseguite discussioni fra relatori appartenenti a generazioni e culture differenti e sono stati presentati articoli di approfondimento sulla più generale tematica dell’etica civile. L’intervento del professor Gian Maria Piccinelli, in particolare, ha toccato delle corde a noi da sempre molto care.

Piccinelli ha iniziato il suo intervento constatando che la cittadinanza mette necessariamente in gioco le nostre diversità come esseri umani: lo Stato moderno, sviluppatosi in tutto il mondo con risultati molto differenti, deve necessariamente fare i conti con una vasta diversità di culture e religioni.

È proprio in questo contesto che il Mediterraneo deve rappresentare una “città comune”, in grado di coniugare protezione, tranquillità e sicurezza con incontro, relazione, insieme di diversità e dialogo. Le città che vi si affacciano hanno, citando il professor La Pira, una loro anima ed un loro destino, e devono concorrere al bene comune inteso come un progetto condiviso, non come un’imposizione calata dall’alto. Se questa dimensione di progettualità si sfilaccia, le città vivono una crisi, ma anche una partenza per un nuovo corso.

E così il nuovo rinnovamento cui aspirare non può prescindere, secondo Piccinelli, da tre visioni di città:

  • La “città di pietra”: le radici, la cultura, su cui la comunità si fonda. Inoltre il rinnovamento non deve prescindere dall’armonia, intesa come rispetto reciproco da parte dei vari gruppi etnici.
  • La “città delle relazioni”, intesa come luoghi di incontro, scambio (agorà, forum, suk …) nei quali si respira uno spirito neutro di conciliazione fra interessi diversi.
  • La “città dell’anima”, intesa come separazione fra spirito e realtà profane. In questo senso risulta essere importante la separazione fisica delle realtà, che si concretizza nella presenza di un tempio, ovvero un luogo della città strettamente dedicato al culto dell’anima. Allo stesso tempo è fondamentale la separazione spirituale fra sacro e profano, intesa come qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana.

Dunque si pone la domanda di come si possa vivere una cittadinanza mediterranea. Innanzi tutto, è necessario riflettere su cosa si intenda per cittadinanza. La cittadinanza è intesa infatti come un rapporto amministrativo e giuridico fra un cittadino ed uno Stato. In questa definizione, intrinsecamente, vi è la possibilità che la cittadinanza possa svolgere un ruolo di esclusione anziché di inclusione. Può divenire un confine tra i cittadini e i non cittadini, o può discriminare sulla base delle potenzialità di poter effettivamente godere di tutti i benefici della cittadinanza. Infatti, i popoli sono spesso di fronte alla tentazione di dare vita ad una super-cittadinanza, e quindi ad un super-cittadino che ha a disposizione tutti i diritti ed i mezzi economici, culturali, tecnologici per affermarsi. Altri individui, seppur appartenenti alla stessa comunità, vengono di contro esclusi da questi privilegi, e di conseguenza emarginati. Questo fenomeno non può che dare luogo ad un aumento della forbice che divide ricchi e poveri e che tende ad aprirsi asintoticamente. Basti pensare, senza andare lontano, alle abissali differenze nel diritto alla sanità fra nord e sud Italia. In contrapposizione al fenomeno del super-cittadino si è sviluppato, a partire dal secondo dopoguerra, un desiderio di allargare la cittadinanza, di una cittadinanza cosmopolita che possa estendersi al di fuori dei confini degli stati.

La cittadinanza globale però, senza un concreto sforzo, una concreta applicazione nella vita quotidiana, rischia di rimanere un’utopia. Piccinelli sostiene, dunque, che la ricerca concreta di un’apertura della cittadinanza si fondi principalmente sulla volontà degli individui, senza prescindere dallo studio, dalla discussione, dall’incontro. Inoltre, non si potrà parlare di cittadinanza globale finché ci saranno conflitti. Nelle aree di conflitto, spesso, i cittadini chiedono soltanto l’opportunità di avere una vita “normale”, secondo la norma. Esiste quindi uno standard minimo, un modello, secondo cui possa essere definita una cittadinanza “normale”? Il professore risponde a questa domanda, da lui stesso posta, individuando tre categorie imprescindibili alla così detta “norma”:

  • L’uguaglianza, aspetto fondamentale per una presa di coscienza sociale. Tale uguaglianza, intesa come parità di diritti, è necessaria per coltivare il pluralismo e le diversità.
  • La partecipazione, intesa come collaborazione al progetto di bene comune. A questa categoria si contrappone fortemente la tendenza allo sviluppo del super-cittadino.
  • L’accesso alle risorse economiche ed ai servizi, per consentire pari dignità e pari opportunità ai cittadini che fanno parte della comunità.

Il professore è entrato poi nel dettaglio delle culture che si affacciano nel mar Mediterraneo, fra le quali si distinguono le religioni abramitiche. È proprio la figura di Abramo su cui il professor Piccinelli ha voluto, in conclusione, riflettere. Abramo rappresenta, per le religioni del libro, l’esistenza di un orizzonte escatologico comune. Suddividendo di nuovo la riflessione in tre perle, Piccinelli cita tre caratteristiche fondamentali del profeta che possono essere uno stimolo per le nostre comunità.

  • L’accoglienza, l’incontro con lo straniero, la convivenza ed il compromesso per vivere insieme nella diversità.
  • L’intercessione, ovvero la preghiera per lo straniero. Infatti Abramo intercede per Sodoma, emblema della diversità fra pagani e israeliti.
  • La visione e l’ascolto, “Shemà”, ovvero lo sguardo che va oltre ed è capace di vedere la promessa di Dio presente nella storia, qui ed ora.

Questi spunti di riflessione guidano necessariamente ad un desiderio di fare la differenza, un desiderio puro di rendere concreti dei principi così tanto nobili. La sfida quotidiana è quella di coltivare questo desiderio, trasformandolo in azioni e non lasciando che prevalga la tentazione del crederci impotenti.

Nel corso del forum si sono poi susseguiti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, filosofi e studiosi che hanno arricchito la riflessione sulla cittadinanza mediterranea. Particolarmente significativi sono stati anche gli interventi dei giovani presenti che hanno raccontato la propria esperienza di cittadinanza globale e di impegno civile e che si impegnano ogni giorno nell’incontro, nell’ascolto e nell’apertura all’altro.

 

Conoscere i Balcani significa scoprire un pezzo di Europa che troppo spesso viene considerato lontano ed estraneo, nonostante la vicinanza geografica. Il termine “Balcani”, non particolarmente apprezzato dalle popolazioni locali, deriva dalla lingua turca e in origine indicava genericamente una catena montuosa. Oggigiorno, con il termine Balcani si fa riferimento ad una regione situata ai margini sud orientali del continente europeo, area che da molti decenni è stata spesso caratterizzata da fenomeni di grave crisi ed instabilità sociale e politica. Da sempre infatti la regione è stata teatro di rivolte, scontri e sanguinose guerre tra gli Stati e tra le diverse comunità che vi abitano al loro interno, anche in periodi molto recenti.

Questa regione resta una parte emarginata dell’Europa, sulla quale non viene riposta abbastanza attenzione.

Nei secoli passati, l’area è stata dominata dai turchi ottomani, grazie ai quali le numerose culture presenti coesistevano tra di loro in un clima di stabilità, che ha iniziato tuttavia a vacillare con la caduta dell’Impero e con la conseguente conquista dell’autonomia dei Paesi che ne facevano parte.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, è nato il termine “balcanizzazione”, che si riferiva alla frammentazione dei territori imposta dalle potenze europee trascurando la composizione etnica dell’area.

Elemento che certamente accumula i vari gruppi etnici sono le lingue. Infatti, sebbene le lingue balcaniche derivino da famiglie linguistiche differenti, gli influssi storici della cultura greca e la dominazione turca hanno rappresentato un importante fattore di avvicinamento e di influenza per le varie lingue.

Per “penisola balcanica” oggi si intende l’insieme dei seguenti Stati: Grecia, parte della Turchia (la Tracia orientale), Bulgaria, Romania, Moldavia, le sei ex Repubbliche Jugoslave (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord), Albania e Kosovo.

Non essendo possibile analizzare nel dettaglio tutti gli Stati, verranno trattati soltanto alcuni di essi.

Recentemente, al centro dei dibattiti vi è principalmente il Kosovo. Quest’ultimo è uno dei più piccoli e recenti Stati della regione ed ha una storia molto travagliata. Dopo essersi autoproclamato indipendente dallo Stato serbo nel 1990, Belgrado reagì immediatamente con il pugno di ferro, attraverso attentati, episodi di pulizia etnico-religiosa e atti diretti alla repressione del movimento indipendentista kosovaro (UCK, cioè Ushtria Çlirimtare e Kosovës). Ciò vanificò la dichiarazione di indipendenza del Kosovo.

Nonostante vari tentativi di mettersi al tavolo delle trattative sotto la supervisione delle maggiori potenze mondiali, la situazione non si placò e nel 1999 la NATO inviò 50.000 soldati per assicurare stabilità e sicurezza alla regione, in attesa di un compromesso tra le parti.

Il processo di transizione apertosi allora non è ancora giunto a compimento: tutt’oggi vige il complesso sistema di amministrazione provvisoria dell’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), che assegna ampi poteri a un rappresentante speciale nominato dalle Nazioni Unite, tra le cui prerogative vi è quella di scegliere i giudici e di porre il veto sulle disposizioni di legge adottate dal governo. Sotto la supervisione del Rappresentante Speciale, operano le istituzioni provvisorie di presidenza, Governo e Assemblea parlamentare. Al termine di quasi un decennio di mediazioni fallite, nel febbraio 2008 ilParlamento kosovaro ha deciso di proclamare unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia. Alla scontata reazione di Belgrado (e, immediatamente dopo, di Mosca, sua storica alleata) ha fatto seguito quella della regione settentrionale del Kosovo, a maggioranza serba, che ha proclamato l’istituzione di un Parlamento parallelo, consolidando la propria posizione di semi-autonomia da Priština.

La situazione attuale in Kosovo si inserisce in un contesto già complesso politicamente, sia sul piano interno, che su quello internazionale che di fatto mina l’integrazione tra i Paesi.

