The people who have trusted us so far
Conoscere i Balcani significa scoprire un pezzo di Europa che troppo spesso viene considerato lontano ed estraneo, nonostante la vicinanza geografica. Il termine “Balcani”, non particolarmente apprezzato dalle popolazioni locali, deriva dalla lingua turca e in origine indicava genericamente una catena montuosa. Oggigiorno, con il termine Balcani si fa riferimento ad una regione situata ai margini sud orientali del continente europeo, area che da molti decenni è stata spesso caratterizzata da fenomeni di grave crisi ed instabilità sociale e politica. Da sempre infatti la regione è stata teatro di rivolte, scontri e sanguinose guerre tra gli Stati e tra le diverse comunità che vi abitano al loro interno, anche in periodi molto recenti.
Questa regione resta una parte emarginata dell’Europa, sulla quale non viene riposta abbastanza attenzione.
Nei secoli passati, l’area è stata dominata dai turchi ottomani, grazie ai quali le numerose culture presenti coesistevano tra di loro in un clima di stabilità, che ha iniziato tuttavia a vacillare con la caduta dell’Impero e con la conseguente conquista dell’autonomia dei Paesi che ne facevano parte.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, è nato il termine “balcanizzazione”, che si riferiva alla frammentazione dei territori imposta dalle potenze europee trascurando la composizione etnica dell’area.
Elemento che certamente accumula i vari gruppi etnici sono le lingue. Infatti, sebbene le lingue balcaniche derivino da famiglie linguistiche differenti, gli influssi storici della cultura greca e la dominazione turca hanno rappresentato un importante fattore di avvicinamento e di influenza per le varie lingue.
Per “penisola balcanica” oggi si intende l’insieme dei seguenti Stati: Grecia, parte della Turchia (la Tracia orientale), Bulgaria, Romania, Moldavia, le sei ex Repubbliche Jugoslave (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord), Albania e Kosovo.
Non essendo possibile analizzare nel dettaglio tutti gli Stati, verranno trattati soltanto alcuni di essi.
Recentemente, al centro dei dibattiti vi è principalmente il Kosovo. Quest’ultimo è uno dei più piccoli e recenti Stati della regione ed ha una storia molto travagliata. Dopo essersi autoproclamato indipendente dallo Stato serbo nel 1990, Belgrado reagì immediatamente con il pugno di ferro, attraverso attentati, episodi di pulizia etnico-religiosa e atti diretti alla repressione del movimento indipendentista kosovaro (UCK, cioè Ushtria Çlirimtare e Kosovës). Ciò vanificò la dichiarazione di indipendenza del Kosovo.
Nonostante vari tentativi di mettersi al tavolo delle trattative sotto la supervisione delle maggiori potenze mondiali, la situazione non si placò e nel 1999 la NATO inviò 50.000 soldati per assicurare stabilità e sicurezza alla regione, in attesa di un compromesso tra le parti.
Il processo di transizione apertosi allora non è ancora giunto a compimento: tutt’oggi vige il complesso sistema di amministrazione provvisoria dell’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), che assegna ampi poteri a un rappresentante speciale nominato dalle Nazioni Unite, tra le cui prerogative vi è quella di scegliere i giudici e di porre il veto sulle disposizioni di legge adottate dal governo. Sotto la supervisione del Rappresentante Speciale, operano le istituzioni provvisorie di presidenza, Governo e Assemblea parlamentare. Al termine di quasi un decennio di mediazioni fallite, nel febbraio 2008 ilParlamento kosovaro ha deciso di proclamare unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia. Alla scontata reazione di Belgrado (e, immediatamente dopo, di Mosca, sua storica alleata) ha fatto seguito quella della regione settentrionale del Kosovo, a maggioranza serba, che ha proclamato l’istituzione di un Parlamento parallelo, consolidando la propria posizione di semi-autonomia da Priština.
La situazione attuale in Kosovo si inserisce in un contesto già complesso politicamente, sia sul piano interno, che su quello internazionale che di fatto mina l’integrazione tra i Paesi.
In primo luogo, i Balcani risentono di influenze diverse: la Slovenia e la Croazia da sempre appartengono all’orbita occidentale, facendo le stesse parte anche dell’Unione europea, mentre il resto dei Paesi della regione storicamente oscilla tra la sfera d’influenza occidentale e quella russo-turca.
L’Albania e la Macedonia, ad esempio, stanno attuando delle riforme con l’obiettivo di entrare nell’Unione europea.
Tutt’altra linea segue il Montenegro, il quale tende ad avvicinarsi a ideali filo-russi e filo-serbi. Come conseguenza, il Paese non riconosce il Kosovo e il suo processo di adesione all’UE è andato in stallo.
La Serbia invece, in quanto Paese candidato, dovrebbe cercare di allinearsi alla politica estera dell’UE, ma è ancora lontana dal farlo. Disattendere tale aspettativa è una delle conseguenze di una complessa situazione geopolitica del Paese, fortemente diviso tra Est e Ovest, tra la vicinanza politica, culturale e religiosa con Mosca e il desiderio di accedere ai benefici che derivano dall’appartenenza all’Unione europea. Allo stesso modo la Bosnia ed Erzegovina sta cercando di entrare nell’Unione, nonostante si mantenga neutrale e non condanni l’azione militare russa.
I rapporti con l’Unione Europea e gli altri Stati esteri
Storicamente, i Paesi balcanici hanno sempre avuto un ruolo chiave negli scontri tra le varie potenze europee. Con la perdita di centralità del vecchio continente, la preoccupante situazione demografica ed una economia instabile, la regione ha perso la sua storica importanza strategica e ad oggi riveste solo uno scenario secondario, comunque importante, per i contrasti informali tra le potenze odierne.
L’UE è il gigante più vicino: costituisce il maggior partner economico per i Paesi, dominando le importazioni e le esportazioni, stanziando fondi e programmando investimenti, non riuscendo tuttavia a trasformare questo dominio economico in un’influenza politica concreta. Infatti, nonostante Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina siano candidati all’ingresso nell’UE, il processo si è rallentato, principalmente a causa delle varie ingerenze degli Stati membri (ad esempio, solo 22 membri su 27 riconoscono il Kosovo). Ciò alimenta un clima di sfiducia verso l’UE nei Paesi balcanici, rinforzato dalle difficoltà che questa incontra anche sulla gestione di altre questioni; il sogno di un’Europa unita passa decisamente in secondo piano, mentre cresce sempre più la necessità di azioni politiche concrete.
Oltreoceano, gli USA rappresentano i garanti della sicurezza nella regione; tutti i Paesi, ad eccezione della Serbia, hanno un legame più o meno esplicito con la NATO. Essi tendono a non interferire direttamente nelle vicende politiche, se non quando vengono “oltrepassati” certi limiti; in questo caso Washington agisce con prepotenza per ripristinare la situazione.
L’altro grande gigante del Novecento, la Russia, gode di uno storico legame con Belgrado e con le comunità ortodosse della regione. Essa cerca di interferire nella politica facendosi forte delle classi dirigenziali opposte al binomio USA-UE. A livello economico, essa possiede il predominio energetico, controllando i principali gasdotti della regione. Un altro storico partner, la Turchia, è invece il faro delle comunità islamiche, attratte dal suo modello di islam politico e con le quali essa cerca di intrecciare rapporti diplomatici. Nei recenti anni questi due storici partner hanno diversificato i loro rapporti, cercando anche realtà diverse e ottenendo risultati alterni.
Tale scenario lascia aperte molte opportunità di collaborazione e investimento per le potenze mondiali. Un Paese che ha saputo cogliere il potenziale dei Balcani è stata la Cina; entrata nell’area per la via economica, si muove principalmente costruendo rapporti informali con le classi dirigenziali, finanziando e promuovendo la costruzione di numerose infrastrutture nella regione, e, specialmente in Serbia, ha rafforzato la sua popolarità in seguito agli aiuti stanziati per la gestione della pandemia.
