Libia

Il bilancio della conferenza di Palermo sulla Libia

A un mese dalla conferenza di Palermo, nata coll’idea di dare un nuovo impulso al processo di stabilizzazione della Libia mediante un piano d’azione più concreto delle poche direttive concordate al vertice di Parigi, convocato dal premier francese Macron lo scorso Maggio, è ormai tempo di fare un bilancio dei risultati ottenuti e di ciò che ha rappresentato per gli attori politici sulla scena.

Lo stesso fatto che ci siano stati o meno dei risultati è stato più volte messo in dubbio nelle settimane successive alle due giornate del 12 e 13 Novembre, date della conferenza, e l’argomento è stato in molte occasioni motivo di scontro. E’ innegabile però che, almeno dal punto di vista della presenza, una certa rilevanza l’abbia avuta: trenta i Paesi presenti, di cui dieci coi propri capi di Stato e gli altri rappresentati da ministri e viceministri. D’altra parte, è anche necessario sottolineare l’assenza di numerosi leader mondiali che avevano fin dall’inizio sostenuto il progetto, tra cui spiccano il presidente USA Donald Trump, Macron e il presidente russo Putin. Notevole difficoltà è stata riscontrata anche nella gestione delle delegazioni libiche, essendo stato difficile mettere insieme i leader di fazioni in lotta da anni. A questo bisogna aggiungere l’incertezza riguardante la partecipazione al vertice dell’uomo forte della cirenaica, Khalifa Haftar, il potente generale appoggiato da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia e Russia che controlla la Cirenaica e l’Esercito nazionale libico: alla fine c’è stata, ma questi ha potuto sostanzialmente scegliere chi vedere bilateralmente, evitando invece di prendere parte a sedute plenarie. E’ avvenuta anche la tanto agognata stretta di mano tra lui e il capo del governo libico d’unità nazionale al Sarraj (sostenuto dalle Nazioni Unite) davanti al premier italiano Giuseppe Conte, che assicura che la conferenza non sia stata solamente una vetrina politica.

Se guardiamo ai contenuti del vertice, la diplomazia italiana pare aver comunque ottenuto alcuni risultati.
Innanzitutto un accordo sulla data delle elezioni politiche in Libia, spostate dal 10 Dicembre alla primavera del 2019. Inoltre l’Italia ha lavorato alla creazione di un consenso attorno a un nuovo percorso condiviso con le Nazioni Unite, senza imporre nuove condizioni o scadenze (linea d’azione che si è sempre rivelata controproducente). Il contributo di idee e indirizzo del nostro Paese si è manifestato principalmente nell’enfasi sulla necessità di ricostituire le istituzioni economico-finanziarie libiche e di coinvolgere maggiormente gli attori militari che hanno il controllo reale del terreno e di tutte quelle parti di paese che erano rimaste escluse precedentemente; da qui la convocazione a inizio 2019 di una conferenza nazionale. Ovviamente ciò va letto anche nell’ottica della volontà di tutelare gli interessi italiani sul suolo libico.

E’ necessario aggiungere che la posizione dell’Italia è mutata moltissimo nell’ultimo anno e nelle ultime settimane. In particolare, il governo Conte ha scelto di aprire più chiaramente al dialogo con il generale Haftar (nuovamente in Italia pochi giorni fa) col chiaro scopo di tutelarci in caso di una sua vittoria, anche se marginale, alle prossime elezioni politiche. Molti però hanno interpretato l’apertura italiana come una debolezza o una tacita ammissione dell’impossibilità di sostenere a lungo la propria strategia di supporto a Serraj e all’impegno delle Nazioni Unite nel paese. Il “permissivismo” italiano legato alla partecipazione di Haftar a Palermo ha spazientito la delegazione turca che ha voluto dare un segnale di dissenso abbandonando i lavori. Effettivamente Haftar è stato spesso causa di tensioni col suo comportamento: “Non parteciperemo alla conferenza neanche se durasse cento anni. Non ho nulla a che fare con questo evento”, aveva dichiarato a una tv libica, per poi arrivare a Palermo per ultimo. “Sono qui solo per incontrare il premier e dopo partirò immediatamente: vedo che ci sono tutti, ma non ho nulla a che fare con loro”. E, infatti, l’incontro con al Serraj è avvenuto quasi in privato dei lavori veri e propri, svoltisi senza la partecipazione del generale.

L’ultima nota dolente riguarda il tema immigrazione, che è stato pressoché ignorato, generando una profonda delusione nelle organizzazioni umanitarie.

A conti fatti, la conferenza di Palermo non è stata di certo un punto di svolta nella risoluzione della crisi libica. E’ anche vero che forse era illecito aspettarselo: dall’idea si è passati al concreto in tempi strettissimi, probabilmente troppo per l’organizzazione che invece sarebbe stata necessaria per portare al raggiungimento di risultati più incisivi. Inoltre è evidente che una soluzione definitiva non sarà mai raggiunta se non si riusciranno a coinvolgere nuovamente nella trattativa i grandi Paesi come gli Stati Uniti, che potrebbero svolgere una funzione di mediazione tra gli interessi, spesso divergenti, degli attori europei; sfortunatamente ad oggi sembrano molto lontani dal voler adempire a questo compito.

Ciò che è certo è che l’Italia al momento è la nazione più chiamata a ricoprire un ruolo fondamentale nella risoluzione di questo conflitto; il punto sta nel capire come, e nel guadagnare una credibilità internazionale sufficiente a convincere gli altri grandi della Terra a promuovere una linea politica (e non solo) che possa portare la Libia fuori da una terribile situazione che si trascina ormai da troppo tempo.

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