Gli ultimi mesi hanno visto il paese turco sottoposto a molti momenti cruciali, tra i quali sicuramente spiccano le elezioni presidenziali dello scorso giugno.
Prima di tali elezioni, la situazione in Turchia era pressoché la seguente: fin dal mese di aprile le tensioni con la Grecia, soprattutto sul fronte migranti, stavano aumentando; il presidente Erdoğan, forte dei nuovi poteri consegnatigli dalla recente riforma costituzionale e della situazione di stato di emergenza, presente ormai dal tentato golpe del luglio 2016, gioca la carta del voto anticipato per paura del calo di consensi, sensazione confermata dal crollo della lira turca affiancato da una gran crescita di inflazione; sempre il presidente promette che in caso di vittoria revocherà il sopracitato stato di emergenza, promessa poi mantenuta.
Il giorno successivo alle elezioni, tenutesi il 24 giugno, ogni timore di Erdoğan viene fugato da una vittoria schiacciante sui suoi avversari (52% dei voti per le presidenziali, 53.1% alle legislative, per il parlamento, in coalizione col partito di estrema destra Mhp, che contribuisce portando all’Akp l’11.1%). L’opposizione, ancora prima dell’apertura delle urne, ha denunciato brogli. Lo sfidante del presidente, il candidato repubblicano Muharrem Ince, sconfitto, ha ottenuto comunque un ottimo risultato personale, raggiungendo il 30% dei voti. “Abbiamo dato a tutti una lezione di democrazia, – ha detto il Sultano a Istanbul davanti alla folla che lo acclamava – nessuno si azzardi a danneggiare la democrazia gettando ombre su questo risultato elettorale per nascondere il proprio fallimento”.
Tra i partiti che sono riusciti ad oltrepassare la soglia di sbarramento, fissata al 10%, appare anche il Partito Democratico dei Popoli (Hdp), partito che unisce forze filo-curde e forze di sinistra. A capo di questo partito, il curdo Selahattin Demirtaş, che si trova attualmente in prigione (dal novembre 2016) nella condizione di detenzione in attesa di giudizio: addirittura la Corte europea dei diritti umani ha condannato la Turchia per violazione degli articoli 5, comma 3 e 18 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo perché, tenendo in carcerazione preventiva un esponente politico durante queste importanti scadenze elettorali, ha perseguito uno scopo ulteriore, rispetto a quelli della carcerazione preventiva, comprimendo la dialettica democratica.
L’effetto delle elezioni non ha tardato ad arrivare: subito la lira turca è cresciuta nei mercati, e lo stesso Erdoğan, confermato per altri 5 anni (oltre ai 16 che già ha passato alla guida del paese), ha giocato le sue carte. Dapprima infatti, a luglio, il parlamento emana un decreto che permette al presidente di controllare lo stato maggiore, poi a settembre Erdoğan si nomina capo del Fondo sovrano turco.
Nel frattempo, col passare dei mesi estivi, la Turchia compie ancora passi sul suo cammino di politica estera, che negli ultimi anni, specialmente dalla riforma costituzionale dell’aprile del 2017, la porta sempre più lontana dalla sfera occidentale a favore di un riscoperto rapporto con la Russia. Pur essendo, in Siria, un importante alleato degli Stati Uniti e dell’Europa, il governo turco ha annunciato di non volersi conformare alle sanzioni varate da Trump a luglio ai danni dell’Iran. Secondo le autorità di Ankara, i provvedimenti adottati dal Presidente Usa sarebbero stati “inappropriati”. Al che Trump sanziona la Turchia e la lira subisce un nuovo calo. Il tracollo della lira turca, precipitata anche del 20% in un solo giorno rispetto al dollaro attestandosi poi a -15%, e il timore di un contagio per le banche dell’euro-zona esposte al debito del governo di Erdoğan, hanno spinto al ribasso le principali piazze europee con perdite particolarmente significative per Milano: dunque anche l’euro-zona ha sofferto trascinata dalle disavventure dell’economia turca. Alla fine di agosto ancora tensioni quando compaiono sui giornali le notizie relative ad alcuni spari all’ambasciata Usa, e contemporaneamente la Turchia compra, con un anno di anticipo rispetto a quanto annunciato, sistemi di difesa anti-missile S-400 dalla Russia. Nel paese si arriva perfino all’assurdo atto di vietare i film western provenienti dall’America. Sul fronte della guerra in Siria, la Turchia sembra essere l’unica potenza alleata coi ribelli disposta a (o capace di) trattare con la Russia, che da sempre sostiene Assad, insieme a potenze quali Iran e Venezuela, tanto che a settembre è proprio la Turchia che, insieme alla Russia, sceglie il destino delle zone smilitarizzate della Siria: “Durante i negoziati su Idlib a Sochi abbiamo deciso di istituire una zona smilitarizzata tra i territori controllati dall’opposizione e dal regime, l’opposizione rimarrà sui territori che occupa e faremo in modo che i gruppi radicali, designati dalla Turchia insieme alla Russia, non saranno in grado di operare nella regione”, ha scritto Erdoğan nel suo articolo per il quotidiano russo Kommersant.
Nel mese di ottobre la Turchia trova anche il modo di creare casi diplomatici con l’ennesimo alleato del blocco occidentale sostenendo che il giornalista saudita Jamal Ahmad Khashoggi fosse stato ucciso in territorio turco dai sauditi. Il 2 ottobre 2018, Khashoggi entrò nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul per ottenere documenti relativi al suo matrimonio; non lasciò mai l’edificio e fu successivamente dichiarato persona scomparsa. Anonime fonti della polizia turca hanno affermato che sia stato ucciso e squartato all’interno del consolato. Il governo saudita afferma che Khashoggi lasciò il consolato vivo attraverso un ingresso posteriore, ma la polizia turca dice che nessuna TVCC lo ha registrato mentre usciva dal consolato. Il 15 ottobre ha avuto luogo un’ispezione del consolato, eseguita da funzionari turchi. I funzionari turchi hanno trovato prove di “manomissioni” durante l’ispezione e prove che hanno supportato la convinzione che Khashoggi sia stato ucciso. Il 19 ottobre la TV di stato saudita conferma la morte di Khashoggi, avvenuta a seguito di un “diverbio” presso il consolato di Istanbul.
L’unico screzio che ha visto la Russia coinvolta, riguarda le dichiarazioni di Erdoğan a proposito della Crimea. La posizione della Turchia sul non-riconoscimento dell’annessione della Crimea da parte della Russia rimane invariata: lo afferma il presidente dopo l’incontro con l’omologo ucraino Petro Poroshenko. Il capo dello Stato di Ankara ha ribadito come la situazione di conflitto nell’Ucraina orientale vada risolta con strumenti diplomatici e pacifici. “Abbiamo avuto l’opportunità di discutere delle questioni regionali. La nostra posizione è di sostegno alla sovranità e integrità territoriale, oltre che unità politica, dell’Ucraina. Abbiamo sottolineato ancora una volta come non abbiamo mai riconosciuto e mai riconosceremo l’annessione illegale della Crimea. Continueremo a proteggere i diritti e gli interessi dei tatari di Crimea, sia coloro che sono rimasti sul territorio della penisola che quelli costretti a lasciare la regione”, ha detto Erdoğan.
Queste le nuove degli ultimi mesi turchi, intramezzate dalle solite invettive contro i curdi e i gulenisti, e dalle infinite incarcerazioni di giornalisti, politici, militari, insegnanti e persino calciatori.