Ad oggi, i Balcani rimangono una regione fortemente instabile e tormentata, in costante balìa delle influenze occidentali e orientali, in cui anche i rapporti interni sono complessi. Risulta dunque difficile stabilire come si potrà evolvere questo scenario, ma con buona probabilità saranno le azioni delle grandi potenze ad avere un ruolo chiave nel futuro economico e politico della regione. Una possibile stabilizzazione della situazione si potrà avere solo quando i Paesi balcanici saranno in grado di far risuonare la propria voce e autodeterminarsi. Fondamentale sarà in particolare la capacità di dialogo con le potenze mondiali e di adeguamento agli standard previsti dall’Unione europea, al fine di un futuro ingresso.
Bibliografia e sitografia
Bonifati Lidia, Conoscere i Balcani: in essi c’è la nostra storia, in Lo Spiegone, 11 settembre 2017, https://lospiegone.com/2017/09/11/conoscere-i-balcani-in-essi-ce-la-nostra-storia/
De Munter André, I Balcani occidentali, Parlamento Europeo, aprile 2023, https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/168/i-balcani-occidentali
Fruscione Giorgio, Balcani: se l’Occidente sbaglia approccio sul dossier kosovaro, Istituto per gli Studi di politica internazionale, 6 settembre 2023, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/balcani-se-loccidente-sbaglia-approccio-sul-dossier-kosovaro-139711
Petrovic Nadan, Balcani: il retaggio storico, la crisi post-Covid e la sfida dell’allargamento, Centro Studi di Politica Internazionale, 6 luglio 2020, https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/dibattiti/la-ue-i-balcani-la-scommessa-dellallargamento/balcani-il-retaggio-storico
La storia dei Balcani, in Il labirinto del Kosovo, a cura di Laurana Lajolo, 28 giugno 1999, https://www.italia-liberazione.it/novecento/antecedenti.html
Penisola Balcanica, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/penisola-balcanica/
Balcani, Dizionario di Storia, 2010, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/balcani_(Dizionario-di-Storia)/
Kosovo, in Atlante Geopolitico, 2015, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/kosovo_(Atlante-Geopolitico)/
La tormentata storia dei Balcani, Istituto Italiano Edizioni Atlas, 2019, https://youtu.be/J03HVfhKghY
La Libia è a un punto di svolta. Il 2018 potrebbe infatti essere l’anno decisivo per la risoluzione del periodo di instabilità politica. Dalle elezioni, annunciate per la primavera di quest’anno, dipende non solo il futuro della Libia – a livello politico ed economico – ma anche stabilità di tutta l’area del Mediterraneo, la regolazione dei flussi migratori e le future strategie politiche dei paesi Europei.
Ma qual’ è attualmente la situazione governativa in Libia? Per comprendere meglio l’attuale situazione di stallo dobbiamo fare alcuni passi indietro, ripercorrendo i principali avvenimenti che sono alla base di un instabilità politica che si protrae da oltre 7 anni.
Dopo la caduta del regime di Muhammar Gheddafi, nell’ottobre del 2011, il paese è caduto in un duraturo stato di caos politico caratterizzato da violenza e guerriglia, con ricadute negative anche sui paesi circostanti.
Nel luglio del 2012, dopo un’egemonia politica durata più di quarant’anni, in Libia si torna per la prima volta alle elezioni. Il Consiglio Nazionale di Transizione cede il mandato al nuovo governo eletto: il Congresso Nazionale Generale (GNC), incaricato di formare un governo ad interim e di redigere una nuova costituzione, con un mandato della durata di 18 mesi.
Già nel giugno 2013 tuttavia i partiti islamisti riescono ad imporsi all’interno del governo sulla maggioranza liberale, facendo in modo che Nuri Busahmein venga eletto presidente del Congresso Nazionale Generale.
A partire dal febbraio 2014 il generale Khalifa Haftar diviene un personaggio chiave per lo sviluppo della situazione politica in Libia.
Haftar – precedentemente al servizio del regime di Gheddafi – si oppone al Congresso Nazionale Generale, di cui richiede ufficialmente lo scioglimento.
Pochi mesi dopo Haftar lancia un’offensiva terrestre e aerea contro i gruppi armati islamisti di Bengasi.
L’operazione dell’auto proclamato Esercito Nazionale Libico guidato da Haftar viene nominata “operazione Dignità” e ha lo scopo dichiarato di liberare il paese delle violenze e dall’oppressione delle milizie islamiste. Il primo ministro al-Thani sconfessa l’operazione, condannandola come un illegale tentato colpo di stato. Malgrado la condanna ufficiale, è però emerso ben presto che l’azione militare di Haftar a Bengasi era stata appoggiata da parte dell’esercito regolare, compresa la base militare di Tobruk, sulla costa orientale. Il governo si conferma quindi incapace controllare il territorio libico e addirittura le proprie forze armate. Haftar e le sue milizie sono inarrestabili e si scagliano contro il Parlamento di Tripoli che è costretto a sciogliersi.
Il GNC si vede dunque costretto ad indire nuove elezioni. Ai seggi si reca meno del 18% degli aventi diritto: ben 12 membri non possono essere eletti per via dell’inagibilità dei seggi causata dagli scontri armati.
Le elezioni del 2014 vedono in fine una netta sconfitta delle forze islamiste in favore dei partiti liberali e federalisti. Il clima di instabilità e violenze tuttavia permane, tanto che i parlamentari decidono di riunirsi non a Tripoli, come sarebbe previsto per legge, ma a Trobuk città protetta dalle forze del generale Haftar e dunque al riparo dagli attacchi islamisti. Questa decisione viene boicottata da Trenta deputati (principalmente islamisti e misuratini).
Le forze islamiste e le milizie di Misurata si alleano dunque sotto il nome di Alba Libica. Dall’unione di alcuni rappresentanti del vecchio Congresso Nazionale Generale e dei trenta oppositori del parlamento di Trobuk nasce, sotto l’egida di Alba Libica, il “Nuovo Congresso Nazionale Generale” che riconosce Tripoli come capitale, Nuri Busahmein come presidente e Omar al-Hasi come primo ministro.
Nel marzo del 2015 il parlamento regolarmente eletto con sede a Trobuk e presieduto da al-Thani aderisce ufficialmente all’operazione “dignità” del generale Haftar, nominandolo ufficialmente capo dell’esercito libico.
Si delinea così la situazione di governo conteso che vede contrapporsi il governo di Tripoli e il governo di Trobuk. Sebbene l’ONU abbia fortemente sostenuto il dialogo tra i due governi, con lo scopo di raggiungere finalmente la stabilità politica e la fine degli scontri armati, la presenza di gruppi oltranzisti in entrambe le fazioni ha reso vano ogni tentativo di pace.
La situazione di stallo si protrae per tutto il 2016. Molti membri di entrambi i parlamenti si sono espressi a più riprese in favore dell’accordo di pace promosso dall’ONU (detto Lybian Political Agreement) e quindi a favore di un unico governo nazionale, tuttavia i due presidenti Nuri Busahmein (governo di Tripoli) e Aguila Saleh Issa (governo di Trobuk) hanno continuato ad esprimere parere negativo.
In aprile il governo di Tripoli si scioglie. I membri dell’ormai ex Nuovo Congresso Nazionale Generale votano per l’adesione al Lybian Political Agreemente (LPA). Così come previsto dal LPA viene formato un nuovo Consiglio di Stato presieduto da Abdulrahman Al-Swehli.
Il sostegno dell’altro parlamento (Trobuk) però tarda ad arrivare, così come l’appoggio del generale Haftar, rendendo impossibile il consolidarsi del potere e dell’autorità del Governo di Unità Nazionale.
Nel settembre 2016 Haftar si schiera definitivamente contro il Governo di Unità Nazionale attaccando con le sue milizie i porti nella zona petrolifera (Sidra, Ras Lanuf, Brega e Zueitina).
Il 2017 ha inizio con un tentato colpo di stato da parte dell’ex primo ministro al-Ghweil.
Nel corso dell’anno proseguono gli scontri tra il Governo di Accordo Nazionale, presieduto da Fayez al-Sarraj, e l’Esercito Nazionale Libico del generale Kahlifa Haftar che continua ad esercitare il suo controllo sulla Cirenaica grazie al sostegno egiziano e russo.
Nel luglio dello stesso anno il presidente francese Emmanuel Macron ospita un vertice a Parigi per favorire il dialogo e l’accordo tra Serraj e il generale Haftar. Al vertice è stato invitato anche il nuovo rappresentante dell’Onu per la Libia, il libanese Ghassem Salemè.
