Ci si potrebbe domandare se è possibile che si sviluppi un senso di identità in uno stato come la Siria, dove, nel corso degli anni, si sono avvicendate una serie di dominazioni e sono presenti molte frammentazioni etnico-politiche. La Siria è stata infatti dominata dagli Arabi, dall’impero Ottomano, dai Francesi e dagli Inglesi.
Dal 2011 nel paese è in corso una guerra civile che ha visto come contendenti da una parte il governo centrale di Bashar al Assad, sostenuto principalmente dalla Russia, e dall’altra l’esercito libero siriano, sostenuto principalmente dagli USA e da alcuni paesi europei (anche se ormai il conflitto si può ritenere risolto a favore del blocco filo-russo). Una delle conseguenze di questa guerra, che ha dilaniato il paese, si riscontra nel fatto che molti siriani sono stati costretti all’esodo, prevalentemente in Libano, Giordania e Turchia, cercando da quest’ultima, senza successo, una via verso l’Europa.
I profughi, essendo molto numerosi, spesso sono costretti a vivere in luoghi privi di assistenza sanitaria, libertà di movimento, istruzione e condizioni igieniche dignitose.
Se pensiamo agli abitanti di piccoli villaggi, spesso molto legati ai propri luoghi d’origine e con pochi mezzi a loro disposizione, viene naturale constatare come abbiano il desiderio di rimanere all’interno del territorio. Tuttavia è frequente che siano costretti a spostarsi verso i grandi centri abitati a seguito dell’incessante pressione subita, anche tramite incursioni e bombardamenti.
Un uomo siriano, padre di nove figli, descrive con queste parole la situazione in un campo profughi nella regione di Akkar (Libano): “Qui la nostra vita è come una morte vivente. La vita è insopportabile. È come vivere in una prigione a cielo aperto a causa dei posti di blocco. La nostra famiglia vive in un garage e i proprietari ci fanno pagare come se fossimo in un appartamento. Non c’è futuro per i nostri figli qui.”
Alcune delle persone che invece hanno scelto di restare tentano di gettare le basi per costruire un futuro più stabile per propri figli e combattono con i propri mezzi per esso. Su questo fronte un esempio è quello di Hevrin Khalaf, che è stata una politica curda (con cittadinanza siriana) e segretaria generale del Partito della Siria del Futuro. Hevrin si è impegnata per la pace in Siria ma è stata assassinata ad ottobre nei pressi di Qamishli da un commando di miliziani arabi-siriani nell’avanzata di conquista del Rojava da parte della Turchia.
Pensiamo anche a Seyde Goesteris, missionaria laica, impegnata nell’aiutare profughi e persone che vivono nelle zone di guerra di tutto lo stato, che racconta: “Tempo fa, avevamo caricato un container con aiuti di ogni genere (letti, coperte, medicamenti, ecc.). Occorrevano molti permessi per poter far passare questi carichi, e per il tir era ancora più difficile. In quell’occasione, grazie all’aiuto di un’associazione di donne cristiane locali siamo riusciti a fare transitare il camion alla frontiera siriana in sole due ore, invece delle due settimane standard. Siamo stati molto fortunati. Abbiamo anche portato aiuto e materiale medico a diversi ospedali che versavano in condizioni disastrose. È stata quasi un’impresa raggiungere alcune zone della città di Aleppo. La strada principale era controllata dalle milizie dei ribelli, che non permettevano a nessuno di percorrerla.”
Viene da chiedersi se, in un paese completamente distrutto e da ricostruire come è la Siria, questa stessa condizione di distruzione si ripresenti anche nel cuore delle persone. Non sempre infatti queste riescono a trovare la forza ed il coraggio di ricostruire non tanto le case, quanto piuttosto l’umanità e il sentimento di partecipazione alla vita di un paese nel quale riconoscere sé stessi come parte di una comunità.
Da parte nostra possiamo solo provare ad immaginare quanto per i siriani l’amore per la propria terra, soprattutto se sconvolta e ferita, sopravviva nei loro cuori ed ispiri il desiderio di ricominciare.