In primo luogo, i Balcani risentono di influenze diverse: la Slovenia e la Croazia da sempre appartengono all’orbita occidentale, facendo le stesse parte anche dell’Unione europea, mentre il resto dei Paesi della regione storicamente oscilla tra la sfera d’influenza occidentale e quella russo-turca.

L’Albania e la Macedonia, ad esempio, stanno attuando delle riforme con l’obiettivo di entrare nell’Unione europea.

Tutt’altra linea segue il Montenegro, il quale tende ad avvicinarsi a ideali filo-russi e filo-serbi. Come conseguenza, il Paese non riconosce il Kosovo e il suo processo di adesione all’UE è andato in stallo.

La Serbia invece, in quanto Paese candidato, dovrebbe cercare di allinearsi alla politica estera dell’UE, ma è ancora lontana dal farlo. Disattendere tale aspettativa è una delle conseguenze di una complessa situazione geopolitica del Paese, fortemente diviso tra Est e Ovest, tra la vicinanza politica, culturale e religiosa con Mosca e il desiderio di accedere ai benefici che derivano dall’appartenenza all’Unione europea. Allo stesso modo la Bosnia ed Erzegovina sta cercando di entrare nell’Unione, nonostante si mantenga neutrale e non condanni l’azione militare russa.

I rapporti con l’Unione Europea e gli altri Stati esteri

Storicamente, i Paesi balcanici hanno sempre avuto un ruolo chiave negli scontri tra le varie potenze europee. Con la perdita di centralità del vecchio continente, la preoccupante situazione demografica ed una economia instabile, la regione ha perso la sua storica importanza strategica e ad oggi riveste solo uno scenario secondario, comunque importante, per i contrasti informali tra le potenze odierne.

L’UE è il gigante più vicino: costituisce il maggior partner economico per i Paesi, dominando le importazioni e le esportazioni, stanziando fondi e programmando investimenti, non riuscendo tuttavia a trasformare questo dominio economico in un’influenza politica concreta. Infatti, nonostante Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina siano candidati all’ingresso nell’UE, il processo si è rallentato, principalmente a causa delle varie ingerenze degli Stati membri (ad esempio, solo 22 membri su 27 riconoscono il Kosovo). Ciò alimenta un clima di sfiducia verso l’UE nei Paesi balcanici, rinforzato dalle difficoltà che questa incontra anche sulla gestione di altre questioni; il sogno di un’Europa unita passa decisamente in secondo piano, mentre cresce sempre più la necessità di azioni politiche concrete.

Oltreoceano, gli USA rappresentano i garanti della sicurezza nella regione; tutti i Paesi, ad eccezione della Serbia, hanno un legame più o meno esplicito con la NATO. Essi tendono a non interferire direttamente nelle vicende politiche, se non quando vengono “oltrepassati” certi limiti; in questo caso Washington agisce con prepotenza per ripristinare la situazione.

L’altro grande gigante del Novecento, la Russia, gode di uno storico legame con Belgrado e con le comunità ortodosse della regione. Essa cerca di interferire nella politica facendosi forte delle classi dirigenziali opposte al binomio USA-UE. A livello economico, essa possiede il predominio energetico, controllando i principali gasdotti della regione. Un altro storico partner, la Turchia, è invece il faro delle comunità islamiche, attratte dal suo modello di islam politico e con le quali essa cerca di intrecciare rapporti diplomatici. Nei recenti anni questi due storici partner hanno diversificato i loro rapporti, cercando anche realtà diverse e ottenendo risultati alterni.

Tale scenario lascia aperte molte opportunità di collaborazione e investimento per le potenze mondiali. Un Paese che ha saputo cogliere il potenziale dei Balcani è stata la Cina; entrata nell’area per la via economica, si muove principalmente costruendo rapporti informali con le classi dirigenziali, finanziando e promuovendo la costruzione di numerose infrastrutture nella regione, e, specialmente in Serbia, ha rafforzato la sua popolarità in seguito agli aiuti stanziati per la gestione della pandemia.

Ad oggi, i Balcani rimangono una regione fortemente instabile e tormentata, in costante balìa delle influenze occidentali e orientali, in cui anche i rapporti interni sono complessi. Risulta dunque difficile stabilire come si potrà evolvere questo scenario, ma con buona probabilità saranno le azioni delle grandi potenze ad avere un ruolo chiave nel futuro economico e politico della regione. Una possibile stabilizzazione della situazione si potrà avere solo quando i Paesi balcanici saranno in grado di far risuonare la propria voce e autodeterminarsi. Fondamentale sarà in particolare la capacità di dialogo con le potenze mondiali e di adeguamento agli standard previsti dall’Unione europea, al fine di un futuro ingresso.

Bibliografia e sitografia 

Bonifati Lidia, Conoscere i Balcani: in essi c’è la nostra storia, in Lo Spiegone, 11 settembre 2017, https://lospiegone.com/2017/09/11/conoscere-i-balcani-in-essi-ce-la-nostra-storia/

De Munter André, I Balcani occidentali, Parlamento Europeo, aprile 2023, https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/168/i-balcani-occidentali

Fruscione Giorgio, Balcani: se l’Occidente sbaglia approccio sul dossier kosovaro, Istituto per gli Studi di politica internazionale, 6 settembre 2023, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/balcani-se-loccidente-sbaglia-approccio-sul-dossier-kosovaro-139711

Petrovic Nadan, Balcani: il retaggio storico, la crisi post-Covid e la sfida dell’allargamento, Centro Studi di Politica Internazionale, 6 luglio 2020, https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/dibattiti/la-ue-i-balcani-la-scommessa-dellallargamento/balcani-il-retaggio-storico

La storia dei Balcani, in Il labirinto del Kosovo, a cura di Laurana Lajolo, 28 giugno 1999,  https://www.italia-liberazione.it/novecento/antecedenti.html

Penisola Balcanica, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/penisola-balcanica/

Balcani, Dizionario di Storia, 2010, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/balcani_(Dizionario-di-Storia)/

Kosovo, in Atlante Geopolitico, 2015, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/kosovo_(Atlante-Geopolitico)/

La tormentata storia dei Balcani, Istituto Italiano Edizioni Atlas, 2019, https://youtu.be/J03HVfhKghY

“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.

Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.

I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.

La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.

A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.

Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.

L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.

L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))

La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.

Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.

A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.

L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.

Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.

La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Sabato 28 gennaio si è tenuto a Firenze il primo incontro preparatorio al forum di Etica Civile, la cui quarta edizione si svolgerà a Palermo il prossimo novembre. Il tema trattato durante l’evento, che si è svolto nella sala Teatina del “Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, ha riguardato l’esigenza odierna di riscoprire e al contempo riappropriarsi del concetto di “cittadinanza mediterranea” per tutti i popoli che si affacciano nel “Mare Nostrum”.

Si sono susseguite discussioni fra relatori appartenenti a generazioni e culture differenti e sono stati presentati articoli di approfondimento sulla più generale tematica dell’etica civile. L’intervento del professor Gian Maria Piccinelli, in particolare, ha toccato delle corde a noi da sempre molto care.

Piccinelli ha iniziato il suo intervento constatando che la cittadinanza mette necessariamente in gioco le nostre diversità come esseri umani: lo Stato moderno, sviluppatosi in tutto il mondo con risultati molto differenti, deve necessariamente fare i conti con una vasta diversità di culture e religioni.

È proprio in questo contesto che il Mediterraneo deve rappresentare una “città comune”, in grado di coniugare protezione, tranquillità e sicurezza con incontro, relazione, insieme di diversità e dialogo. Le città che vi si affacciano hanno, citando il professor La Pira, una loro anima ed un loro destino, e devono concorrere al bene comune inteso come un progetto condiviso, non come un’imposizione calata dall’alto. Se questa dimensione di progettualità si sfilaccia, le città vivono una crisi, ma anche una partenza per un nuovo corso.

E così il nuovo rinnovamento cui aspirare non può prescindere, secondo Piccinelli, da tre visioni di città:

  • La “città di pietra”: le radici, la cultura, su cui la comunità si fonda. Inoltre il rinnovamento non deve prescindere dall’armonia, intesa come rispetto reciproco da parte dei vari gruppi etnici.
  • La “città delle relazioni”, intesa come luoghi di incontro, scambio (agorà, forum, suk …) nei quali si respira uno spirito neutro di conciliazione fra interessi diversi.
  • La “città dell’anima”, intesa come separazione fra spirito e realtà profane. In questo senso risulta essere importante la separazione fisica delle realtà, che si concretizza nella presenza di un tempio, ovvero un luogo della città strettamente dedicato al culto dell’anima. Allo stesso tempo è fondamentale la separazione spirituale fra sacro e profano, intesa come qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana.

Dunque si pone la domanda di come si possa vivere una cittadinanza mediterranea. Innanzi tutto, è necessario riflettere su cosa si intenda per cittadinanza. La cittadinanza è intesa infatti come un rapporto amministrativo e giuridico fra un cittadino ed uno Stato. In questa definizione, intrinsecamente, vi è la possibilità che la cittadinanza possa svolgere un ruolo di esclusione anziché di inclusione. Può divenire un confine tra i cittadini e i non cittadini, o può discriminare sulla base delle potenzialità di poter effettivamente godere di tutti i benefici della cittadinanza. Infatti, i popoli sono spesso di fronte alla tentazione di dare vita ad una super-cittadinanza, e quindi ad un super-cittadino che ha a disposizione tutti i diritti ed i mezzi economici, culturali, tecnologici per affermarsi. Altri individui, seppur appartenenti alla stessa comunità, vengono di contro esclusi da questi privilegi, e di conseguenza emarginati. Questo fenomeno non può che dare luogo ad un aumento della forbice che divide ricchi e poveri e che tende ad aprirsi asintoticamente. Basti pensare, senza andare lontano, alle abissali differenze nel diritto alla sanità fra nord e sud Italia. In contrapposizione al fenomeno del super-cittadino si è sviluppato, a partire dal secondo dopoguerra, un desiderio di allargare la cittadinanza, di una cittadinanza cosmopolita che possa estendersi al di fuori dei confini degli stati.