L’incontro di Parigi ha portato all’impegno di “lavorare insieme per un processo di riconciliazione nazionale e per la costruzione di una pace durevole”. Una cooperazione che l’Europa si auspica possa favorire l’eliminazione dei traffici d’armi che alimentano il terrorismo, e del traffico di esseri umani che alimenta le vie migratorie.
In questo scenario si affaccia oggi un nuovo giocatore Said al-Islam Gheddafi, figlio del defunto dittatore, candidatosi di recente alle elezioni 2018.
La discussione sulle prossime elezioni si è riaperta ad inizio anno proprio a causa delle dichiarazioni rilasciate da Haftar riguardo al-Islam. Secondo il generale la candidatura del giovane al-Islam sarebbe quanto meno illogica poiché priva di un sostegno popolare. Le dichiarazioni di Haftar fanno temere risvolte anti-democratici. Egli infatti non solo ha dichiarato che la Libia non è effettivamente pronta per la democrazia, ma anche che il suo Esercito Nazionale sarà pronto ad intervenire nel caso in cui le consultazioni politiche non dovessero riuscire a porre fine ai tumulti e alle violenze che lacerano il paese da anni.
In Libia manca ancora una legge elettorale, tuttavia la registrazione degli elettori da parte della commissione elettorale ha già avuto inizio. Il presidente della commissione Emad Al Sayeh ha dichiarato che dovrà registrarsi anche chi lo ha già fatto in passato, visto che saranno aggiornati gli elenchi elettorali.
“Devono sussistere condizioni legislative in termini di legge elettorale, così come condizioni politiche nel senso che tutti i libici (…) dovrebbero accettare i risultati delle elezioni”.
Grandi speranze dunque sono riposte nelle elezioni, che possano portate in Libia la stabilità politica ed economica, ma soprattutto la fine della guerra civile.
Ha parlato di una vittoria per la democrazia il premier tunisino, Youssef Chahed, commentando a caldo la fiducia ottenuta dal Parlamento per la sua nuova squadra di governo. “Le crisi non possono essere risolte che nel rispetto della Costituzione e passando dal Parlamento”, ha detto Chahed precisando che “si tratta di un processo adottato sin dall’inizio. Mi felicito anche con il presidente della Repubblica che ha fatto appello al rispetto del parlamento e a rivolgersi ad esso per la risoluzione delle crisi. Ora il governo deve occuparsi dei problemi della gente riducendo il deficit e spingendo verso la crescita economica. I nostri sforzi si concentreranno nei prossimi mesi a sorvegliare i circuiti di distribuzione per ridurre i prezzi, lottare contro le importazioni anarchiche e migliorare le infrastrutture e lo sviluppo locale”, ha dichiarato il premier. Il governo veglierà anche ad attenuare le tensioni politiche prima delle scadenze elettorali del 2019 facendo il possibile per sensibilizzare i cittadini ad andare a votare, per non andare incontro ad un tasso di astensione importante, come quello riscontrato nelle elezioni comunali del marzo scorso. Giornata importante anche per il neo ministro del Turismo, René Trabelsi, uomo d’affari di confessione ebraica, che ha definito “storica per lui e per la Tunisia il voto di fiducia odierno”. Non succedeva dal 1956 che un ministro di fede ebraica facesse parte di un governo della Repubblica tunisina. “Farò tutto il possibile per applicare le nuove idee al fine di migliorare il settore turistico” ha detto Trabelsi precisando di “poter contare sulla sua esperienza ultraventennale in campo turistico”. (ANSAmed).
Il 19 gennaio il Parlamento turco di Ankara, dopo più di due settimane di consultazioni e intensi dibattiti, ha approvato con 339 sì e 142 no gli emendamenti alla Costituzione che cambieranno di fatto il volto della Turchia, mutandola in una Repubblica presidenziale. Resta solo il referendum popolare per concludere l’iter previsto, che si terrà il 16 aprile.
Il premier Binali Yıldırım si è espresso con entusiasmo riguardo gli esiti della riforma. “Il partito è rimasto compatto come una roccia, abbiamo fatto il nostro dovere, ora la parola spetta al popolo, che è il vero padrone della nazione” commenta inaugurando la seconda fase nella quale il governo “spiegherà alle piazze come questa riforma faccia bene alla democrazia”.
D’altro canto l’opposizione, tramite il segretario Kemal Kılıçdaroğlu, rivolge il proprio appello alla popolazione turca affinché venga corretto il grave errore commesso dal parlamento.
Dopo aver vissuto momenti di tensione a seguito di numerosi arresti tra intellettuali, giornalisti, giuristi e tra le fila dell’opposizione, il portavoce dell’Hdp (il partito filo-curdo), Ayhan Bilgen, facendo appello al sostegno dei “circoli democratici, della società civile e dell’opinione pubblica internazionale”, ha riferito che gli arresti con accuse di “terrorismo” di almeno 11 deputati del suo partito, compresi i leader Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, “resteranno come una macchia nera nella storia della Turchia e della politica”. Ulteriori momenti di tensione si sono concretizzati in una rissa poco dopo la protesta portata avanti dalla deputata Aylin Nazlıaka, incatenatasi al microfono.
Con violenza, quindi, entra in vigore la riforma, apportando diversi cambiamenti nel sistema di potere in Turchia. Cambierà la regolamentazione relativa allo stato di emergenza aggiungendo, inoltre, un’eventuale leva di massa.
Il presidente della repubblica potrà proporre la sospensione o la limitazione di diritti civili e libertà fondamentali, argomento particolarmente importante, dibattuto lo scorso 13 gennaio nel convegno incentrato sulle conseguenze dello stato d’emergenza sul sistema giuridico del paese.
Doveva parteciparvi anche l’avvocata Barbara Spinelli del Foro di Bologna, bloccata all’aeroporto di Istanbul ed espulsa a causa della sua attività di denuncia delle violazioni dei diritti umani, contro la popolazione del Kurdistan, e della repressione degli avvocati in Turchia. “Espulsa per motivi di sicurezza”, riferisce a “RadioRadicale”, dopo l’essersi opposta alla consegna del proprio telefono cellulare, nel rispetto della propria privacy e di quella dei clienti.
Sono stati modificati i meccanismi che portano alla messa in stato di accusa del presidente della Repubblica assieme ai vicepresidenti e agli esponenti del governo, per la quale è richiesta la maggioranza assoluta dei voti del Parlamento, che avrà 600 parlamentari. La proposta dovrà essere discussa entro un mese e approvata dai tre quinti dell’Assemblea; in base alla composizione di quest’ultima sarà poi riunita una commissione di 15 parlamentari che in due mesi (con la possibile proroga di un mese) dovrà produrre un’informativa per il parlamento cui spetterà, nei 10 giorni successivi, la pronuncia definitiva e la conseguente messa in stato d’accusa. In caso di sentenza di condanna per un crimine che comporta ineleggibilità, l’imputato decadrà automaticamente dalla carica.
Il presidente Erdoğan potrebbe governare il paese fino al 2029 con poteri superiori a quelli attuali poiché l’introduzione della riforma permetterà due successivi mandati, contrariamente a quanto previsto dalle precedenti regole costituzionali (sancendo due mandati da cinque anni per il presidente), che avrebbero comportato il termine del mandato nel 2019. Nel nuovo ordinamento sarà consentito il contemporaneo svolgimento delle elezioni presidenziali e parlamentari, prevedendo legislature della durata di 5 anni per Capo dello Stato e deputati; con la maggioranza dei due terzi dei parlamentari, il presidente potrà anche svolgere un secondo mandato.
Modificata anche la composizione dell’organico del Consiglio Superiore della Magistratura, che diventa “Consiglio dei giudici e magistrati” e passa da 22 a soli 13 membri e che si riunirà sotto la presidenza del ministro della Giustizia. Tre dei tredici membri saranno scelti da presidente della Repubblica, gli altri 10 saranno eletti dal parlamento ogni 4 anni.
Negli anni passati era stata istituita una commissione mista tra il partito di Erdoğan, il partito repubblicano del popolo ed il movimento nazionalista per lavorare a delle modifiche costituzionali. Ricordiamo che si tratta di una costituzione emanata nel 1982, due anni dopo il golpe militare del 1980, quindi parliamo di una costituzione di forte impronta militare, non più al passo con l’evoluzione che la Turchia ha avuto nei decenni successivi e sta avendo negli ultimi anni.
