Nell’ultimo mese stiamo assistendo ad una forte presa di posizione della Turchia che riguarda la guerra in Siria, in particolare a Nord-Est, territorio al centro della zona dove abita la gran parte dell’etnia curda. Non è un mistero infatti che al presidente turco non vadano a genio i curdi, specialmente quando si mettono in testa di voler far politica, tanto che il Pkk è passato dall’essere un partito all’essere un gruppo di terroristi fuori legge. Riportiamo qui di seguito la testimonianza di un giornalista italiano fermato al confine tra Turchia ed Iraq (da poco nel nord dell’Iraq si è tenuto un referendum, seppur non riconosciuto, per l’indipendenza del Kurdistan iracheno).
“«Siamo dell’antiterrorismo, dobbiamo farle alcune domande, da questa parte prego». Inizia così un controllo subito venerdì scorso da chi scrive, alla frontiera tra Turchia e Kurdistan iracheno, di rientro in Italia dopo una decina di giorni a Erbil. Che il passaggio su questo tratto di confine fosse laborioso già si sapeva, ma nel caso in questione è parso chiaro che c’era qualcosa di insolito. Insolito perché dopo essermi visto negare il timbro di ingresso dall’operatore turco, sono stato accompagnato in una struttura poco lontana, dove ha avuto inizio qualcosa di molto simile a un interrogatorio.
Le domande si sono susseguite per circa 90 minuti. Non è normale, almeno da queste parti non mi era mai accaduto. Così come non era ancora accaduto di trovarmi a rispondere a quattro giovani agenti dell’antiterrorismo, ostinati a chiedere dove avessi «incontrato i membri del Pkk?», poi ancora se avevo «conosciuto persone ostili alla Turchia?», «di quali temi ti occupi principalmente… le tue posizioni politiche?», «hai incontrato qualcuno dell’Isis?» e così via, a lungo, con un’intensità crescente. Il tutto gestito dal gruppo dei quattro, assieme, per poi ricominciare dall’inizio, con le stesse domande poste singolarmente, a turno, aggiungendo la pretesa di visionare le immagini salvate nel telefono, le chiamate effettuate, le foto salvate nella reflex, i contatti di cittadini arabi… quindi la consegna del registratore audio per scaricare i contenuti… infine i bagagli. Il tutto alternato da improbabili telefonate «all’ufficio di Ankara» per conferme sulla veridicità delle mie risposte.
Nulla di estremo nell’atteggiamento degli agenti, sia chiaro, e alla fine la realtà dei fatti è stata una sola: tutti i documenti erano in regola e comprensibili, a partire da quel foglio con su scritto “assignment” e dal tesserino da giornalista. Dopo un’ora e mezza di torchio, i quattro capiscono e mi congedano «ci scusiamo ma è il nostro lavoro, è stato aumentato il livello di allerta per intercettare terroristi in fuga». Ammesso in Turchia dunque, portando con me un solo dubbio, in merito a quell’ultima frase: «intercettare terroristi in fuga». In fuga da cosa? Perché proprio in quel momento è stato aumentato il livello di sicurezza? Conoscenti transitati sulla stessa via pochi giorni prima non avevano avuto alcun problema. Il motivo dell’inasprimento dei controlli l’ho compreso il giorno seguente, dopo essere atterrato a Venezia.
Il tutto si è verificato poche ore prima dell’inizio dei bombardamenti aerei nell’enclave curda di Afrin, sul confine turco-siriano, cui è seguito l’attacco di terra. L’operazione avviata da Ankara e chiamata “Ramo d’Ulivo” era attesa da tempo, e punta a ridurre l’area sotto il controllo del Ypg, la milizia curda legata al partito Pyd, componente maggioritaria delle Syrian Democratic Forces (Sdf), principali alleati siriani degli Stati Uniti nella guerra allo Stato Islamico. All’avvio dell’operazione, annunciata da tempo da Erdoğan, mancava una motivazione valida. Questa è giunta il 13 gennaio, quando gli Stati Uniti hanno dichiarato di voler creare una “forza di sicurezza al confine” da 30mila uomini, metà dei quali appartenenti alle Sdf.
Dunque ancora la frontiera turca, dove dal 2011 a oggi sono transitati milioni di uomini, donne e bambini, siriani e iracheni, in fuga da alcuni dei conflitti più cruenti del nostro tempo. Sono stati loro ad alimentare l’esodo che abbiamo imparato a conoscere. Il più massiccio dall’epoca della Seconda guerra mondiale. Una marcia per la salvezza diretta in Europa, passata attraverso i sottoscala di Smirne a cucire giubbotti di salvataggio. Un giorno dopo l’altro con il capo chino, bambini inclusi, per accantonare quanto basta a soddisfare i passeur e proseguire il viaggio tra i flutti dell’Egeo, poi nel fitto di colonne arenate nel fango balcanico. Alla fine per molti è arrivata l’Europa, con le sue promesse disattese e una democrazia ingabbiata tra muri e contraddizioni.
