Il 2016 potrebbe vedere il crollo di un ponte tra Occidente e Oriente, costruito a partire dal 3 ottobre 2005, quando il Consiglio dell’Unione europea diede il via ai negoziati per l’adesione della Turchia. A undici anni di distanza quel progetto, coltivato con speranza e coraggio mentre gli Stati Uniti muovevano guerra a est, rischia di naufragare nei nazionalismi, negli appelli populisti, nella megalomania di leadership logorate dal tempo e dalla Storia, ucciso dall’embrione di una nuova Guerra fredda tra Usa e Russia. Il ricorso al plebiscito è tipico di questa fase, poiché consente alle leadership di scrollarsi di dosso responsabilità precise per caricarle sulle spalle dell’elettore chiamandoli a raccolto attorno alla difesa orgogliosa di una identità. “Aspetteremo massimo no alla ne dell’anno, poi sarà il popolo a decidere se vuole aspettare ancora per entrare in Europa”, ha detto Recep Tayyp Erdogan, lanciando un messaggio chiaro alle istituzioni europee che avevano sospeso il negoziato dopo l’arresto, avvenuto il 4 novembre scorso, di Selahattin Demirtas e altri esponenti del filocurdo “Partito democratico del popolo” (Hdp), una delle principali opposizioni parlamentari. La giornata in cui Ankara ricomincia a guardare decisamente a Oriente, e a trovare lì il sostegno che a Occidente non riceve, è il 15 luglio 2016. La notte del tentato colpo di Stato il presidente turco – bloccato in un resort a Marmaris, sulla costa – riceve la solidarietà immediata da Vladimir Putin mentre sia Barack Obama che i vertici di Bruxelles sembrano voler attendere l’esito dell’iniziativa golpista prima di esprimersi. Nei giorni seguenti Erdogan lavora al ristabilirsi di normali relazioni con il Cremlino, con cui aveva ingaggiato un braccio di ferro a causa dell’abbattimento di un jet russo a poca distanza da dal confine tra Turchia e Siria. Nei mesi successivi a quell’incidente Mosca aveva imposto sanzioni economiche alla Turchia e sospese la trattativa sul progetto Turkish Stream per la costruzione di un gasdotto che trasporti il metano russo in Europa attraverso l’Anatolia e il Mar Nero. La pace è stata siglata definitivamente il 10 ottobre scorso a Ankara, sulla scia del gas, con la firma di un accordo che ridà fiato geopolitico a una Turchia sempre meno vicina all’Europa. Tra la Turchia e la Russia, spiega Valeria Giannotta, accademica in Turchia e analista del centro italiano per il Medio Oriente (Cipmo), “permangono alcune ruggini relative alla crisi ucraina e a quella siriana, con quest’ultima che vede i due paesi contrapposti principalmente sul sostegno al presidente siriano, Bashar Assad, ma il picco della tensione è alle spalle: Ankara non avrebbe potuto mettere in sicurezza il lungo confine con la Siria senza il beneplacito russo”. Muti i vertici europei, Erdogan consolida i propri sospetti contro gli Stati Uniti, alleati nella Nato, che ospitano in Pennsylvanya colui che Ankara considera l’organizzatore del golpe: Fehtullah Gulen, capo di una setta islamista che con il presidente turco aveva computo un comune percorso politico prima di diventarne acerrimo nemico. La purga che comincerà immediatamente dopo il tentato golpe mette nel mirino i “gulenisti”, cioè gli uomini e le donne che Erdogan considera fedeli al predicatore e infedeli alla Turchia, identificata con se stesso in una megalomania sempre più travolgente. Il braccio di ferro, adesso e con soddisfazione di Putin, è con Washington, a cui viene presentata una richiesta di estradizione di Gulen e che l’amministrazione Obama non si sogna di prendere in considerazione, soprattutto in una fase di transizione che vedrà Donald Trump ereditare la patata bollente. “Un nuovo capitolo delle relazioni con Washington sarà aperto se sarà estradato Fehtullah Gulen”, ha detto il premier turco, Binali Yildirim, subito dopo l’elezione del magnate americano alla Casa Bianca, che sembra, da quel che è emerso durante la campagna elettorale, voler ristabilire quell’antico e invisibile muro tra Oriente e Occidente, quotidianamente scavalcato, però, da uomini e merci sull’onda della globalizzazione.