Il processo di riforma era già in cantiere da tempo, la spinta presidenzialista sostenuta dall’ Akp cozzava contro le opinioni delle fazioni opposte; negli ultimi mesi si era trovato un accordo con il partito nazionalista, una convergenza che ha dato all’Akp la possibilità di ottenere i voti necessari, appunto 330, per far approvare in parlamento un testo di riforma costituzionale poi sottoposto a Referendum.
La riforma è di stampo presidenziale volta a far cambiare volto alla Repubblica, da parlamentare in presidenziale con tutto quel che comporta in termini di assunzione di poteri da parte del presidente, che avrà una forte concentrazione di potere esecutivo nelle sue mani.
Qui il rischio potrebbe derivare da una possibile eccessiva concentrazione di poteri nelle mani di un leader come Erdoğan, che da quando è stato eletto, ha portato avanti un processo di trasformazione del sistema giuridico volto a questo.
Assumendo più poteri di quelli previsti dalla costituzione stessa, ha gradualmente generato un’erosione del sistema di pesi e contrappesi, i cosiddetti checks and balances, fondamentali per garantire gli equilibri costituzionali; in ultima istanza la svolta autoritaria in Turchia c’è stata.
La stabilità in termini politici non si dissocia e cammina di pari passo con la gestione della sicurezza, nonostante da anni le opposizioni deboli continuino a proporre un programma alternativo a quello proposto dall’Akp, con non poche difficoltà organizzative e d’attuazione.
La stabilità della Turchia oggi è strettamente legata e minacciata dal terrorismo, da un lato di matrice Jihadista, dall’altro curdo. Continua a risultare una questione irrisolta quella riguardante la parte curda del paese, che nel tempo si è lentamente trasformata in uno scontro aperto con l’amministrazione dell’Akp. L’obiettivo dovrebbe quindi essere il riportare la stabilità affrontando questi problemi, contrastando al contempo la minaccia del terrorismo. Inoltre le epurazioni avvenute nei mesi passati, poco dopo il golpe, han colpito l’apparato di sicurezza, lasciando la Turchia in una situazione difficile con parte dell’organico venuto a mancare e ci vorrà del tempo perché le strutture di sicurezza tornino a funzionare a pieno regime; si può tranquillamente affermare che una maggiore stabilità può essere difficile da raggiungere in breve tempo.
La figura di Erdoğan è vista come il Rais incontrastato in Turchia; bisognerà vedere come Erdoğan avrà intenzione di portare avanti il proprio progetto e considerato quanto avvenuto fino ad ora, non appare impensabile credere che possa esserci una linea di continuità.
Per quanto ancora Bruxelles potrà continuare ad ignorare la situazione della Turchia e non procedere con il blocco delle trattative? Per quanto riguarda i legami internazionali tra USA, Russia, Europa e paesi del medio oriente, bisogna ricordare che trovano origine da una serie di legami di interessi ed accordi conseguenti, convergenze strategiche che spesso esulano da un discorso di politica interna.
La candidatura della Turchia all’Unione Europea ha visto e subito numerose battute d’arresto, non da ultimo il parlamento europeo, a fine novembre, si è espresso per una sospensione della candidatura che comunque negli anni si era rivelata già piuttosto altalenante.
Anche l’ipotesi di reintrodurre la pena di morte in Turchia, dopo il tentativo di golpe, aveva destato allarme negli ambienti europei ed avrebbe portato automaticamente ad un arresto dei negoziati.
Parlando più in generale anche degli arresti susseguitisi negli anni e negli ultimi mesi c’è e continua una politica di pugno duro che va oltre l’epurazione dei soli membri filogulenisti, andando a conformarsi come una forma di repressione del dissenso al regime a tutti gli effetti. In un’atmosfera segnata da una caccia alle streghe di enormi dimensioni, quest’evoluzione legislativa potrebbe non permettere un futuro stabile ma per saperlo bisognerà attendere ed osservare i movimenti di una rinnovata Turchia.
Nel 2018 le autorità iraniane hanno portato avanti una spudorata campagna repressiva contro il dissenso, stroncando proteste e arrestando migliaia di persone.
Lo ha dichiarato oggi Amnesty International, a un anno dall’ondata di proteste contro la povertà, la corruzione e l’autoritarismo che presero il via in tutto il paese.
Nel corso del 2018 oltre 7000 persone – manifestanti, giornalisti, studenti, ambientalisti, operai, difensori dei diritti umani, avvocati, attiviste per i diritti delle donne e delle minoranze e sindacalisti – sono state arrestate, in molti casi in modo arbitrario. A centinaia sono stati condannati a pene detentive o alle frustate e almeno 26 manifestanti sono stati uccisi. Altre nove persone, arrestate in relazione alle proteste, sono morte durante la detenzione in circostanze sospette.
“Il 2018 passerà alla storia come l’anno della vergogna in Iran. Per tutto il tempo le autorità hanno cercato di ridurre al silenzio ogni forma di dissenso inasprendo la repressione ai danni dei diritti alla libertà d’espressione, di associazione e di manifestazione pacifica e compiendo arresti di massa di manifestanti”, ha dichiarato Philip Luther, direttore delle ricerche di Amnesty International sul Medio Oriente e l’Africa del Nord.
“L’impressionante numero di arresti, condanne e sentenze alla fustigazione rivela fino a che punto estremo le autorità sono arrivate pur di sopprimere il dissenso pacifico”, ha commentato Luther.
Lungo tutto il corso dell’anno ma soprattutto nei mesi di gennaio, luglio e agosto, le autorità hanno disperso con la violenza manifestazioni pacifiche, picchiando manifestanti privi di strumenti di offesa, usando proiettili veri, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua e arrestando arbitrariamente migliaia di persone.
Durante le manifestazioni di gennaio sono stati arrestati molti giornalisti, studenti e difensori dei diritti umani, così come i dirigenti di Telegram, l’applicazione di messaggistica usata per diffondere informazioni sulle proteste e mobilitare i manifestanti.
Complessivamente, nel 2018 sono stati arrestati arbitrariamente, sia durante le proteste che nell’ambito del loro lavoro, 11 avvocati, 50 operatori dell’informazione e 91 studenti.
Almeno 20 operatori dell’informazione sono stati condannati a lunghi anni di carcere o alle frustate al termine di processi iniqui. Mohammad Hossein Sodagar, un giornalista della minoranza turca della regione dell’Azerbaigian, è stato frustato 74 volte nella città d Khoy per aver “diffuso notizie false”.
Un altro giornalista, Mostafa Abdi, amministratore del sito Majzooban-e-Noor che denuncia le violazioni dei diritti umani ai danni della minoranza religiosa dei gonabadi, è stato condannato a 26 anni e tre mesi di carcere e a 148 frustate, oltre ad altre pene accessorie.
In totale, nel 2018 112 difensore dei diritti umani sono finite o hanno continuato a rimanere in carcere.
Le difensore dei diritti umani
Il coraggioso movimento delle difensore dei diritti umani ha aderito alle proteste, convocate per tutto l’anno nel paese per protestare contro le invadenti e obbligatorie norme sull’obbligo d’indossare lo hijab.
Tante donne sono scese in strada e, una volta scelto un luogo pubblico rialzato e in evidenza, si sono tolte il velo, lo hanno fissato a un bastoncino e hanno iniziato a sventolarlo. Le autorità hanno reagito attraverso aggressioni violente, arresti, maltrattamenti e torture. Alcune di loro sono state condannate al termine di processi gravemente iniqui.
Shaparak Shajarizadeh è stata condannata a 20 anni di carcere, 18 dei quali sospesi, per aver protestato pacificamente contro l’obbligo d’indossare lo hijab. Dopo aver pagato la cauzione per il rilascio, ha lasciato l’Iran. Dall’estero, continua a denunciare le torture subite durante la detenzione in isolamento e l’impossibilità di essere difesa da un avvocato nel corso di quel periodo.
Nasrin Sotoudeh, la celebre avvocata per i diritti umani che ha poi assunto la difesa di Shaparak Shajarizadeh e di altre donne che avevano protestato contro l’obbligo d’indossare lo hijab, è stata arrestata il 13 giugno 2018. Oltre ai cinque anni di carcere che sta già scontando per la sua opposizione alla pena di morte, rischia una condanna a oltre 10 anni per svariati reati contro la sicurezza nazionale.