La cittadinanza globale però, senza un concreto sforzo, una concreta applicazione nella vita quotidiana, rischia di rimanere un’utopia. Piccinelli sostiene, dunque, che la ricerca concreta di un’apertura della cittadinanza si fondi principalmente sulla volontà degli individui, senza prescindere dallo studio, dalla discussione, dall’incontro. Inoltre, non si potrà parlare di cittadinanza globale finché ci saranno conflitti. Nelle aree di conflitto, spesso, i cittadini chiedono soltanto l’opportunità di avere una vita “normale”, secondo la norma. Esiste quindi uno standard minimo, un modello, secondo cui possa essere definita una cittadinanza “normale”? Il professore risponde a questa domanda, da lui stesso posta, individuando tre categorie imprescindibili alla così detta “norma”:

  • L’uguaglianza, aspetto fondamentale per una presa di coscienza sociale. Tale uguaglianza, intesa come parità di diritti, è necessaria per coltivare il pluralismo e le diversità.
  • La partecipazione, intesa come collaborazione al progetto di bene comune. A questa categoria si contrappone fortemente la tendenza allo sviluppo del super-cittadino.
  • L’accesso alle risorse economiche ed ai servizi, per consentire pari dignità e pari opportunità ai cittadini che fanno parte della comunità.

Il professore è entrato poi nel dettaglio delle culture che si affacciano nel mar Mediterraneo, fra le quali si distinguono le religioni abramitiche. È proprio la figura di Abramo su cui il professor Piccinelli ha voluto, in conclusione, riflettere. Abramo rappresenta, per le religioni del libro, l’esistenza di un orizzonte escatologico comune. Suddividendo di nuovo la riflessione in tre perle, Piccinelli cita tre caratteristiche fondamentali del profeta che possono essere uno stimolo per le nostre comunità.

  • L’accoglienza, l’incontro con lo straniero, la convivenza ed il compromesso per vivere insieme nella diversità.
  • L’intercessione, ovvero la preghiera per lo straniero. Infatti Abramo intercede per Sodoma, emblema della diversità fra pagani e israeliti.
  • La visione e l’ascolto, “Shemà”, ovvero lo sguardo che va oltre ed è capace di vedere la promessa di Dio presente nella storia, qui ed ora.

Questi spunti di riflessione guidano necessariamente ad un desiderio di fare la differenza, un desiderio puro di rendere concreti dei principi così tanto nobili. La sfida quotidiana è quella di coltivare questo desiderio, trasformandolo in azioni e non lasciando che prevalga la tentazione del crederci impotenti.

Nel corso del forum si sono poi susseguiti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, filosofi e studiosi che hanno arricchito la riflessione sulla cittadinanza mediterranea. Particolarmente significativi sono stati anche gli interventi dei giovani presenti che hanno raccontato la propria esperienza di cittadinanza globale e di impegno civile e che si impegnano ogni giorno nell’incontro, nell’ascolto e nell’apertura all’altro.

 

Conoscere i Balcani significa scoprire un pezzo di Europa che troppo spesso viene considerato lontano ed estraneo, nonostante la vicinanza geografica. Il termine “Balcani”, non particolarmente apprezzato dalle popolazioni locali, deriva dalla lingua turca e in origine indicava genericamente una catena montuosa. Oggigiorno, con il termine Balcani si fa riferimento ad una regione situata ai margini sud orientali del continente europeo, area che da molti decenni è stata spesso caratterizzata da fenomeni di grave crisi ed instabilità sociale e politica. Da sempre infatti la regione è stata teatro di rivolte, scontri e sanguinose guerre tra gli Stati e tra le diverse comunità che vi abitano al loro interno, anche in periodi molto recenti.

Questa regione resta una parte emarginata dell’Europa, sulla quale non viene riposta abbastanza attenzione.

Nei secoli passati, l’area è stata dominata dai turchi ottomani, grazie ai quali le numerose culture presenti coesistevano tra di loro in un clima di stabilità, che ha iniziato tuttavia a vacillare con la caduta dell’Impero e con la conseguente conquista dell’autonomia dei Paesi che ne facevano parte.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, è nato il termine “balcanizzazione”, che si riferiva alla frammentazione dei territori imposta dalle potenze europee trascurando la composizione etnica dell’area.

Elemento che certamente accumula i vari gruppi etnici sono le lingue. Infatti, sebbene le lingue balcaniche derivino da famiglie linguistiche differenti, gli influssi storici della cultura greca e la dominazione turca hanno rappresentato un importante fattore di avvicinamento e di influenza per le varie lingue.

Per “penisola balcanica” oggi si intende l’insieme dei seguenti Stati: Grecia, parte della Turchia (la Tracia orientale), Bulgaria, Romania, Moldavia, le sei ex Repubbliche Jugoslave (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord), Albania e Kosovo.

Non essendo possibile analizzare nel dettaglio tutti gli Stati, verranno trattati soltanto alcuni di essi.

Recentemente, al centro dei dibattiti vi è principalmente il Kosovo. Quest’ultimo è uno dei più piccoli e recenti Stati della regione ed ha una storia molto travagliata. Dopo essersi autoproclamato indipendente dallo Stato serbo nel 1990, Belgrado reagì immediatamente con il pugno di ferro, attraverso attentati, episodi di pulizia etnico-religiosa e atti diretti alla repressione del movimento indipendentista kosovaro (UCK, cioè Ushtria Çlirimtare e Kosovës). Ciò vanificò la dichiarazione di indipendenza del Kosovo.

Nonostante vari tentativi di mettersi al tavolo delle trattative sotto la supervisione delle maggiori potenze mondiali, la situazione non si placò e nel 1999 la NATO inviò 50.000 soldati per assicurare stabilità e sicurezza alla regione, in attesa di un compromesso tra le parti.

Il processo di transizione apertosi allora non è ancora giunto a compimento: tutt’oggi vige il complesso sistema di amministrazione provvisoria dell’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), che assegna ampi poteri a un rappresentante speciale nominato dalle Nazioni Unite, tra le cui prerogative vi è quella di scegliere i giudici e di porre il veto sulle disposizioni di legge adottate dal governo. Sotto la supervisione del Rappresentante Speciale, operano le istituzioni provvisorie di presidenza, Governo e Assemblea parlamentare. Al termine di quasi un decennio di mediazioni fallite, nel febbraio 2008 ilParlamento kosovaro ha deciso di proclamare unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia. Alla scontata reazione di Belgrado (e, immediatamente dopo, di Mosca, sua storica alleata) ha fatto seguito quella della regione settentrionale del Kosovo, a maggioranza serba, che ha proclamato l’istituzione di un Parlamento parallelo, consolidando la propria posizione di semi-autonomia da Priština.

La situazione attuale in Kosovo si inserisce in un contesto già complesso politicamente, sia sul piano interno, che su quello internazionale che di fatto mina l’integrazione tra i Paesi.

In primo luogo, i Balcani risentono di influenze diverse: la Slovenia e la Croazia da sempre appartengono all’orbita occidentale, facendo le stesse parte anche dell’Unione europea, mentre il resto dei Paesi della regione storicamente oscilla tra la sfera d’influenza occidentale e quella russo-turca.

L’Albania e la Macedonia, ad esempio, stanno attuando delle riforme con l’obiettivo di entrare nell’Unione europea.

Tutt’altra linea segue il Montenegro, il quale tende ad avvicinarsi a ideali filo-russi e filo-serbi. Come conseguenza, il Paese non riconosce il Kosovo e il suo processo di adesione all’UE è andato in stallo.

La Serbia invece, in quanto Paese candidato, dovrebbe cercare di allinearsi alla politica estera dell’UE, ma è ancora lontana dal farlo. Disattendere tale aspettativa è una delle conseguenze di una complessa situazione geopolitica del Paese, fortemente diviso tra Est e Ovest, tra la vicinanza politica, culturale e religiosa con Mosca e il desiderio di accedere ai benefici che derivano dall’appartenenza all’Unione europea. Allo stesso modo la Bosnia ed Erzegovina sta cercando di entrare nell’Unione, nonostante si mantenga neutrale e non condanni l’azione militare russa.

I rapporti con l’Unione Europea e gli altri Stati esteri

Storicamente, i Paesi balcanici hanno sempre avuto un ruolo chiave negli scontri tra le varie potenze europee. Con la perdita di centralità del vecchio continente, la preoccupante situazione demografica ed una economia instabile, la regione ha perso la sua storica importanza strategica e ad oggi riveste solo uno scenario secondario, comunque importante, per i contrasti informali tra le potenze odierne.

L’UE è il gigante più vicino: costituisce il maggior partner economico per i Paesi, dominando le importazioni e le esportazioni, stanziando fondi e programmando investimenti, non riuscendo tuttavia a trasformare questo dominio economico in un’influenza politica concreta. Infatti, nonostante Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina siano candidati all’ingresso nell’UE, il processo si è rallentato, principalmente a causa delle varie ingerenze degli Stati membri (ad esempio, solo 22 membri su 27 riconoscono il Kosovo). Ciò alimenta un clima di sfiducia verso l’UE nei Paesi balcanici, rinforzato dalle difficoltà che questa incontra anche sulla gestione di altre questioni; il sogno di un’Europa unita passa decisamente in secondo piano, mentre cresce sempre più la necessità di azioni politiche concrete.

Oltreoceano, gli USA rappresentano i garanti della sicurezza nella regione; tutti i Paesi, ad eccezione della Serbia, hanno un legame più o meno esplicito con la NATO. Essi tendono a non interferire direttamente nelle vicende politiche, se non quando vengono “oltrepassati” certi limiti; in questo caso Washington agisce con prepotenza per ripristinare la situazione.

L’altro grande gigante del Novecento, la Russia, gode di uno storico legame con Belgrado e con le comunità ortodosse della regione. Essa cerca di interferire nella politica facendosi forte delle classi dirigenziali opposte al binomio USA-UE. A livello economico, essa possiede il predominio energetico, controllando i principali gasdotti della regione. Un altro storico partner, la Turchia, è invece il faro delle comunità islamiche, attratte dal suo modello di islam politico e con le quali essa cerca di intrecciare rapporti diplomatici. Nei recenti anni questi due storici partner hanno diversificato i loro rapporti, cercando anche realtà diverse e ottenendo risultati alterni.