In questo quadro si inserisce la delusione definitiva di Ankara verso l’Europa: undici anni non sono bastati a Bruxelles per far fare un passo in avanti al negoziato. Sono stati aperti solo 16 capitoli negoziali su 33 e ne è stato chiuso solo uno. Si è trattato, spiega l’ex ambasciatore italiano in Turchia Carlo Marsili, in una analisi per il Cipmo, di “una sorta di “Trexit”, che lascia la Turchia fuori dall’Ue prima di esserci entrata: per inciso, la recente decisione del governo turco di dire addio all’ora solare (allineandosi quindi a Mosca e Teheran), per quanto motivata con il risparmio energetico, simbolizza il sempre maggiore distacco dall’Europa. In Turchia nessuno crede più seriamente all’adesione e probabilmente l’idea non interessa più. Le sue ambizioni sono diventate globali e per certi aspetti più orientali che occidentali”. E, probabilmente, la pace con Israele, che ha nominato oggi il primo ambasciatore dopo la ripresa dei contatti diplomatici tra i due paesi interrotti nel 2010 in seguito alla crisi causata dalla Freedom Flotilla, arriva a segnare un punto di svolta per una maggiore libertà di azione di Ankara nella regione mediorientale. Non è bastata dunque la promessa di 6,3 miliardi di dollari fatta dall’Ue ad Ankara affinché quest’ultima gestisse i flussi dei migranti senza alcun monitoraggio dal punto di vista dei diritti umani, secondo l’accusa delle ong internazionali- a dissipare i sospetti del Bosforo sull’inattendibilità della leadership europea. Nonostante quell’accordo “tenga nel mar Egeo”, come ha riconosciuto il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, non è arrivata la contropartita dei visti per l’area Schengen, la cui abolizione era attesa da Ankara per la ne di ottobre e della quale non si sa più nulla. Le purghe in atto, che sono andate ben al di là della ricerca dei “gulenisti”, non aiutano a restituire un clima di fiducia. L’Unione europea “ha preso alcuni impegni collegati all’evoluzione della situazione politica turca – ha ricordato Gentiloni – il meccanismo europeo di concessione dei visti è collegato a una serie numerosa di condizioni, ma quando si sentono discorsi sulla reintroduzione della pena di morte e si vedono operazioni come l’arresto dei leader dell’opposizione parlamentare, ci si domanda se in queste condizioni potranno essere rispettate o meno”. In ogni caso, ha ribadito il capo della Farnesina, “a chiudere la porta non saremo noi”. Il parlamento europeo ha approvato il 24 novembre 2016 a larga maggioranza una risoluzione che chiede la sospensione dei negoziati per l’adesione della Turchia alla Ue. Il documento, sostenuto da conservatori, socialisti, liberali e verdi, ha ottenuto il via libera con 479 voti a favore, 37 contrari e 107 astensioni. “Le misure repressive adottate dal governo turco nel quadro dello stato di emergenza – si afferma nel testo – sono sproporzionate, attentano ai diritti e alle libertà fondamentali sanciti nella costituzione turca e minacciano i valori democratici dell’Unione europea”. I negoziati per l’adesione di Ankara all’Ue sono cominciati nel 2005. La risoluzione approvata oggi non ha valore vincolante. A opporsi a una sospensione delle trattative sono stati finora sia la maggior parte degli Stati membri dell’Unione che Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue. Il ministero turco per gli Affari europei ha commentato con un comunicato: la votazione non ha effetti pratici, visto che è il Consiglio europeo l’unica istituzione a poter decidere la sospensione. “Anche se una decisione che suggerisce di sospendere i negoziati con la Turchia è presa dal Parlamento europeo – si legge nel comunicato – questa decisione non è vincolante da un punto di vista giuridico”. Ieri anche il presidente Recep Tayyip Erdogan si era espresso in proposito. “Lo dico in anticipo – diceva Erdogan – il voto non ha per noi alcun valore, qualunque sia il risultato”. Il presidente turco ha aggiunto che la votazione è una prova che l’Europa “prende le parti” delle organizzazioni terroristiche.