“Per tutto il 2018 le autorità iraniane hanno portato avanti una campagna particolarmente minacciosa contro le difensore dei diritti umani. Invece di punirle spietatamente perché rivendicano i loro diritti, le autorità dovrebbero porre fine alla discriminazione e alle violenze, radicate e dilaganti, nei confronti delle donne”, ha sottolineato Luther.
Diritti dei lavoratori e sindacalisti
Lo scorso anno la crisi economica si è acuita provocando numerosi scioperi e manifestazioni per rivendicare migliori condizioni di lavoro e chiedere protezione al governo. I ritardi o il mancato versamento dei salari, insieme agli alti livelli d’inflazione, hanno fatto salire alle stelle il costo della vita e sono stati a loro volta causa di proteste.
Invece di venire incontro alle loro richieste, le autorità iraniane hanno arrestato almeno 467 lavoratori tra cui operai delle industrie, insegnanti e camionisti. Altri sono stati convocati per interrogatori, altri ancora sono stati sottoposti a maltrattamenti e torture. Sono state inflitte decine di condanne a pene detentive e 38 lavoratori sono stati sottoposti a un totale di quasi 3000 frustate.
Il 10 maggio a Teheran è stata violentemente dispersa una manifestazione pacifica degli insegnanti, che chiedevano salari più alti e più fondi per l’istruzione pubblica. Nelle altre proteste di novembre e dicembre sono stati arrestati almeno 23 insegnanti: otto sono stati condannati a pene detentive da nove mesi a 10 anni e mezzo di carcere, a 74 frustate e ad altre pene accessorie.
Nel corso del 2018 sono stati arrestati almeno 278 camionisti, alcuni dei quali minacciati persino di condanna a morte, a seguito degli scioperi convocati a livello nazionale per chiedere salari più alti e migliori condizioni di lavoro.
A febbraio e novembre hanno scioperato anche i lavoratori della Haft Tapeh, un’azienda di Shush che produce canna da zucchero.
“Dagli insegnanti sottopagati agli operai delle fabbriche che stentano a dar da mangiare alle loro famiglie, coloro che oggi in Iran rivendicano i loro diritti pagano un prezzo alto. Invece di prendere in considerazione le richieste dei lavoratori, le autorità hanno risposto col pugno di ferro, arresti e repressione”, ha detto Luther.
Appartenenti a minoranze etniche e religiose
Durante il 2018 la repressione si è intensificata anche nei confronti delle minoranze etniche e religiose, con centinaia di arresti e ulteriori limitazioni all’accesso all’istruzione, all’impiego e ad altri servizi.
Un giro di vite particolarmente aspro ha riguardato la minoranza religiosa dei dervisci gonabadi, il più grande ordine sufi dell’Iran. Dopo il violento scioglimento di una protesta nel febbraio 2018, centinaia di loro sono stati arrestati e oltre 200 sono stati condannati a un totale di 1080 anni di carcere, 5995 frustate oltre che all’esilio interno, al divieto di viaggiare all’estero e a quello di aderire a gruppi sociali e formazioni politiche. Uno di loro, Mohammad Salas è stato condannato a morte al termine di processo fortemente irregolare e messo rapidamente a morte.
Nel corso dell’anno, secondo dati forniti dall’associazione Articolo 18, sono stati arrestati almeno 171 cristiani, colpevoli solo di aver praticato pacificamente la loro fede. Alcuni di loro sono stati condannati persino a 15 anni di carcere.
Le autorità hanno portato avanti la loro sistematica persecuzione ai danni della minoranza religiosa baha’i: secondo l’organizzazione Baha’i International Community, almeno 95 fedeli sono stati arbitrariamente arrestati e hanno subito ulteriori violazioni.
Centinaia di persone delle minoranze etniche – tra cui gli arabi ahwazi, i turchi azerbaigiani, i baluchi, i turcmeni e i curdi – hanno subito varie forme di discriminazione e sono state arrestate arbitrariamente.
Ad aprile, dopo aver protestato contro un programma televisivo in cui era stata mostrata una carta geografica sulle minoranze etniche che escludeva la popolazione araba, sono stati arrestati centinaia di ahwazi. Secondo attivisti in esilio a ottobre, dopo l’attentato mortale del mese prima contro una parata militare ad Ahvaz, oltre 700 ahwazi sono stati arrestati e portati in località sconosciute.
Centinaia di turchi azerbaigiani, tra cui attivisti per i diritti delle minoranze, sono stati arrestati in relazione a pacifiche iniziative di taglio culturale organizzate nel corso dell’anno, soprattutto a luglio e agosto, quando sono stati eseguiti almeno 120 arresti. Alcuni attivisti sono stati condannati al carcere e alle frustate. Uno di loro, Milad Akbari, è stato frustato a Tabriz, nella provincia dell’Azerbaigian orientale, dopo essere stato giudicato colpevole di “turbamento dell’ordine pubblico” per aver “preso parte a riunioni illegali e aver cantato canzoni eccentriche” nel corso di un incontro culturale.
Attivisti per i diritti dell’ambiente
Durante il 2018, secondo fonti di stampa, sono stati arrestati almeno 63 difensori e ricercatori ambientalisti. Diversi di loro sono stati accusati, senza esibire alcuna prova, di aver raccolto informazioni riservate su aree del paese considerate strategiche, con la scusa di portare avanti progetti sull’ambiente e di natura scientifica. Almeno cinque di loro sono stati accusati del reato di “corruzione sulla Terra”, che prevede la pena di morte.
“Per tutto lo scorso anno le autorità iraniane hanno cercato di schiacciare lo spirito dei manifestanti e dei difensori dei diritti umani eseguendo arresti di massa e persino grottesche condanne alla fustigazione”, ha sottolineato Luther.
“I governi impegnati nel dialogo con l’Iran non devono rimanere in silenzio mentre il reticolo della repressione continua ad allargarsi. Devono protestare nei termini più forti possibili contro la repressione e chiedere con vigore alle autorità iraniane di rilasciare immediatamente e senza condizioni tutte le persone finite in carcere per aver esercitato in forma pacifica i loro diritti alla libertà d’espressione, di associazione e di manifestazione, anche attraverso il loro attivismo per i diritti umani”, ha concluso Luther.
Agenpress.it
Ci si potrebbe domandare se è possibile che si sviluppi un senso di identità in uno stato come la Siria, dove, nel corso degli anni, si sono avvicendate una serie di dominazioni e sono presenti molte frammentazioni etnico-politiche. La Siria è stata infatti dominata dagli Arabi, dall’impero Ottomano, dai Francesi e dagli Inglesi.
Dal 2011 nel paese è in corso una guerra civile che ha visto come contendenti da una parte il governo centrale di Bashar al Assad, sostenuto principalmente dalla Russia, e dall’altra l’esercito libero siriano, sostenuto principalmente dagli USA e da alcuni paesi europei (anche se ormai il conflitto si può ritenere risolto a favore del blocco filo-russo). Una delle conseguenze di questa guerra, che ha dilaniato il paese, si riscontra nel fatto che molti siriani sono stati costretti all’esodo, prevalentemente in Libano, Giordania e Turchia, cercando da quest’ultima, senza successo, una via verso l’Europa.
I profughi, essendo molto numerosi, spesso sono costretti a vivere in luoghi privi di assistenza sanitaria, libertà di movimento, istruzione e condizioni igieniche dignitose.
Se pensiamo agli abitanti di piccoli villaggi, spesso molto legati ai propri luoghi d’origine e con pochi mezzi a loro disposizione, viene naturale constatare come abbiano il desiderio di rimanere all’interno del territorio. Tuttavia è frequente che siano costretti a spostarsi verso i grandi centri abitati a seguito dell’incessante pressione subita, anche tramite incursioni e bombardamenti.
Un uomo siriano, padre di nove figli, descrive con queste parole la situazione in un campo profughi nella regione di Akkar (Libano): “Qui la nostra vita è come una morte vivente. La vita è insopportabile. È come vivere in una prigione a cielo aperto a causa dei posti di blocco. La nostra famiglia vive in un garage e i proprietari ci fanno pagare come se fossimo in un appartamento. Non c’è futuro per i nostri figli qui.”