Tale scenario lascia aperte molte opportunità di collaborazione e investimento per le potenze mondiali. Un Paese che ha saputo cogliere il potenziale dei Balcani è stata la Cina; entrata nell’area per la via economica, si muove principalmente costruendo rapporti informali con le classi dirigenziali, finanziando e promuovendo la costruzione di numerose infrastrutture nella regione, e, specialmente in Serbia, ha rafforzato la sua popolarità in seguito agli aiuti stanziati per la gestione della pandemia.

Ad oggi, i Balcani rimangono una regione fortemente instabile e tormentata, in costante balìa delle influenze occidentali e orientali, in cui anche i rapporti interni sono complessi. Risulta dunque difficile stabilire come si potrà evolvere questo scenario, ma con buona probabilità saranno le azioni delle grandi potenze ad avere un ruolo chiave nel futuro economico e politico della regione. Una possibile stabilizzazione della situazione si potrà avere solo quando i Paesi balcanici saranno in grado di far risuonare la propria voce e autodeterminarsi. Fondamentale sarà in particolare la capacità di dialogo con le potenze mondiali e di adeguamento agli standard previsti dall’Unione europea, al fine di un futuro ingresso.

Bibliografia e sitografia 

Bonifati Lidia, Conoscere i Balcani: in essi c’è la nostra storia, in Lo Spiegone, 11 settembre 2017, https://lospiegone.com/2017/09/11/conoscere-i-balcani-in-essi-ce-la-nostra-storia/

De Munter André, I Balcani occidentali, Parlamento Europeo, aprile 2023, https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/168/i-balcani-occidentali

Fruscione Giorgio, Balcani: se l’Occidente sbaglia approccio sul dossier kosovaro, Istituto per gli Studi di politica internazionale, 6 settembre 2023, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/balcani-se-loccidente-sbaglia-approccio-sul-dossier-kosovaro-139711

Petrovic Nadan, Balcani: il retaggio storico, la crisi post-Covid e la sfida dell’allargamento, Centro Studi di Politica Internazionale, 6 luglio 2020, https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/dibattiti/la-ue-i-balcani-la-scommessa-dellallargamento/balcani-il-retaggio-storico

La storia dei Balcani, in Il labirinto del Kosovo, a cura di Laurana Lajolo, 28 giugno 1999,  https://www.italia-liberazione.it/novecento/antecedenti.html

Penisola Balcanica, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/penisola-balcanica/

Balcani, Dizionario di Storia, 2010, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/balcani_(Dizionario-di-Storia)/

Kosovo, in Atlante Geopolitico, 2015, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/kosovo_(Atlante-Geopolitico)/

La tormentata storia dei Balcani, Istituto Italiano Edizioni Atlas, 2019, https://youtu.be/J03HVfhKghY

“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.

Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.

I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.

La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.

A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.

Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.

L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.

L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))

La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.

Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.

A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.

L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.

Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.

La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Sabato 28 gennaio si è tenuto a Firenze il primo incontro preparatorio al forum di Etica Civile, la cui quarta edizione si svolgerà a Palermo il prossimo novembre. Il tema trattato durante l’evento, che si è svolto nella sala Teatina del “Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, ha riguardato l’esigenza odierna di riscoprire e al contempo riappropriarsi del concetto di “cittadinanza mediterranea” per tutti i popoli che si affacciano nel “Mare Nostrum”.

Si sono susseguite discussioni fra relatori appartenenti a generazioni e culture differenti e sono stati presentati articoli di approfondimento sulla più generale tematica dell’etica civile. L’intervento del professor Gian Maria Piccinelli, in particolare, ha toccato delle corde a noi da sempre molto care.

Piccinelli ha iniziato il suo intervento constatando che la cittadinanza mette necessariamente in gioco le nostre diversità come esseri umani: lo Stato moderno, sviluppatosi in tutto il mondo con risultati molto differenti, deve necessariamente fare i conti con una vasta diversità di culture e religioni.

È proprio in questo contesto che il Mediterraneo deve rappresentare una “città comune”, in grado di coniugare protezione, tranquillità e sicurezza con incontro, relazione, insieme di diversità e dialogo. Le città che vi si affacciano hanno, citando il professor La Pira, una loro anima ed un loro destino, e devono concorrere al bene comune inteso come un progetto condiviso, non come un’imposizione calata dall’alto. Se questa dimensione di progettualità si sfilaccia, le città vivono una crisi, ma anche una partenza per un nuovo corso.

E così il nuovo rinnovamento cui aspirare non può prescindere, secondo Piccinelli, da tre visioni di città:

  • La “città di pietra”: le radici, la cultura, su cui la comunità si fonda. Inoltre il rinnovamento non deve prescindere dall’armonia, intesa come rispetto reciproco da parte dei vari gruppi etnici.
  • La “città delle relazioni”, intesa come luoghi di incontro, scambio (agorà, forum, suk …) nei quali si respira uno spirito neutro di conciliazione fra interessi diversi.
  • La “città dell’anima”, intesa come separazione fra spirito e realtà profane. In questo senso risulta essere importante la separazione fisica delle realtà, che si concretizza nella presenza di un tempio, ovvero un luogo della città strettamente dedicato al culto dell’anima. Allo stesso tempo è fondamentale la separazione spirituale fra sacro e profano, intesa come qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana.

Dunque si pone la domanda di come si possa vivere una cittadinanza mediterranea. Innanzi tutto, è necessario riflettere su cosa si intenda per cittadinanza. La cittadinanza è intesa infatti come un rapporto amministrativo e giuridico fra un cittadino ed uno Stato. In questa definizione, intrinsecamente, vi è la possibilità che la cittadinanza possa svolgere un ruolo di esclusione anziché di inclusione. Può divenire un confine tra i cittadini e i non cittadini, o può discriminare sulla base delle potenzialità di poter effettivamente godere di tutti i benefici della cittadinanza. Infatti, i popoli sono spesso di fronte alla tentazione di dare vita ad una super-cittadinanza, e quindi ad un super-cittadino che ha a disposizione tutti i diritti ed i mezzi economici, culturali, tecnologici per affermarsi. Altri individui, seppur appartenenti alla stessa comunità, vengono di contro esclusi da questi privilegi, e di conseguenza emarginati. Questo fenomeno non può che dare luogo ad un aumento della forbice che divide ricchi e poveri e che tende ad aprirsi asintoticamente. Basti pensare, senza andare lontano, alle abissali differenze nel diritto alla sanità fra nord e sud Italia. In contrapposizione al fenomeno del super-cittadino si è sviluppato, a partire dal secondo dopoguerra, un desiderio di allargare la cittadinanza, di una cittadinanza cosmopolita che possa estendersi al di fuori dei confini degli stati.

La cittadinanza globale però, senza un concreto sforzo, una concreta applicazione nella vita quotidiana, rischia di rimanere un’utopia. Piccinelli sostiene, dunque, che la ricerca concreta di un’apertura della cittadinanza si fondi principalmente sulla volontà degli individui, senza prescindere dallo studio, dalla discussione, dall’incontro. Inoltre, non si potrà parlare di cittadinanza globale finché ci saranno conflitti. Nelle aree di conflitto, spesso, i cittadini chiedono soltanto l’opportunità di avere una vita “normale”, secondo la norma. Esiste quindi uno standard minimo, un modello, secondo cui possa essere definita una cittadinanza “normale”? Il professore risponde a questa domanda, da lui stesso posta, individuando tre categorie imprescindibili alla così detta “norma”:

  • L’uguaglianza, aspetto fondamentale per una presa di coscienza sociale. Tale uguaglianza, intesa come parità di diritti, è necessaria per coltivare il pluralismo e le diversità.
  • La partecipazione, intesa come collaborazione al progetto di bene comune. A questa categoria si contrappone fortemente la tendenza allo sviluppo del super-cittadino.
  • L’accesso alle risorse economiche ed ai servizi, per consentire pari dignità e pari opportunità ai cittadini che fanno parte della comunità.

Il professore è entrato poi nel dettaglio delle culture che si affacciano nel mar Mediterraneo, fra le quali si distinguono le religioni abramitiche. È proprio la figura di Abramo su cui il professor Piccinelli ha voluto, in conclusione, riflettere. Abramo rappresenta, per le religioni del libro, l’esistenza di un orizzonte escatologico comune. Suddividendo di nuovo la riflessione in tre perle, Piccinelli cita tre caratteristiche fondamentali del profeta che possono essere uno stimolo per le nostre comunità.

  • L’accoglienza, l’incontro con lo straniero, la convivenza ed il compromesso per vivere insieme nella diversità.
  • L’intercessione, ovvero la preghiera per lo straniero. Infatti Abramo intercede per Sodoma, emblema della diversità fra pagani e israeliti.
  • La visione e l’ascolto, “Shemà”, ovvero lo sguardo che va oltre ed è capace di vedere la promessa di Dio presente nella storia, qui ed ora.

Questi spunti di riflessione guidano necessariamente ad un desiderio di fare la differenza, un desiderio puro di rendere concreti dei principi così tanto nobili. La sfida quotidiana è quella di coltivare questo desiderio, trasformandolo in azioni e non lasciando che prevalga la tentazione del crederci impotenti.

Nel corso del forum si sono poi susseguiti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, filosofi e studiosi che hanno arricchito la riflessione sulla cittadinanza mediterranea. Particolarmente significativi sono stati anche gli interventi dei giovani presenti che hanno raccontato la propria esperienza di cittadinanza globale e di impegno civile e che si impegnano ogni giorno nell’incontro, nell’ascolto e nell’apertura all’altro.

