La conferenza di Palermo di metà novembre sembrava aver riattribuito all’ONU un’elevata centralità nella risoluzione della crisi libica, ma ad oggi si può affermare come quell’incoraggiante spiraglio di dialogo si sia rivelato un mero miraggio. L’inviato delle Nazioni Unite Ghassam Salamé ha già dovuto posticipare la Conferenza Nazionale, prevista per Gennaio/Febbraio 2019 come preludio alle elezioni, e appare evidente come i nodi rimasti insoluti a Palermo continuino a venire al pettine: il governo di unità nazionale (GNA) sostenuto dalle Nazioni unite si regge in piedi per miracolo; il generale Khalifa Haftar continua a minacciare i fragili equilibri politico-militari con azioni radicali nella Libia meridionale, attraverso cui sta acquisendo il controllo di una fetta sempre più consistente delle risorse energetiche; permane la presenza scomoda delle milizie (specialmente nella zona della capitale) che rifiutano di andarsene e al contempo di essere coinvolte in un dialogo più proficuo col governo centrale; continuano le interferenze esterne degli attori internazionali (principalmente Francia, Egitto, Emirati e Russia).
Tutto ciò ostacola il raggiungimento di una soluzione pacifica.
Haftar continua a sdoganare la propria apertura al dialogo, salvo poi agire come meglio crede e, in genere, senza alcun preavviso. Non di rado riceve anche un dichiarato sostegno dalla popolazione come dimostrano gli accordi ratificati a Sebha con vari rappresentanti di tribù residenti nella città che, nell’ambito della campagna militare nel Sud della Libia, hanno permesso all’uomo forte della Cirenaica di estendere la propria influenza nella regione. Adesso controlla persino l’area di Sharara, il più importante giacimento del Fezzan. L’azione militare potrebbe anche portare più sicurezza e stabilità, ma comporta anche rischi relativi ad eventuali scontri armati presso i pozzi petroliferi. Per quanto riguarda l’Italia, l’Eni è direttamente coinvolta (in quanto gestisce il giacimento di El Feel che si trova a circa un centinaio di chilometri da Sharara) e lamenta il pericolo di eventuali confronti militari che potrebbero bloccare la produzione. Sul piano politico, l’operazione dell’LNA marginalizza ulteriormente il ruolo del GNA nel Sud del paese.
D’altro canto è impossibile ignorare come l’iniziativa stia minando gli equilibri tribali e rischi di fomentare l’odio tra i gruppi che sostengono Haftar e coloro che lo avversano. Negli ultimi giorni, tra l’altro, gli sono state rivolte numerose accuse di pulizia etnica nei confronti delle tribù che gli hanno opposto resistenza (i Tebu, ad esempio).
A Tripoli il GNA sta provvedendo all’organizzazione di una nuova forza di sicurezza, come prefissato ma non senza intoppi, anche con lo scopo di liberarsi della presenza ingombrante delle milizie per riportare la zona della capitale sotto il proprio controllo diretto. A questo si dovrebbe accompagnare una ristrutturazione dell’apparato amministrativo e operativo, secondo le intenzioni del nuovo ministro dell’Interno Fathi Bashaaga. Tutto ciò richiede riforme che suscitano la persistente opposizione delle milizie di Tripoli. Nel frattempo ai margini della città altri gruppi di miliziani tentano ripetutamente di penetrare all’interno, poiché riuscirci è sinonimo di enormi opportunità di guadagno: nella capitale hanno sede le istituzioni che presiedono alla ridistribuzione dei proventi petroliferi.
Infatti, la Libia è uno stato che basa la propria rendita esclusivamente sull’esportazione di idrocarburi e si regge sul seguente binomio: chi è al potere non richiede il pagamento di tasse, ma non garantisce alcuna rappresentatività. Per gestire una situazione di questa specie, il governante deve godere del monopolio assoluto dei mezzi di coercizione (ossia dell’uso della forza) ma deve anche avere l’accesso alle rendite petrolifere per provvedere alla loro redistribuzione, attività che sta alla base di questo “patto sociale”. Haftar soddisfa la prima condizione: controlla più o meno stabilmente gran parte della Cirenaica, a cui si sono unite recentemente diverse zone del Sud, con una rete di influenza che si estende anche in Tripolitania con l’obiettivo, neppure troppo segreto, di entrare nella capitale. La parte più consistente dei proventi del petrolio invece resta nelle mani del GNA e delle istituzioni economiche di Tripoli, che sono sostanzialmente sottoposti ai costanti ricatti dei miliziani in quanto non possiedono ancora la forza per opporsi.
Questa spartizione non concordata delle prerogative che dovrebbero appartenere ad un unico governo centrale evidentemente rende il paese ingovernabile, poiché impedisce la sinergia di cui sopra.
Attualmente Bashaaga sta facendo buon viso a cattivo gioco, affermando come Haftar a Sud stia giocando un ruolo a livello nazionale nella stabilizzazione e riunificazione della Libia. Come se tutto stesse avvenendo di comune accordo o quasi, insomma.
Col crescente predominio del generale, però, i piani dell’ONU faticano sempre di più a concretizzarsi.
La questione libica appare come lo specchio della crescente crisi dell’ordine internazionale. Al di là degli interessi divergenti degli attori europei (specialmente di Italia e Francia, che ancora non rinuncia a perseguire con una certa sfrontatezza i propri obiettivi in molti stati africani), anche la ritirata americana dall’area mediorientale ha rappresentato un fattore determinante, avendo dato sostanzialmente il via all’azione di attori regionali spesso in contrapposizione tra loro anche in Nord Africa. Solo gli Stati Uniti godrebbero, se non della leadership, della possibilità di far leva su argomentazioni economiche tali da poter svolgere una funzione di mediazione tra le parti in gioco. Sfortunatamente permangono i dubbi sulla volontà della presidenza Trump di farsi nuovamente coinvolgere in una crisi che, in ogni caso, gli USA hanno sempre affrontato nello spirito del “leading from behind” promosso dall’Amministrazione Obama nel lontano 2011.
Mentre tutti gli altri paiono impotenti, Haftar sembra rafforzarsi sempre di più e ormai i soldati della Cirenaica di fatto sono riusciti a compiere una manovra di accerchiamento alle spalle delle forze armate di Tripoli e Misurata. L’ombra dei recenti avvenimenti si stende sempre più lunga sull’appuntamento elettorale, il cui esito risulta critico oggi come non mai. Ammesso che non si pervenga ad una soluzione militare prima che il popolo libico sia chiamato alle urne, adesso pare assurdo pensare che, in caso di sconfitta, Haftar rinuncerà ad una posizione di egemonia sempre più schiacciante. L’unico dato chiaro è l’inadeguatezza dell’azione internazionale e la necessità di correggere il tiro prima che sia troppo tardi, perché la resa dei conti è ormai vicina.
I tempi e i modi, tuttavia, rimangono un mistero.