Alcune delle persone che invece hanno scelto di restare tentano di gettare le basi per costruire un futuro più stabile per propri figli e combattono con i propri mezzi per esso. Su questo fronte un esempio è quello di Hevrin Khalaf, che è stata una politica curda (con cittadinanza siriana) e segretaria generale del Partito della Siria del Futuro. Hevrin si è impegnata per la pace in Siria ma è stata assassinata ad ottobre nei pressi di Qamishli da un commando di miliziani arabi-siriani nell’avanzata di conquista del Rojava da parte della Turchia.
Pensiamo anche a Seyde Goesteris, missionaria laica, impegnata nell’aiutare profughi e persone che vivono nelle zone di guerra di tutto lo stato, che racconta: “Tempo fa, avevamo caricato un container con aiuti di ogni genere (letti, coperte, medicamenti, ecc.). Occorrevano molti permessi per poter far passare questi carichi, e per il tir era ancora più difficile. In quell’occasione, grazie all’aiuto di un’associazione di donne cristiane locali siamo riusciti a fare transitare il camion alla frontiera siriana in sole due ore, invece delle due settimane standard. Siamo stati molto fortunati. Abbiamo anche portato aiuto e materiale medico a diversi ospedali che versavano in condizioni disastrose. È stata quasi un’impresa raggiungere alcune zone della città di Aleppo. La strada principale era controllata dalle milizie dei ribelli, che non permettevano a nessuno di percorrerla.”
Viene da chiedersi se, in un paese completamente distrutto e da ricostruire come è la Siria, questa stessa condizione di distruzione si ripresenti anche nel cuore delle persone. Non sempre infatti queste riescono a trovare la forza ed il coraggio di ricostruire non tanto le case, quanto piuttosto l’umanità e il sentimento di partecipazione alla vita di un paese nel quale riconoscere sé stessi come parte di una comunità.
Da parte nostra possiamo solo provare ad immaginare quanto per i siriani l’amore per la propria terra, soprattutto se sconvolta e ferita, sopravviva nei loro cuori ed ispiri il desiderio di ricominciare.
Israele annuncia la ripresa della colonizzazione a Gerusalemme Est, la parte della città che era stata occupata ne 1967 e in seguito annessa nel 1980, il 22 Gennaio è stato approvato definitivamente il progetto per la realizzazione di 566 nuovi alloggi nei quartieri di Pisgat Zeev, Ramot e Ramat Shlomo.
Colpisce il fatto che l’autorizzazione all’ampliamento e alla costruzione degli insediamenti a Gerusalemme Est sia arrivata nonostante l’approvazione il 23 Dicembre scorso della risoluzione n° 2334 da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che dichiarava illegali la costruzione e l’ampliamento degli insediamenti israeliani , mentre non sorprende che il progetto abbia ricevuto il via libera a due giorni dall’isediamento del neo presidente statunitense Donald Trump alla casa bianca dopo che era stato bloccato su richiesta di Benjamin Netanyahu proprio per attendere la fine del mandato di Barack Obama. Appare chiaro che i leader israeliani si sentono in qualche modo rassicurati dal nuovo presidente USA che non ha mai nascosto le sue simpatie per Israele (si era infatti detto favorevole a spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme) Nir Barkat, sindaco di Gerusalemme ed esponente del Likud (il partito di Netanyahu), ha dichiarato che dopo “otto anni difficili caratterizzati dalle pressioni dell’amministrazione Obama” la costruzione delle colonie sarebbe stata libera proseguire.
La questione di insediamenti israeliani all’interno del territorio palestinese è sempre stata vista come il principale ostacolo alla pace e all’attuazione della soluzione a due stati da parte dell’Autorità nazionale palestinese che ha sempre denunciato le attività di incoraggiamento alla colonizzazione che lo stato di Israele ha portato avanti dal 1970 ad oggi mentre da parte dello stato israeliano (in particolare durante il mandato di Netanyahu) il principale ostacolo alla pace sarebbe da riconoscere nell’incapacità da parte dei palestinesi di riconoscere Israele come stato ebraico piuttosto che nelle colonie.
Il Marocco e la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) hanno siglato, il 24 gennaio a Rabat, un protocollo d’intesa sulla preparazione di un prodotto di cofinanziamento dedicato ai progetti verdi condotti da Pmi e microimprese. Il progetto, ha dichiarato Boussaid, vicepresidente della BERS, è in linea con gli impegni assunti alla COP22 dal ministero dell’Economia e delle finanze, a favore del clima, nell’ambito della tabella di marcia per l’allineamento del settore finanziario marocchino allo sviluppo sostenibile. Il protocollo d’intesa è finalizzato a sostenere la mobilitazione di nuove risorse private e – ha proseguito Boussaid – il loro orientamento a favore di progetti di economia verde delle Pmi e delle microimprese. Dal 2013 la BERS ha erogato oltre 1,5 miliardi di euro in prestiti al Marocco, ha affermato il ministro dell’Economia marocchino, aggiungendo che tali prestiti sono stati destinati specificamente al finanziamento del settore privato.
Detti investimenti hanno portato il paese ad aprire, nel 2014, il più grande parco eolico in Africa, valutato $1,4 miliardi, nel sud-ovest vicino alla città di Tarfaya. Poi, all’inizio del 2016, il Marocco ha cominciato a costruire quello che sarà il più grande impianto solare concentrato al mondo, Noor-1 , ai margini del deserto del Sahara. Una volta completato, nel 2018, alimenterà un milione di case e farà del Marocco una superpotenza solare.
Sebbene il paese sia ancora fortemente dipendente dalle importazioni di energia (90% nel 2013, secondo la Banca Mondiale ), prevede di generare il 40% della sua energia da fonti rinnovabili entro il 2020. Nel 2016 il Marocco già risultava al settimo posto, nel mondo, nell’indice di performance sui cambiamenti climatici ed era l’unico paese non europeo tra i primi 20. Partendo dal 2011,infatti, il Marocco ha modificato la propria costituzione per includere lo sviluppo sostenibile, smettendo di sovvenzionare i combustibili fossili per rendere le rinnovabili più competitive e iniziando ad accogliere investimenti privati nel settore dell’energia pulita.
Un’azione chiave nella strada verso un futuro verde è anche la riduzione degli sprechi: l’utility di stato dell’elettricità, ONEE, ha avviato un programma per sostituire le vecchie lampadine a incandescenza nelle famiglie marocchine con 10 milioni di lampade fluorescenti compatte (CFL), che sono molto più efficienti.
Per controbilanciare il costo iniziale (le CFL sono sei volte più costose) l’utility consente agli utenti di pagarle a rate attraverso la bolletta, che a sua volta risulta ridotta da una migliore efficienza. Il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite stima che, passando le CFL solo al 40 per cento delle famiglie, il consumo di energia diminuirebbe del 20 per cento, tagliando 2,74 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 entro la fine del 2021 – tanto quanto sarebbe stato creato consumando 308 milioni di galloni di benzina , secondo l’ EPA Greenhouse Gas Calculator. Come parte dei suoi sforzi per un domani più pulito, il Marocco ha anche iniziato a trasferire le sue 15.000 moschee alle energie rinnovabili, e in luglio ha vietato la produzione, la vendita e l’uso di sacchetti di plastica, il cui utilizzo raggiunge i tre miliardi ogni anno.
“Il governo ha fissato alcuni obiettivi ambiziosi: il 52% della nostra capacità energetica deve provenire da fonti rinnovabili entro il 2030 e entro la stessa data è necessario raggiungere il 20% di efficienza energetica migliore in tutti i settori: trasporti, edilizia abitativa, agricoltura”. Fa sapere alla CNN Mouline, direttore dell’Agenzia nazionale per lo sviluppo delle energie rinnovabili e l’efficienza energetica. Il paese potrebbe correre interamente sull’energia verde entro il 2050, secondo uno studio della Stanford University sulla roadmap energetica di 139 paesi. Secondo Mouline, questa transizione sarà inevitabile: “Stiamo cambiando, in tutto il mondo l ‘anno scorso sono stati investiti più denaro in energia pulita rispetto ai combustibili fossili per la prima volta. Guarda quanti nuovi posti di lavoro rinnovabili, stoccaggio di energia e mobilità elettrica ho creato.” Il parco eolico in Marocco a Tarfaya, che produce 850 MW, ha creato, infatti, una nuova industria nel paese, dato che il 70% dei pezzi di ricambio per le turbine sono fabbricati localmente. “Fare elettricità è solo una parte di una strategia più ampia”.