 

Conoscere i Balcani significa scoprire un pezzo di Europa che troppo spesso viene considerato lontano ed estraneo, nonostante la vicinanza geografica. Il termine “Balcani”, non particolarmente apprezzato dalle popolazioni locali, deriva dalla lingua turca e in origine indicava genericamente una catena montuosa. Oggigiorno, con il termine Balcani si fa riferimento ad una regione situata ai margini sud orientali del continente europeo, area che da molti decenni è stata spesso caratterizzata da fenomeni di grave crisi ed instabilità sociale e politica. Da sempre infatti la regione è stata teatro di rivolte, scontri e sanguinose guerre tra gli Stati e tra le diverse comunità che vi abitano al loro interno, anche in periodi molto recenti.

Questa regione resta una parte emarginata dell’Europa, sulla quale non viene riposta abbastanza attenzione.

Nei secoli passati, l’area è stata dominata dai turchi ottomani, grazie ai quali le numerose culture presenti coesistevano tra di loro in un clima di stabilità, che ha iniziato tuttavia a vacillare con la caduta dell’Impero e con la conseguente conquista dell’autonomia dei Paesi che ne facevano parte.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, è nato il termine “balcanizzazione”, che si riferiva alla frammentazione dei territori imposta dalle potenze europee trascurando la composizione etnica dell’area.

Elemento che certamente accumula i vari gruppi etnici sono le lingue. Infatti, sebbene le lingue balcaniche derivino da famiglie linguistiche differenti, gli influssi storici della cultura greca e la dominazione turca hanno rappresentato un importante fattore di avvicinamento e di influenza per le varie lingue.

Per “penisola balcanica” oggi si intende l’insieme dei seguenti Stati: Grecia, parte della Turchia (la Tracia orientale), Bulgaria, Romania, Moldavia, le sei ex Repubbliche Jugoslave (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord), Albania e Kosovo.

Non essendo possibile analizzare nel dettaglio tutti gli Stati, verranno trattati soltanto alcuni di essi.

Recentemente, al centro dei dibattiti vi è principalmente il Kosovo. Quest’ultimo è uno dei più piccoli e recenti Stati della regione ed ha una storia molto travagliata. Dopo essersi autoproclamato indipendente dallo Stato serbo nel 1990, Belgrado reagì immediatamente con il pugno di ferro, attraverso attentati, episodi di pulizia etnico-religiosa e atti diretti alla repressione del movimento indipendentista kosovaro (UCK, cioè Ushtria Çlirimtare e Kosovës). Ciò vanificò la dichiarazione di indipendenza del Kosovo.

Nonostante vari tentativi di mettersi al tavolo delle trattative sotto la supervisione delle maggiori potenze mondiali, la situazione non si placò e nel 1999 la NATO inviò 50.000 soldati per assicurare stabilità e sicurezza alla regione, in attesa di un compromesso tra le parti.

Il processo di transizione apertosi allora non è ancora giunto a compimento: tutt’oggi vige il complesso sistema di amministrazione provvisoria dell’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), che assegna ampi poteri a un rappresentante speciale nominato dalle Nazioni Unite, tra le cui prerogative vi è quella di scegliere i giudici e di porre il veto sulle disposizioni di legge adottate dal governo. Sotto la supervisione del Rappresentante Speciale, operano le istituzioni provvisorie di presidenza, Governo e Assemblea parlamentare. Al termine di quasi un decennio di mediazioni fallite, nel febbraio 2008 ilParlamento kosovaro ha deciso di proclamare unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia. Alla scontata reazione di Belgrado (e, immediatamente dopo, di Mosca, sua storica alleata) ha fatto seguito quella della regione settentrionale del Kosovo, a maggioranza serba, che ha proclamato l’istituzione di un Parlamento parallelo, consolidando la propria posizione di semi-autonomia da Priština.

La situazione attuale in Kosovo si inserisce in un contesto già complesso politicamente, sia sul piano interno, che su quello internazionale che di fatto mina l’integrazione tra i Paesi.

In primo luogo, i Balcani risentono di influenze diverse: la Slovenia e la Croazia da sempre appartengono all’orbita occidentale, facendo le stesse parte anche dell’Unione europea, mentre il resto dei Paesi della regione storicamente oscilla tra la sfera d’influenza occidentale e quella russo-turca.

L’Albania e la Macedonia, ad esempio, stanno attuando delle riforme con l’obiettivo di entrare nell’Unione europea.

Tutt’altra linea segue il Montenegro, il quale tende ad avvicinarsi a ideali filo-russi e filo-serbi. Come conseguenza, il Paese non riconosce il Kosovo e il suo processo di adesione all’UE è andato in stallo.

La Serbia invece, in quanto Paese candidato, dovrebbe cercare di allinearsi alla politica estera dell’UE, ma è ancora lontana dal farlo. Disattendere tale aspettativa è una delle conseguenze di una complessa situazione geopolitica del Paese, fortemente diviso tra Est e Ovest, tra la vicinanza politica, culturale e religiosa con Mosca e il desiderio di accedere ai benefici che derivano dall’appartenenza all’Unione europea. Allo stesso modo la Bosnia ed Erzegovina sta cercando di entrare nell’Unione, nonostante si mantenga neutrale e non condanni l’azione militare russa.

I rapporti con l’Unione Europea e gli altri Stati esteri

Storicamente, i Paesi balcanici hanno sempre avuto un ruolo chiave negli scontri tra le varie potenze europee. Con la perdita di centralità del vecchio continente, la preoccupante situazione demografica ed una economia instabile, la regione ha perso la sua storica importanza strategica e ad oggi riveste solo uno scenario secondario, comunque importante, per i contrasti informali tra le potenze odierne.

L’UE è il gigante più vicino: costituisce il maggior partner economico per i Paesi, dominando le importazioni e le esportazioni, stanziando fondi e programmando investimenti, non riuscendo tuttavia a trasformare questo dominio economico in un’influenza politica concreta. Infatti, nonostante Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina siano candidati all’ingresso nell’UE, il processo si è rallentato, principalmente a causa delle varie ingerenze degli Stati membri (ad esempio, solo 22 membri su 27 riconoscono il Kosovo). Ciò alimenta un clima di sfiducia verso l’UE nei Paesi balcanici, rinforzato dalle difficoltà che questa incontra anche sulla gestione di altre questioni; il sogno di un’Europa unita passa decisamente in secondo piano, mentre cresce sempre più la necessità di azioni politiche concrete.

Oltreoceano, gli USA rappresentano i garanti della sicurezza nella regione; tutti i Paesi, ad eccezione della Serbia, hanno un legame più o meno esplicito con la NATO. Essi tendono a non interferire direttamente nelle vicende politiche, se non quando vengono “oltrepassati” certi limiti; in questo caso Washington agisce con prepotenza per ripristinare la situazione.

L’altro grande gigante del Novecento, la Russia, gode di uno storico legame con Belgrado e con le comunità ortodosse della regione. Essa cerca di interferire nella politica facendosi forte delle classi dirigenziali opposte al binomio USA-UE. A livello economico, essa possiede il predominio energetico, controllando i principali gasdotti della regione. Un altro storico partner, la Turchia, è invece il faro delle comunità islamiche, attratte dal suo modello di islam politico e con le quali essa cerca di intrecciare rapporti diplomatici. Nei recenti anni questi due storici partner hanno diversificato i loro rapporti, cercando anche realtà diverse e ottenendo risultati alterni.

Tale scenario lascia aperte molte opportunità di collaborazione e investimento per le potenze mondiali. Un Paese che ha saputo cogliere il potenziale dei Balcani è stata la Cina; entrata nell’area per la via economica, si muove principalmente costruendo rapporti informali con le classi dirigenziali, finanziando e promuovendo la costruzione di numerose infrastrutture nella regione, e, specialmente in Serbia, ha rafforzato la sua popolarità in seguito agli aiuti stanziati per la gestione della pandemia.

Ad oggi, i Balcani rimangono una regione fortemente instabile e tormentata, in costante balìa delle influenze occidentali e orientali, in cui anche i rapporti interni sono complessi. Risulta dunque difficile stabilire come si potrà evolvere questo scenario, ma con buona probabilità saranno le azioni delle grandi potenze ad avere un ruolo chiave nel futuro economico e politico della regione. Una possibile stabilizzazione della situazione si potrà avere solo quando i Paesi balcanici saranno in grado di far risuonare la propria voce e autodeterminarsi. Fondamentale sarà in particolare la capacità di dialogo con le potenze mondiali e di adeguamento agli standard previsti dall’Unione europea, al fine di un futuro ingresso.

Bibliografia e sitografia 

Bonifati Lidia, Conoscere i Balcani: in essi c’è la nostra storia, in Lo Spiegone, 11 settembre 2017, https://lospiegone.com/2017/09/11/conoscere-i-balcani-in-essi-ce-la-nostra-storia/

De Munter André, I Balcani occidentali, Parlamento Europeo, aprile 2023, https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/168/i-balcani-occidentali

Fruscione Giorgio, Balcani: se l’Occidente sbaglia approccio sul dossier kosovaro, Istituto per gli Studi di politica internazionale, 6 settembre 2023, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/balcani-se-loccidente-sbaglia-approccio-sul-dossier-kosovaro-139711

Petrovic Nadan, Balcani: il retaggio storico, la crisi post-Covid e la sfida dell’allargamento, Centro Studi di Politica Internazionale, 6 luglio 2020, https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/dibattiti/la-ue-i-balcani-la-scommessa-dellallargamento/balcani-il-retaggio-storico

La storia dei Balcani, in Il labirinto del Kosovo, a cura di Laurana Lajolo, 28 giugno 1999,  https://www.italia-liberazione.it/novecento/antecedenti.html

Penisola Balcanica, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/penisola-balcanica/

Balcani, Dizionario di Storia, 2010, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/balcani_(Dizionario-di-Storia)/

Kosovo, in Atlante Geopolitico, 2015, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/kosovo_(Atlante-Geopolitico)/

La tormentata storia dei Balcani, Istituto Italiano Edizioni Atlas, 2019, https://youtu.be/J03HVfhKghY

“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.

Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.

I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.

La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.

A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.

Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.

L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.

L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))

La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.

Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.

A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.

L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.

Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.