Ecco che i confini, incluso quello turco-iracheno, sono ora il luogo in cui intercettare eventuali «sostenitori dei terroristi» del Ypg (queste le parole usate dagli agenti), formazione considerata da Ankara un continuum del Pkk. Perquisizioni e interrogatori il metodo per smascherarli. Domande simili o quasi sono toccate ad altri colleghi, nelle ore o nei giorni seguenti. L’ho riscontrato spulciando in rete. Alcune delle loro testimonianze hanno trovato spazio nei canali opportuni, sui social, per condividere l’accaduto e magari informare quanti si stanno avvicinando alla Turchia meridionale. Proposito che condividiamo con questo post, augurandoci che per qualcuno possa essere un buon viatico.” (Emanuele Confortin, 28 Gennaio 2018)
Alla luce di questi fatti si potrebbe dire che nel Nord della Siria sia iniziata una nuova guerra. Sabato 20 gennaio soldati turchi e combattenti dell’Esercito libero siriano – coalizione di gruppi ribelli che per anni ha cercato di destituire il presidente Bashar al Assad – hanno cominciato un’operazione militare contro i curdi dell’Unità di protezione popolare (Ypg) nella zona di Afrin, nel nord-ovest della Siria. Il governo turco ha iniziato l’offensiva dopo che gli Stati Uniti avevano annunciato di voler aiutare i curdi – loro alleati nella guerra contro lo Stato Islamico – a dotarsi di una specie di guardia di frontiera per evitare l’infiltrazione dei terroristi nel loro territorio. La Turchia però aveva interpretato la mossa come un tentativo di rafforzare lo stato curdo, una cosa ritenuta inaccettabile, e aveva agito di conseguenza.
Finora le operazioni militari turche si sono limitate a obiettivi attorno ad Afrin, che si trova a 40 chilometri a nord di Aleppo e a circa 120 chilometri a ovest della principale area controllata dai curdi in Siria. Non è chiaro quanto territorio abbiano già conquistato i turchi e l’Esercito libero siriano, ma sembra che le operazioni stiano andando a rilento.
L’operazione militare ad Afrin sta provocando diverse tensioni tra paesi e gruppi presenti nel nord della Siria. Anzitutto sta creando molti problemi agli Stati Uniti, che sono alleati sia dei curdi siriani che della Turchia. Per il governo americano è indispensabile mantenere buoni rapporti con i curdi, che si sono dimostrati il suo alleato più prezioso nella guerra contro lo Stato Islamico; allo stesso tempo, rovinare le relazioni con la Turchia vorrebbe dire creare un problema enorme nella NATO (organizzazione di difesa di cui fanno parte anche i turchi) e rinunciare a un importante alleato nella politica del Medio Oriente. Finora gli Stati Uniti sono riusciti a tenere in piedi entrambe le alleanze, ma con l’operazione militare ad Afrin le cose potrebbero cambiare e gli americani potrebbero doversi schierare in maniera netta da una parte o dall’altra.
Un altro paese importante ad Afrin è la Russia, che è alleata di Assad e mantiene rapporti non conflittuali con i curdi. Non è ancora troppo chiaro quale sia la posizione dei russi nel conflitto iniziato nel nord della Siria: il governo russo ha probabilmente dato una specie di via libera alla Turchia, anche perché in caso contrario gli aerei da guerra turchi si sarebbero scontrati con quelli russi, che controllano lo spazio aereo sopra Afrin. La Russia però non ha confermato: probabilmente perché non vuole compromette del tutto i suoi rapporti con i curdi, ma anche perché la Turchia è avversaria del regime di Assad, che invece è amico dei russi (e infatti qualche giorno fa il governo siriano aveva minacciato di abbattere gli aerei turchi, se fossero arrivati ad Afrin). Secondo alcuni analisti, la Russia potrebbe avere chiesto in cambio alla Turchia di chiudere un occhio sugli attacchi del regime di Assad nella provincia siriana di Idlib, controllata dai ribelli.
Non è chiaro quanto durerà l’operazione turca in Siria. Il presidente ha detto ieri ad Ankara che la Turchia non si fermerà finché «il lavoro non sarà finito». L’idea prevalente è che l’operazione si stia verificando nell’area di influenza russa, con il via libera dei russi e la non totale opposizione degli americani. Rimane il dubbio che la Turchia non si voglia fermare solo ad Afrin, e a quel punto le posizioni delle grandi potenze coinvolte in Siria potrebbe cambiare.