Interessante è anche la collaborazione tra Università La Sapienza di Roma e Università Mohammed V di Rabat, in Marocco, che concentrerà le ricerche degli ingegneri di domani sulle energie alternative. L’intesa, la prima di questo genere tra i due atenei e i due paesi, è promossa da Marita Group, holding marocchina che opera tra l’altro nei settori immobiliare, energetico e ambientale e da Gruppo Green Power Energy, e porterà, a pieno regime, 300 studenti dall’Italia al Marocco e altrettanti da qui alla Sapienza, nel segno di uno scambio di ricerche e conoscenze per progetti, possibili brevetti, iniziative di start-up e spin-off.
“Guardiamo con interesse alla visione strategica del Marocco in tema di energie alternative”, dice Gaudenzi, direttore Dima, il Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza. Nei prossimi mesi, a Rabat, saranno definiti gli accordi quadro tra gli atenei, poi quelli tra dipartimenti; la collaborazione sarà operativa già a partire da corrente anno accademico.
Tutte queste iniziative sviluppate dal Marocco negli ultimi anni mostrano come il Paese voglia puntare fortemente e concretamente sul rinnovabile. Chi sa se l’esempio del Marocco non possa essere un modello per molti altri stati dell’Africa del Nord e non solo.
Più volte anche la nostra cronologia ha evidenziato come siano soprattutto due gli Stati occidentali a contendersi le simpatie della Libia: l’Italia e la Russia.
Fin dagli anni immediatamente successivi alla decolonizzazione l’Italia ha sempre mantenuto relazioni diplomatiche stabili (anche se spesso conflittuali) con la Libia col duplice fine di tutelare forti interessi nazionali: economici, come le ingenti operazioni di estrazione di petrolio a cura dell’ENI ma anche di lotta al terrorismo ed all’estremismo e più in generale di ricerca di stabilità nel Mediterraneo.
Similmente i rapporti Russia-Libia affondano le loro radici nei primi anni ’70, quando, ai tempi della Guerra Fredda, Gheddafi chiese aiuto alla Russia per proteggersi da eventuali ingerenze americane: i due paesi erano già legati economicamente dall’importazione libica di armi russe ma questa richiesta fece giungere nel paese migliaia di ingegneri, istruttori militari russi ed 11 mila soldati.
Con la caduta di Gheddafi comincia a mutare lo scenario d’azione: l’Italia cerca (e riveste) un ruolo centrale nella stesura dei primi piani ONU per la risoluzione del conflitto, è uno dei primi paesi occidentali a schierarsi a favore del Primo Ministro al-Sarraj (Capo del Governo internazionalmente riconosciuto e legittimato, ma che ha scarso controllo del territorio nazionale), ed è il primo stato a riaprire l’ambasciata a Tripoli dalla caduta del Raìs; la Russia invece si muove più cautamente: dopo essere stato rassicurato sull’effettivo rispetto degli accordi stipulati col dittatore caduto, Putin comincia a sostenere apertamente il parlamento di Tobruk (nell’est del paese, e che adesso sostiene il Generale Haftar).
In particolare l’appoggio ad Haftar ha visto un sostanziale incremento dal 2016 ad oggi: a Gennaio il generale libico è stato in visita a Mosca per incontrare il ministro degli Esteri Lavrov ed a Novembre è stato ospite su una portaerei russa dove ha avuto una videoconferenza col ministro russo della Difesa e diverse settimane dopo la Russia si è fatta carico delle spese mediche per alcuni uomini di Haftar rimasti feriti in battaglia, ma si sospetta che il coinvolgimento russo sia più profondo.
Il 13 Marzo infatti la Reuters ha pubblicato un articolo (trovate il link nella cronologia, accanto all’articolo) nel quale sostiene che decine di contractors (mercenari) privati provenienti dalla Russia sono stati attivi in Libia tra le forze di Haftar a fine Febbraio; sempre la Reuters sostiene che sia difficile che siano arrivati in Libia senza l’approvazione del governo russo.
Come in ogni vicenda gli interessi sono molteplici:
- Economici, soprattutto legati al mercato del petrolio (nell’ultimo mese Rosneft, la principale compagnia petrolifera russa ha firmato diversi accordi con la National Oil Corporation, la principale compagnia petrolifera libica, anche se non sono accordi così rilevanti, data la complicata situazione interna della Libia) e delle armi (Rosoboronexport, l’agenzia statale russa che si occupa della vendita di armi all’estero firmò con Gheddafi contratti per diversi miliardi di dollari, contratti che però a quanto pare il governo di al-Sarraj non sarebbe intenzionato a rinnovare)
- Geopolitici, come abbiamo già visto in Ucraina ed in Siria la Russia sta cercando un nuovo ruolo da protagonista sullo scenario internazionale, e la Libia può essere una partita interessante da giocare
Al momento l’Italia sembra aver scommesso sul cavallo sbagliato (legittimo, ma sbagliato): la faccenda è comunque destinata a mutare rapidamente, sia perché lo scenario politico in cui si svolge è largamente instabile, sia perché le forze politiche italiane sono fortemente in disaccordo sulla linea da seguire nelle relazioni con la Libia, sia perché ormai Haftar è diventato un elemento indispensabile alla risoluzione della crisi libica.
Insomma, la partita è aperta e si gioca a tutto campo.
Il presidente libanese Michel Aoun è arrivato oggi in Giordania per la sua prima visita dopo la sua elezione, lo scorso ottobre, che ha posto fine ad una vacanza istituzionale di due anni e mezzo.
Aoun, che guida una numerosa delegazione, è stato accolto all’aeroporto Marka dal re Abdallah, con il quale ha in programma colloqui sugli sviluppi regionali e su questioni di mutuo interesse, sottolinea l’agenzia giordana Petra. I due Paesi arabi dovrebbero firmare una serie di accordi di cooperazione nei settori dei trasporti e dell’energia.
Il Libano e la Giordania sono i Paesi che, insieme con la Turchia, ospitano il più alto numero di rifugiati siriani. Il presidente libanese è arrivato ad Amman dall’Egitto, dove ieri ha incontrato il presidente Abdel-Fattah el-Sissi.
L’offensiva diplomatica di Aoun, che guida una fazione cristiana libanese alleata con il partito sciita filo-iraniano Hezbollah, è diretta a ricucire i rapporti con diversi Paesi arabi della regione allarmati dall’influenza di Teheran.
“Mi chiamo Mario Poggi, ho ventiquattro anni e vengo da Firenze. Sono un cittadino italiano, nonché cittadino europeo”. Perfino una fotografia superficiale della propria identità, sebbene possa sembrarci scontata, non lo è affatto. L’appartenenza ad una regione geografica e ad una comunità può perdere molta della sua valenza se non è associata ad un’entità statale che ne rappresenti i valori, ne tuteli i diritti, e ne definisca i doveri. Questo sembra essere il destino di un gruppo etnico iranico, la cui popolazione è stimata tra i trenta e i quarantacinque milioni di individui: il popolo curdo. I curdi infatti risultano essere uno dei più grandi gruppi etnici privi di unità nazionale. Provengono da una zona prevalentemente montuosa, nota come Kurdistan, che comprende gran parte della Turchia sud-orientale, l’Iran nord-occidentale, l’Iraq settentrionale e la Siria settentrionale.
In seguito alla prima guerra mondiale e alla sconfitta dell’Impero ottomano, gli stati vincitori avevano previsto uno stato curdo nel Trattato di Sèvres del 1920. Tuttavia, questa promessa fu annullata tre anni dopo, quando il Trattato di Losanna fissò i confini della moderna Turchia e non previde tale disposizione, lasciando ai curdi lo status di minoranza nei rispettivi paesi. Questo fatto ha portato a numerose rivendicazioni nazionaliste sfociate in numerose ribellioni e guerriglie e in seguito anche a sistematici genocidi (in particolare in Iraq).