La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Sabato 28 gennaio si è tenuto a Firenze il primo incontro preparatorio al forum di Etica Civile, la cui quarta edizione si svolgerà a Palermo il prossimo novembre. Il tema trattato durante l’evento, che si è svolto nella sala Teatina del “Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, ha riguardato l’esigenza odierna di riscoprire e al contempo riappropriarsi del concetto di “cittadinanza mediterranea” per tutti i popoli che si affacciano nel “Mare Nostrum”.

Si sono susseguite discussioni fra relatori appartenenti a generazioni e culture differenti e sono stati presentati articoli di approfondimento sulla più generale tematica dell’etica civile. L’intervento del professor Gian Maria Piccinelli, in particolare, ha toccato delle corde a noi da sempre molto care.

Piccinelli ha iniziato il suo intervento constatando che la cittadinanza mette necessariamente in gioco le nostre diversità come esseri umani: lo Stato moderno, sviluppatosi in tutto il mondo con risultati molto differenti, deve necessariamente fare i conti con una vasta diversità di culture e religioni.

È proprio in questo contesto che il Mediterraneo deve rappresentare una “città comune”, in grado di coniugare protezione, tranquillità e sicurezza con incontro, relazione, insieme di diversità e dialogo. Le città che vi si affacciano hanno, citando il professor La Pira, una loro anima ed un loro destino, e devono concorrere al bene comune inteso come un progetto condiviso, non come un’imposizione calata dall’alto. Se questa dimensione di progettualità si sfilaccia, le città vivono una crisi, ma anche una partenza per un nuovo corso.

E così il nuovo rinnovamento cui aspirare non può prescindere, secondo Piccinelli, da tre visioni di città:

  • La “città di pietra”: le radici, la cultura, su cui la comunità si fonda. Inoltre il rinnovamento non deve prescindere dall’armonia, intesa come rispetto reciproco da parte dei vari gruppi etnici.
  • La “città delle relazioni”, intesa come luoghi di incontro, scambio (agorà, forum, suk …) nei quali si respira uno spirito neutro di conciliazione fra interessi diversi.
  • La “città dell’anima”, intesa come separazione fra spirito e realtà profane. In questo senso risulta essere importante la separazione fisica delle realtà, che si concretizza nella presenza di un tempio, ovvero un luogo della città strettamente dedicato al culto dell’anima. Allo stesso tempo è fondamentale la separazione spirituale fra sacro e profano, intesa come qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana.

Dunque si pone la domanda di come si possa vivere una cittadinanza mediterranea. Innanzi tutto, è necessario riflettere su cosa si intenda per cittadinanza. La cittadinanza è intesa infatti come un rapporto amministrativo e giuridico fra un cittadino ed uno Stato. In questa definizione, intrinsecamente, vi è la possibilità che la cittadinanza possa svolgere un ruolo di esclusione anziché di inclusione. Può divenire un confine tra i cittadini e i non cittadini, o può discriminare sulla base delle potenzialità di poter effettivamente godere di tutti i benefici della cittadinanza. Infatti, i popoli sono spesso di fronte alla tentazione di dare vita ad una super-cittadinanza, e quindi ad un super-cittadino che ha a disposizione tutti i diritti ed i mezzi economici, culturali, tecnologici per affermarsi. Altri individui, seppur appartenenti alla stessa comunità, vengono di contro esclusi da questi privilegi, e di conseguenza emarginati. Questo fenomeno non può che dare luogo ad un aumento della forbice che divide ricchi e poveri e che tende ad aprirsi asintoticamente. Basti pensare, senza andare lontano, alle abissali differenze nel diritto alla sanità fra nord e sud Italia. In contrapposizione al fenomeno del super-cittadino si è sviluppato, a partire dal secondo dopoguerra, un desiderio di allargare la cittadinanza, di una cittadinanza cosmopolita che possa estendersi al di fuori dei confini degli stati.

La cittadinanza globale però, senza un concreto sforzo, una concreta applicazione nella vita quotidiana, rischia di rimanere un’utopia. Piccinelli sostiene, dunque, che la ricerca concreta di un’apertura della cittadinanza si fondi principalmente sulla volontà degli individui, senza prescindere dallo studio, dalla discussione, dall’incontro. Inoltre, non si potrà parlare di cittadinanza globale finché ci saranno conflitti. Nelle aree di conflitto, spesso, i cittadini chiedono soltanto l’opportunità di avere una vita “normale”, secondo la norma. Esiste quindi uno standard minimo, un modello, secondo cui possa essere definita una cittadinanza “normale”? Il professore risponde a questa domanda, da lui stesso posta, individuando tre categorie imprescindibili alla così detta “norma”:

  • L’uguaglianza, aspetto fondamentale per una presa di coscienza sociale. Tale uguaglianza, intesa come parità di diritti, è necessaria per coltivare il pluralismo e le diversità.
  • La partecipazione, intesa come collaborazione al progetto di bene comune. A questa categoria si contrappone fortemente la tendenza allo sviluppo del super-cittadino.
  • L’accesso alle risorse economiche ed ai servizi, per consentire pari dignità e pari opportunità ai cittadini che fanno parte della comunità.

Il professore è entrato poi nel dettaglio delle culture che si affacciano nel mar Mediterraneo, fra le quali si distinguono le religioni abramitiche. È proprio la figura di Abramo su cui il professor Piccinelli ha voluto, in conclusione, riflettere. Abramo rappresenta, per le religioni del libro, l’esistenza di un orizzonte escatologico comune. Suddividendo di nuovo la riflessione in tre perle, Piccinelli cita tre caratteristiche fondamentali del profeta che possono essere uno stimolo per le nostre comunità.

  • L’accoglienza, l’incontro con lo straniero, la convivenza ed il compromesso per vivere insieme nella diversità.
  • L’intercessione, ovvero la preghiera per lo straniero. Infatti Abramo intercede per Sodoma, emblema della diversità fra pagani e israeliti.
  • La visione e l’ascolto, “Shemà”, ovvero lo sguardo che va oltre ed è capace di vedere la promessa di Dio presente nella storia, qui ed ora.

Questi spunti di riflessione guidano necessariamente ad un desiderio di fare la differenza, un desiderio puro di rendere concreti dei principi così tanto nobili. La sfida quotidiana è quella di coltivare questo desiderio, trasformandolo in azioni e non lasciando che prevalga la tentazione del crederci impotenti.

Nel corso del forum si sono poi susseguiti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, filosofi e studiosi che hanno arricchito la riflessione sulla cittadinanza mediterranea. Particolarmente significativi sono stati anche gli interventi dei giovani presenti che hanno raccontato la propria esperienza di cittadinanza globale e di impegno civile e che si impegnano ogni giorno nell’incontro, nell’ascolto e nell’apertura all’altro.

 

Conoscere i Balcani significa scoprire un pezzo di Europa che troppo spesso viene considerato lontano ed estraneo, nonostante la vicinanza geografica. Il termine “Balcani”, non particolarmente apprezzato dalle popolazioni locali, deriva dalla lingua turca e in origine indicava genericamente una catena montuosa. Oggigiorno, con il termine Balcani si fa riferimento ad una regione situata ai margini sud orientali del continente europeo, area che da molti decenni è stata spesso caratterizzata da fenomeni di grave crisi ed instabilità sociale e politica. Da sempre infatti la regione è stata teatro di rivolte, scontri e sanguinose guerre tra gli Stati e tra le diverse comunità che vi abitano al loro interno, anche in periodi molto recenti.

Questa regione resta una parte emarginata dell’Europa, sulla quale non viene riposta abbastanza attenzione.

Nei secoli passati, l’area è stata dominata dai turchi ottomani, grazie ai quali le numerose culture presenti coesistevano tra di loro in un clima di stabilità, che ha iniziato tuttavia a vacillare con la caduta dell’Impero e con la conseguente conquista dell’autonomia dei Paesi che ne facevano parte.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, è nato il termine “balcanizzazione”, che si riferiva alla frammentazione dei territori imposta dalle potenze europee trascurando la composizione etnica dell’area.

Elemento che certamente accumula i vari gruppi etnici sono le lingue. Infatti, sebbene le lingue balcaniche derivino da famiglie linguistiche differenti, gli influssi storici della cultura greca e la dominazione turca hanno rappresentato un importante fattore di avvicinamento e di influenza per le varie lingue.

Per “penisola balcanica” oggi si intende l’insieme dei seguenti Stati: Grecia, parte della Turchia (la Tracia orientale), Bulgaria, Romania, Moldavia, le sei ex Repubbliche Jugoslave (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord), Albania e Kosovo.

Non essendo possibile analizzare nel dettaglio tutti gli Stati, verranno trattati soltanto alcuni di essi.

Recentemente, al centro dei dibattiti vi è principalmente il Kosovo. Quest’ultimo è uno dei più piccoli e recenti Stati della regione ed ha una storia molto travagliata. Dopo essersi autoproclamato indipendente dallo Stato serbo nel 1990, Belgrado reagì immediatamente con il pugno di ferro, attraverso attentati, episodi di pulizia etnico-religiosa e atti diretti alla repressione del movimento indipendentista kosovaro (UCK, cioè Ushtria Çlirimtare e Kosovës). Ciò vanificò la dichiarazione di indipendenza del Kosovo.

Nonostante vari tentativi di mettersi al tavolo delle trattative sotto la supervisione delle maggiori potenze mondiali, la situazione non si placò e nel 1999 la NATO inviò 50.000 soldati per assicurare stabilità e sicurezza alla regione, in attesa di un compromesso tra le parti.

Il processo di transizione apertosi allora non è ancora giunto a compimento: tutt’oggi vige il complesso sistema di amministrazione provvisoria dell’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), che assegna ampi poteri a un rappresentante speciale nominato dalle Nazioni Unite, tra le cui prerogative vi è quella di scegliere i giudici e di porre il veto sulle disposizioni di legge adottate dal governo. Sotto la supervisione del Rappresentante Speciale, operano le istituzioni provvisorie di presidenza, Governo e Assemblea parlamentare. Al termine di quasi un decennio di mediazioni fallite, nel febbraio 2008 ilParlamento kosovaro ha deciso di proclamare unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia. Alla scontata reazione di Belgrado (e, immediatamente dopo, di Mosca, sua storica alleata) ha fatto seguito quella della regione settentrionale del Kosovo, a maggioranza serba, che ha proclamato l’istituzione di un Parlamento parallelo, consolidando la propria posizione di semi-autonomia da Priština.

