A circa due mesi dalla conferenza di Palermo e con le elezioni teoricamente sempre più vicine, la Libia sembra ancora molto lontana dall’ottenere quella stabilità che sarebbe necessaria per cominciare davvero a ricostruire uno stato che ancora non si è ripreso dagli eventi della Primavera araba (2011). Le intenzioni emerse durante la due giorni in Sicilia sono ad oggi rimaste tali, nonostante i tentativi di alcuni esponenti politici europei di ricucire le divisioni che ancora permangono tra il generale Haftar e il capo del governo di unità nazionale (GNA) Serraj, sostenuto dalle Nazioni Unite. Degno di menzione è il premier italiano Giuseppe Conte, che col suo viaggio a Tripoli e a Bengasi ha provato a porre rimedio agli attriti che anche a Palermo si erano creati a causa delle problematiche legate alla partecipazione dell’uomo forte della Cirenaica.
Al momento però sia Haftar che Serraj sembrano avere un punto in comune: entrambi vedono affievolirsi il proprio controllo sul territorio. Se prima solo il GNA pareva non essere in grado di difendersi, ora anche il governo di Bengasi appare sempre più colpito dalla crescente crisi della sicurezza dovuta all’incremento dell’aggressività da parte delle forze affiliate all’Isis (ancora molto attive in Libia) e di gruppi criminali provenienti dal Sud della Libia. Nell’ultimo mese è stato attaccato un ospedale proprio a Bengasi, una base militare (con furto di una grossa quantità di equipaggiamento) e il più grande giacimento petrolifero sul suolo libico, a Sharara. A questi si aggiunge l’attentato al Ministero degli Esteri di Tripoli del 25 Dicembre, rivendicato dallo Stato islamico.
La zona più critica sembra essere proprio il Sud del paese, che ha vissuto in uno stato di abbandono politico ed economico fino a pochi giorni fa, quando Serraj ha ordinato l’invio di risorse per il riavvio delle centrali elettriche ed il ripristino degli altri servizi primari (l’acqua potabile, ad esempio). Il presidente tiene a sottolineare come ciò non rappresenti un mero spot elettorale, ma costituisca parte integrante di un intervento su larga scala. Haftar si sta invece concentrando su una grossa operazione militare contro milizie ciadiane e Daesh sempre nella stessa area. Egli è probabilmente colui che se volesse potrebbe risollevare con più facilità le sorti delle popolazioni meridionali, disponendo del controllo dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) e potendo dunque impadronirsi con minore sforzo delle risorse necessarie. Il governo di Tripoli non gode di altrettanta libertà di manovra a causa dell’eccessiva dipendenza dalle milizie al libro paga del Ministero degli Interni che, in mancanza di una riforma delle forze di sicurezza, risultano ancora indispensabili. La fedeltà di questi gruppi armati però è costantemente messa in dubbio dallo stesso Ministro degli Interni Fathi Bashagah, che era arrivato addirittura a revocarne lo stipendio, prima che le proteste lo costringessero a ritirare il provvedimento. Intanto le milizie continuano a gestire i propri incarichi nelle modalità più congeniali al perseguimento dei propri interessi, spesso tenendo all’oscuro del proprio operato il governo e gli organismi internazionali (si pensi all’inaccessibilità dei centri di detenzione dei migranti gestiti da loro).
Questa dipendenza militare è solo una delle numerose vulnerabilità del governo che le Nazioni Unite ancora sostengono. Col proseguire dell’instabilità politica, anche la coesione del GNA si sta incrinando: tre dei vice di Serraj lo hanno recentemente sfiduciato, accusandolo di tenere una condotta individualista e assolutamente lontana dall’assicurare una transizione pacifica verso la “normalità”.
Questi ed altri segnali hanno portato diversi stati europei, come sempre accade, a scostarsi dalle posizioni dell’ONU e ad avvicinarsi ad Haftar; anche il nostro paese, che ha a cuore i propri interessi in Libia, ha sempre cercato di restare in buoni rapporti col governo di Bengasi, in caso di una vittoria del generale alle elezioni di Primavera.
A conti fatti, nonostante sul suolo libico stiano di fatto agendo due governi, pare che non ce ne sia neanche uno: né Haftar né Serraj danno, al momento, l’impressione di potere o volere impegnare al massimo le proprie risorse per un miglioramento sensibile della situazione. Sembra che entrambi escludano qualsiasi compromesso colla controparte, seppur temporaneo, limitandosi ad attendere le elezioni e la svolta che sicuramente rappresenteranno; difficile dire se verso la rinascita o verso il baratro.
Tutto questo supponendo che il GNA, sempre più traballante, non crolli prima. Le Nazioni Unite sembrano non prendere in considerazione una simile eventualità, ma forse dovrebbero. La debolezza di Serraj non è puramente un fatto di personalità politica, ma è dovuta alla mancanza di mezzi di intervento cui finora nessuno è riuscito a sopperire: anche se ottenesse la vittoria alle elezioni, ciò non sarebbe sufficiente a rafforzare in maniera decisiva un esecutivo che, nel corso della sua breve vita, non è quasi mai riuscito a soddisfare le aspettative. Inoltre Haftar ha assicurato che non agirà militarmente contro l’avversario politico sino a quando i libici non saranno andati alle urne, ma nessuno può dire cosa farà in caso di risultato per lui negativo. Soprattutto adesso che pare sfumata la prospettiva di un’Assemblea Nazionale che riunisse tutti gli esponenti politici di spicco e facesse da preliminari al voto.
E’ necessario anche considerare l’affacciarsi di un nuovo attore sulla scena: Saif al-Islam Gheddafi, figlio dell’ex leader libico Muammar Gheddafi, che al momento si dice favorevole alle elezioni ma nessuno sa che ruolo potrà ricoprire nei tempi a venire. Certa è la presenza di una frangia della popolazione (e di elettorato) che guarda quasi con nostalgia al regime, che limitava la libertà personale ma se non altro garantiva la sicurezza.
Attualmente ogni scenario è possibile, perciò la comunità internazionale dovrebbe prepararsi ad ogni eventualità. Attualmente, al di là delle azioni di singoli stati, sembra non lo stia affatto facendo.