Negli ultimi decenni, si sono formati gruppi organizzati con l’obiettivo di difendere i diritti del popolo curdo, in particolare in Turchia e in Siria.
In Turchia negli anni settanta nacque il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK – Partîya Karkerén Kurdîstan, in curdo), che a partire dal 1990 ha avuto anche rappresentanti in parlamento. Sebbene sia nato ufficialmente come un movimento, trasformatosi poi in un partito, la situazione politica della Turchia e le repressioni nei confronti del popolo curdo hanno spinto il PKK a prendere un’impronta violenta già dalla prima metà degli anni ottanta.
Nel 2004 invece è stata fondata l’Unità di Protezione Popolare (Yekîneyên Parastina Gel – YPG, in curdo), che è un’organizzazione militare.
Lo YPG ha svolto un ruolo centrale nella costituzione del Rojava nel 2012, che è una regione autonoma de facto nel nord e nord-est della Siria, non ufficialmente riconosciuta da parte del governo siriano. La costituzione del Contratto Sociale del Rojava è avvenuta contestualmente alla cruenta guerra civile siriana, con l’aiuto dell’esercito americano. Sia lo YPG che i turchi sono stati preziosi alleati degli Stati Uniti nel conflitto siriano tant’è che i primi combattevano addirittura con armi americane (fatto che ha disturbato il presidente turco, Erdoğan). Tuttavia i turchi non hanno mai accettato il fatto di combattere dalla stessa parte dei curdi e da quando gli americani hanno allentato la presa in Siria hanno pensato di poter far valere le proprie ragioni sulle milizie dello YPG.
Dunque, lo YPG combatte sia l’ISIS, che il governo turco. Quest’ultimo infatti dal 2018 ha iniziato una pesante operazione militare nel Rojava chiamata “Operazione ramoscello d’olivo”, nonostante le ripetute minacce del presidente Trump. In particolare, l’obiettivo dell’ultimo periodo da parte del governo turco è quello di creare una striscia larga 30 km che faccia da “cuscinetto” fra la Turchia e la regione autonoma. Quest’ultima operazione ha preso campo specialmente dopo l’annuncio di ottobre 2019 del presidente Trump di ritirare le truppe americane dal Nord-Est della Siria, sebbene gli avesse garantito protezione, dal momento in cui ha constatato di non aver più probabilità di successo, in favore della Russia e del governo di Assad.
In questo contesto, risulta interessante cercare di analizzare la problematica interna allo stato turco.
In Turchia la lotta ai terroristi, che per il governo sono indistintamente l’ISIS, il PKK, e i curdi siriani dello YPG, è la motivazione ufficiale per arresti e repressioni, che sono all’ordine del giorno. Talvolta, c’è chi sostiene che il governo utilizzi questi pretesti mosso però da altri fini.
L’Espresso ha raccolto alcune testimonianze di alcuni cittadini di Sur, un distretto della provincia di Diyarbakır, città curda in Turchia. Dal 2016 tale distretto ha subito radicali modifiche, demolizioni e nuove ricostruzioni, in seguito alla nomina da parte del governo di un commissario che ha sostituito i due co-sindaci, dopo il loro arresto.
«L’obiettivo del governo», spiega Çiğdem (nome di fantasia), responsabile dell’ufficio stampa del precedente governatore, oggi disoccupata, «è distruggere l’identità curda, di cui il centro cittadino era un esempio importante, con le mura fortificate e i giardini di Hevsel. Il progetto di riqualificazione prevede palazzi con vista sul Tigri, fontane e prati tagliati all’inglese. Il centro diventerà inaccessibile ai locali, per essere venduto a turchi facoltosi».
Parlare di integrazione, in un contesto simile, è probabilmente privo di ogni senso. A livello ufficiale, i curdi in Turchia sono stati storicamente denominati “turchi di montagna”, e poi in tempi più recenti “turchi d’oriente”. Quindi, di fatto, non solo il popolo curdo è senza identità nazionale, ma addirittura è considerato inesistente ufficialmente dal governo turco. Ciò che dice Çiğdem, dunque, non è dettato soltanto dai sentimenti, dalla rabbia, ma ha anche una solida base di atti ufficiali. Sorgono tante domande in modo spontaneo, leggendo le sue parole, e osservando gli avvenimenti sia remoti che più recenti che hanno interessato i curdi. Sorgono domande riguardo alla naturale necessità di un popolo di tramandare le proprie tradizioni, la propria cultura. Sorgono domande riguardo ai media, uno strumento fondamentale. Esiste una TV curda, chiamata inizialmente MED TV, poi MEDYA TV, e ostacolata fortemente dal governo turco. Sorge il desiderio di scoprire le sfumature di questo popolo condannato ad un destino che non merita, contro il quale viene costantemente puntato il dito, come se una minoranza violenta si ergesse ad esempio di tutta la popolazione.
Nasce il desiderio di sapere di più riguardo alla figura della donna in questo popolo, che ricopre un ruolo centrale, partecipe alla vita sociale, e talvolta anche alla guerra, oltre che nella propria casa.
Cercando di immedesimarsi in queste persone, dobbiamo immaginare come precario ogni minimo aspetto della vita che condiziona la nostra crescita e la nostra formazione come cittadini, ogni libertà di cui godiamo.
È chiaro che ogni domanda, ogni supposizione, andrebbe verificata vivendola in prima persona. Da cittadini responsabili, quello che possiamo fare è informarci più che possiamo, senza fermarci ai titoli dei giornali. Non possiamo sapere quale sarà il destino di questo popolo “maledetto” dalla storia; lo sforzo che possiamo fare, però, è quello di mettersi i vestiti di Çiğdem, o di qualsiasi altro suo fratello, ogni volta che leggiamo una notizia riguardante i “turchi d’oriente”.
In questo periodo in cui mi tengo aggiornata sulla realtà del Libano, riesco a comprendere quanto sia difficile vivere in situazioni scomode , in situazioni difficili. In Italia la cultura, le tradizioni, le oppressioni alle volte vengono sottovalutate o anche non considerate come se ormai non importasse più tenerne di conto soprattutto per quanto riguarda la famiglia, i doveri o gli obblighi. Siamo un paese abbastanza libero di vivere la propria vita senza divieti e obbligazioni. Resto sconcertata e forse anche un po’ allibita di come in tantissimi paesi ancora il culto della tradizione venga rispettato in maniera estremamente rigida.
Il libano infatti è un paese che poggia la sua esistenza su tre colonne: la famiglia, la religione e la Nazione, pur di preservare l’onore e di non deludere o disonorare la famiglia si è capaci e disposti a vendersi.
Un evento importantissimo questo mese è stata l’abolizione dell’articolo 522 del codice penale che da una statistica dell’associazione Abaad per i diritti delle donne emerge che solo l’1% dei libanesi intervistati era a conoscenza dell’esistenza di questa legge.
Questa legge garantiva l’immunità agli stupratori che sposano le loro vittime, si basava sul permettere un matrimonio riparatorio a seguito di uno stupro.
Questo traguardo è stato visto come uno dei risultati che piano piano porterà finalmente al raggiungimento della parità giuridica tra uomo e donna. Manca soltanto che il Parlamento libanese renda effettiva l’abrogazione.
La situazione della donna in Libano non resta comunque facile, anche se può indossare abiti eleganti e scarpe con il tacco, guidare macchine o sottoporsi alla chirurgia plastica la sua libertà di essere donna non va oltre a questo. La donna libanese non ha diritti e ciò crea una profonda disuguaglianza nei confronti dell’uomo libanese. “la donna si trova quindi compressa in un sistema-nazione dove famiglia, legge e confessionalismi remano contro l’uguaglianza di genere”.
Come evidenzia l’articolo, “Libano: non è un paese per donne” di Davide Lemmi, “E’ un circolo vizioso: il paese-piramide è fondato sull’uomo, ogni tentativo di sovvertire il sistema da parte della donna è sentito come pericolo alle fondamenta della nazione. Il Libano è molte cose: i cocktail di Mar Mikhael convivono con la mancanza di diritti, gli abiti succinti condividono il futuro con la discriminazione.”
http://www.lindro.it/libano-non-e-un-paese-per-donne/
http://www.eastonline.eu/it/opinioni/open-doors/libano-articolo-522-matrimonio-immunita-stupro