La situazione attuale in Kosovo si inserisce in un contesto già complesso politicamente, sia sul piano interno, che su quello internazionale che di fatto mina l’integrazione tra i Paesi.

In primo luogo, i Balcani risentono di influenze diverse: la Slovenia e la Croazia da sempre appartengono all’orbita occidentale, facendo le stesse parte anche dell’Unione europea, mentre il resto dei Paesi della regione storicamente oscilla tra la sfera d’influenza occidentale e quella russo-turca.

L’Albania e la Macedonia, ad esempio, stanno attuando delle riforme con l’obiettivo di entrare nell’Unione europea.

Tutt’altra linea segue il Montenegro, il quale tende ad avvicinarsi a ideali filo-russi e filo-serbi. Come conseguenza, il Paese non riconosce il Kosovo e il suo processo di adesione all’UE è andato in stallo.

La Serbia invece, in quanto Paese candidato, dovrebbe cercare di allinearsi alla politica estera dell’UE, ma è ancora lontana dal farlo. Disattendere tale aspettativa è una delle conseguenze di una complessa situazione geopolitica del Paese, fortemente diviso tra Est e Ovest, tra la vicinanza politica, culturale e religiosa con Mosca e il desiderio di accedere ai benefici che derivano dall’appartenenza all’Unione europea. Allo stesso modo la Bosnia ed Erzegovina sta cercando di entrare nell’Unione, nonostante si mantenga neutrale e non condanni l’azione militare russa.

I rapporti con l’Unione Europea e gli altri Stati esteri

Storicamente, i Paesi balcanici hanno sempre avuto un ruolo chiave negli scontri tra le varie potenze europee. Con la perdita di centralità del vecchio continente, la preoccupante situazione demografica ed una economia instabile, la regione ha perso la sua storica importanza strategica e ad oggi riveste solo uno scenario secondario, comunque importante, per i contrasti informali tra le potenze odierne.

L’UE è il gigante più vicino: costituisce il maggior partner economico per i Paesi, dominando le importazioni e le esportazioni, stanziando fondi e programmando investimenti, non riuscendo tuttavia a trasformare questo dominio economico in un’influenza politica concreta. Infatti, nonostante Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina siano candidati all’ingresso nell’UE, il processo si è rallentato, principalmente a causa delle varie ingerenze degli Stati membri (ad esempio, solo 22 membri su 27 riconoscono il Kosovo). Ciò alimenta un clima di sfiducia verso l’UE nei Paesi balcanici, rinforzato dalle difficoltà che questa incontra anche sulla gestione di altre questioni; il sogno di un’Europa unita passa decisamente in secondo piano, mentre cresce sempre più la necessità di azioni politiche concrete.

Oltreoceano, gli USA rappresentano i garanti della sicurezza nella regione; tutti i Paesi, ad eccezione della Serbia, hanno un legame più o meno esplicito con la NATO. Essi tendono a non interferire direttamente nelle vicende politiche, se non quando vengono “oltrepassati” certi limiti; in questo caso Washington agisce con prepotenza per ripristinare la situazione.

L’altro grande gigante del Novecento, la Russia, gode di uno storico legame con Belgrado e con le comunità ortodosse della regione. Essa cerca di interferire nella politica facendosi forte delle classi dirigenziali opposte al binomio USA-UE. A livello economico, essa possiede il predominio energetico, controllando i principali gasdotti della regione. Un altro storico partner, la Turchia, è invece il faro delle comunità islamiche, attratte dal suo modello di islam politico e con le quali essa cerca di intrecciare rapporti diplomatici. Nei recenti anni questi due storici partner hanno diversificato i loro rapporti, cercando anche realtà diverse e ottenendo risultati alterni.

Tale scenario lascia aperte molte opportunità di collaborazione e investimento per le potenze mondiali. Un Paese che ha saputo cogliere il potenziale dei Balcani è stata la Cina; entrata nell’area per la via economica, si muove principalmente costruendo rapporti informali con le classi dirigenziali, finanziando e promuovendo la costruzione di numerose infrastrutture nella regione, e, specialmente in Serbia, ha rafforzato la sua popolarità in seguito agli aiuti stanziati per la gestione della pandemia.

Ad oggi, i Balcani rimangono una regione fortemente instabile e tormentata, in costante balìa delle influenze occidentali e orientali, in cui anche i rapporti interni sono complessi. Risulta dunque difficile stabilire come si potrà evolvere questo scenario, ma con buona probabilità saranno le azioni delle grandi potenze ad avere un ruolo chiave nel futuro economico e politico della regione. Una possibile stabilizzazione della situazione si potrà avere solo quando i Paesi balcanici saranno in grado di far risuonare la propria voce e autodeterminarsi. Fondamentale sarà in particolare la capacità di dialogo con le potenze mondiali e di adeguamento agli standard previsti dall’Unione europea, al fine di un futuro ingresso.

Bibliografia e sitografia 

Bonifati Lidia, Conoscere i Balcani: in essi c’è la nostra storia, in Lo Spiegone, 11 settembre 2017, https://lospiegone.com/2017/09/11/conoscere-i-balcani-in-essi-ce-la-nostra-storia/

De Munter André, I Balcani occidentali, Parlamento Europeo, aprile 2023, https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/168/i-balcani-occidentali

Fruscione Giorgio, Balcani: se l’Occidente sbaglia approccio sul dossier kosovaro, Istituto per gli Studi di politica internazionale, 6 settembre 2023, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/balcani-se-loccidente-sbaglia-approccio-sul-dossier-kosovaro-139711

Petrovic Nadan, Balcani: il retaggio storico, la crisi post-Covid e la sfida dell’allargamento, Centro Studi di Politica Internazionale, 6 luglio 2020, https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/dibattiti/la-ue-i-balcani-la-scommessa-dellallargamento/balcani-il-retaggio-storico

La storia dei Balcani, in Il labirinto del Kosovo, a cura di Laurana Lajolo, 28 giugno 1999,  https://www.italia-liberazione.it/novecento/antecedenti.html

Penisola Balcanica, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/penisola-balcanica/

Balcani, Dizionario di Storia, 2010, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/balcani_(Dizionario-di-Storia)/

Kosovo, in Atlante Geopolitico, 2015, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/kosovo_(Atlante-Geopolitico)/

La tormentata storia dei Balcani, Istituto Italiano Edizioni Atlas, 2019, https://youtu.be/J03HVfhKghY

“Il terribile naufragio a largo della Calabria è stato un vivido richiamo all’urgenza della nostra azione. Una soluzione equa e duratura è possibile solo attraverso un approccio europeo e bilanciato. Possiamo raggiungere più traguardi se agiamo assieme”.

Con queste parole la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha commentato quanto accaduto il 26 Febbraio 2023 davanti alle coste di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Qui un peschereccio si è arenato sugli scogli in prossimità della spiaggia: la durezza delle condizioni atmosferiche e l’inadeguatezza del mezzo, unitamente alle polemiche già sorte sulle modalità dei soccorsi, hanno delineato i contorni della strage dove sono morte almeno 91 persone, la cui conta è purtroppo tutt’altro che conclusa.

I circa 80 superstiti hanno riferito di essere partiti dalla cittadina Turca di Izmin e che a bordo del mezzo vi erano fra le 180 e le 200 persone. Uno degli aspetti su cui vale la pena soffermarsi è la provenienza iniziale di coloro che hanno tentato la traversata per giungere in Italia.

La maggior parte proveniva infatti da Paesi devastati da un mix di problemi economico-sociali e legati al cambiamento climatico. Fra i luoghi di provenienza si annotano l’Afghanistan, dove oltre alle numerose questioni sorte col ritorno al potere dei taliban è in corso una pesante carestia, la Somalia, un paese in guerra da oltre 30 anni e dove imperversa un problema siccità, e la Siria, la cui popolazione è costretta ad affrontare numerose e ben note problematiche.

A livello globale è in atto ultimamente una recrudescenza di condotte ostative messe in atto da vari governi nazionali e internazionali per bloccare fisicamente o rendere particolarmente complicati i movimenti migratori. A partire dal purtroppo celebre accordo che l’Unione Europea strinse con la Turchia ormai quasi dieci anni fa, fino ad arrivare al rinnovo operato dal Governo Biden del blocco dei migranti ( inizialmente pensato nel periodo della Pandemia da Covid-19 ed apparentemente ancora giustificato dalle misure pandemiche) o della volontà del governo Inglese di trasferire i migranti irregolari che sbarcano sul suolo Britannico in Rwanda. Non è negabile la previsione di sempre più variegate e diffuse politiche di lotta all’immigrazione, raramente accompagnate da una ampliamento dei canali regolari di accesso.

Questa rigidità dei Paesi sviluppati fa da contraltare ad una realtà dove la maggior parte di migranti e sfollati finisce per essere ospitata in Paesi a basso reddito. Spesso i movimenti migratori, soprattutto quelli di natura così detta “climatica” sono inizialmente confinati a movimenti interni agli Stati, nei quali però il saturarsi dei luoghi risparmiati dalle crisi porta i cittadini a tentare la fuga per garantirsi un futuro. Una gran parte dei soggetti è restia ad allontanarsi sensibilmente dal Paese di origine conservando la speranza di farvi un giorno ritorno.

L’analisi dei dati grezzi dà un idea della portata del problema. In particolare, fa riflettere la statistica sui Paesi che accolgono il maggior numero di migranti. Varie agenzie internazionali (l’Internal Displacement Monitoring Centre, UNHCR, IPCC) forniscono infatti una panoramica sulla situazione nei Paesi meno sviluppati: l’86% degli sfollati usciti dal proprio paese di appartenenza è ospitato in paesi in via di sviluppo ed il 95% dei conflitti, registrati nel 2020, è avvenuto in paesi già ad alta vulnerabilità a cambiamenti climatici.

L’anno passato sono stati 33 milioni le persone che hanno dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine a causa di disastri naturali. Le stime dell’IPCC riferiscono che circa il 40% della popolazione mondiale vive in zone sensibili al cambiamento climatico, ed è difficile pensare che tale numero possa diminuire.

Carta degli sfollati interni per conflitti e disastri ambientali nel 2020 (Fonte: Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC))

La Turchia, sia per posizione geografica che per sviluppo economico, agisce da ponte fra l’Europa ed i Paesi in via di sviluppo, ospitando migranti che arrivano a piedi o via mare dall’Africa Subsahariana e al Bangladesh e al Pakistan.

Sono oggi in aumento le persone che partono dal vecchio Impero Ottomano cercando di sbarcare nella così detta “Fortezza Europa”, nonostante l’UE stessa abbia finanziato con miliardi di euro l’amministrazione Turca al fine di farle ospitare i migranti. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, nel 2022 sulle coste europee sono sbarcati circa 43.000 migranti, di cui la metà è sbarcata in Italia; dentro tale cifra, indicativa appunto dei soli sbarchi, non possono non essere considerate le persone disperse o morte in mare, che l’UNHCR stima in circa 4000 persone. Considerato ciò, anche la situazione interna Turca desta perplessità e preoccupazioni, sia sul piano economico che su quello politico, per non considerare in aggiunta le conseguenze del drammatico terremoto avvenuto il 6 Febbraio.

A inizio anno il tasso ufficiale di inflazione nel Paese era di circa l’80,21 %, mentre analisti indipendenti lo stimavano al 180%. Sul piano politico la figura di Erdogan è ormai dominante ed ha piano piano spinto ad abbracciare un estremismo di stampo islamico, come si può intendere dai suoi alleati politici alle prossime elezioni. La stretta di Erdogan traspare anche dalla forte repressione sulla stampa e sugli organi del terzo settore, acuitasi ancora di più a seguito del fallito colpo di stato del 2016; questo non ha però impedito il formarsi di una grossa coalizione che, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu cercherà di vincere le prossime elezioni.

L’attivismo di Erdogan non si limita alla repressione interna: più volte infatti il Presidente turco ha manifestato la volontà di dare alla Turchia una propria sfera di influenza, esterna a qualsivoglia contrapposizione di blocchi. A denotare tale fenomeno si prenda come esempio la trattativa portata avanti sull’export di grano ucraino: per quanto la Turchia ospiti basi missilistiche statunitensi e sia parte della Nato.

Proprio l’appartenenza alla Nato, ulteriormente al già citato accordo sui migranti, e le modalità d’ingresso nella stessa hanno fornito un ulteriore mezzo di pressione al Presidente Turco; infatti a Giugno 2022 ha subordinato la ratifica dell’ingresso nell’alleanza di Svezia e Finlandia, all’essenziale estradizione da parte di questi due paesi di circa 70 persone considerate dalla Turchia come personalità ostili allo Stato.

La Finlandia da alcuni giorni ha così ottenuto la ratifica al proprio ingresso; tuttavia con la Svezia si sono avute le problematiche maggiori. Inizialmente vi sono state numerose proteste dinanzi all’ambasciata Turca a Stoccolma, ma è stata rilevante poi la richiesta presentata dalla Turchia di estradare Amineh Kakabaveh, deputata del parlamento svedese aventi origini Curde. Il ministro della giustizia svedese, rifiutandosi di accogliere tale richiesta, ha fatto notare che nel suo Paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Sabato 28 gennaio si è tenuto a Firenze il primo incontro preparatorio al forum di Etica Civile, la cui quarta edizione si svolgerà a Palermo il prossimo novembre. Il tema trattato durante l’evento, che si è svolto nella sala Teatina del “Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira”, ha riguardato l’esigenza odierna di riscoprire e al contempo riappropriarsi del concetto di “cittadinanza mediterranea” per tutti i popoli che si affacciano nel “Mare Nostrum”.

Si sono susseguite discussioni fra relatori appartenenti a generazioni e culture differenti e sono stati presentati articoli di approfondimento sulla più generale tematica dell’etica civile. L’intervento del professor Gian Maria Piccinelli, in particolare, ha toccato delle corde a noi da sempre molto care.

Piccinelli ha iniziato il suo intervento constatando che la cittadinanza mette necessariamente in gioco le nostre diversità come esseri umani: lo Stato moderno, sviluppatosi in tutto il mondo con risultati molto differenti, deve necessariamente fare i conti con una vasta diversità di culture e religioni.

È proprio in questo contesto che il Mediterraneo deve rappresentare una “città comune”, in grado di coniugare protezione, tranquillità e sicurezza con incontro, relazione, insieme di diversità e dialogo. Le città che vi si affacciano hanno, citando il professor La Pira, una loro anima ed un loro destino, e devono concorrere al bene comune inteso come un progetto condiviso, non come un’imposizione calata dall’alto. Se questa dimensione di progettualità si sfilaccia, le città vivono una crisi, ma anche una partenza per un nuovo corso.

E così il nuovo rinnovamento cui aspirare non può prescindere, secondo Piccinelli, da tre visioni di città:

  • La “città di pietra”: le radici, la cultura, su cui la comunità si fonda. Inoltre il rinnovamento non deve prescindere dall’armonia, intesa come rispetto reciproco da parte dei vari gruppi etnici.
  • La “città delle relazioni”, intesa come luoghi di incontro, scambio (agorà, forum, suk …) nei quali si respira uno spirito neutro di conciliazione fra interessi diversi.
  • La “città dell’anima”, intesa come separazione fra spirito e realtà profane. In questo senso risulta essere importante la separazione fisica delle realtà, che si concretizza nella presenza di un tempio, ovvero un luogo della città strettamente dedicato al culto dell’anima. Allo stesso tempo è fondamentale la separazione spirituale fra sacro e profano, intesa come qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana.

Dunque si pone la domanda di come si possa vivere una cittadinanza mediterranea. Innanzi tutto, è necessario riflettere su cosa si intenda per cittadinanza. La cittadinanza è intesa infatti come un rapporto amministrativo e giuridico fra un cittadino ed uno Stato. In questa definizione, intrinsecamente, vi è la possibilità che la cittadinanza possa svolgere un ruolo di esclusione anziché di inclusione. Può divenire un confine tra i cittadini e i non cittadini, o può discriminare sulla base delle potenzialità di poter effettivamente godere di tutti i benefici della cittadinanza. Infatti, i popoli sono spesso di fronte alla tentazione di dare vita ad una super-cittadinanza, e quindi ad un super-cittadino che ha a disposizione tutti i diritti ed i mezzi economici, culturali, tecnologici per affermarsi. Altri individui, seppur appartenenti alla stessa comunità, vengono di contro esclusi da questi privilegi, e di conseguenza emarginati. Questo fenomeno non può che dare luogo ad un aumento della forbice che divide ricchi e poveri e che tende ad aprirsi asintoticamente. Basti pensare, senza andare lontano, alle abissali differenze nel diritto alla sanità fra nord e sud Italia. In contrapposizione al fenomeno del super-cittadino si è sviluppato, a partire dal secondo dopoguerra, un desiderio di allargare la cittadinanza, di una cittadinanza cosmopolita che possa estendersi al di fuori dei confini degli stati.

La cittadinanza globale però, senza un concreto sforzo, una concreta applicazione nella vita quotidiana, rischia di rimanere un’utopia. Piccinelli sostiene, dunque, che la ricerca concreta di un’apertura della cittadinanza si fondi principalmente sulla volontà degli individui, senza prescindere dallo studio, dalla discussione, dall’incontro. Inoltre, non si potrà parlare di cittadinanza globale finché ci saranno conflitti. Nelle aree di conflitto, spesso, i cittadini chiedono soltanto l’opportunità di avere una vita “normale”, secondo la norma. Esiste quindi uno standard minimo, un modello, secondo cui possa essere definita una cittadinanza “normale”? Il professore risponde a questa domanda, da lui stesso posta, individuando tre categorie imprescindibili alla così detta “norma”:

  • L’uguaglianza, aspetto fondamentale per una presa di coscienza sociale. Tale uguaglianza, intesa come parità di diritti, è necessaria per coltivare il pluralismo e le diversità.
  • La partecipazione, intesa come collaborazione al progetto di bene comune. A questa categoria si contrappone fortemente la tendenza allo sviluppo del super-cittadino.
  • L’accesso alle risorse economiche ed ai servizi, per consentire pari dignità e pari opportunità ai cittadini che fanno parte della comunità.

Il professore è entrato poi nel dettaglio delle culture che si affacciano nel mar Mediterraneo, fra le quali si distinguono le religioni abramitiche. È proprio la figura di Abramo su cui il professor Piccinelli ha voluto, in conclusione, riflettere. Abramo rappresenta, per le religioni del libro, l’esistenza di un orizzonte escatologico comune. Suddividendo di nuovo la riflessione in tre perle, Piccinelli cita tre caratteristiche fondamentali del profeta che possono essere uno stimolo per le nostre comunità.

  • L’accoglienza, l’incontro con lo straniero, la convivenza ed il compromesso per vivere insieme nella diversità.
  • L’intercessione, ovvero la preghiera per lo straniero. Infatti Abramo intercede per Sodoma, emblema della diversità fra pagani e israeliti.
  • La visione e l’ascolto, “Shemà”, ovvero lo sguardo che va oltre ed è capace di vedere la promessa di Dio presente nella storia, qui ed ora.

Questi spunti di riflessione guidano necessariamente ad un desiderio di fare la differenza, un desiderio puro di rendere concreti dei principi così tanto nobili. La sfida quotidiana è quella di coltivare questo desiderio, trasformandolo in azioni e non lasciando che prevalga la tentazione del crederci impotenti.

Nel corso del forum si sono poi susseguiti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, filosofi e studiosi che hanno arricchito la riflessione sulla cittadinanza mediterranea. Particolarmente significativi sono stati anche gli interventi dei giovani presenti che hanno raccontato la propria esperienza di cittadinanza globale e di impegno civile e che si impegnano ogni giorno nell’incontro, nell’ascolto e nell’apertura all’altro.

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