Israele e Palestina

Il conflitto israelo-palestinese: una guerra non scontata

“In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra” (Is 19, 24).

È sempre attuale il pericolo di abituarsi al fatto che dall’altra parte del Mediterraneo ormai da più di sette decenni continua un conflitto senza fine.  A causa della persistenza del conflitto israelo-palestinese questo è percepito da molti come uno sfondo della cronaca internazionale che a volte porta qualche notizia da prima pagina, però alla fine rimane soltanto uno sfondo. È perfino troppo facile dimenticare che il “Mare Nostrum” è davvero piccolo e che qualsiasi avvenimento su una piccola striscia di terra, da secoli ritenuta sacra dai discendenti spirituali della famiglia di Abramo, ha da sempre influenzato e continua ad influenzare la situazione generale nella regione.

Questo conflitto ha come protagonisti principali Israele e Palestina, che si affrontano da più di 70 anni per cercare di essere riconosciuti ufficialmente come stati dalla comunità internazionale e combattendo guerre per la ridefinizione dei loro confini.
Numerosi negli anni sono stati gli episodi di violenza, spesso seguite da rappresaglie dall’une e dall’altra parte, che più volte sono sfociati in veri e propri conflitti armati che hanno provocato la morte di centinaia di innocenti.
Tali drammatiche vicende si inseriscono in un contesto socio-politico che rischia di infiammarsi in ogni momento ed in cui le molteplicità e le diversità all’interno di entrambi i Paesi spesso divengono sempre più pretesto per il conflitto.
In Israele, una società già ricca di minoranze (numerosi sono anche i piccoli gruppi di cristiani in Terra Santa) si aggiunge una parte importante di popolazione: gli arabi israeliani. Gli arabi israeliani sono i cittadini di Israele, con passaporto israeliano, di etnia araba. Per questo motivo si trovano in una situazione delicata ed hanno rapporti complicati sia con i palestinesi che con gli israeliani di etnia ebraica.

Di fronte a questo contesto sono pochi quelli che riescono a penetrare la cortina dell’indifferenza generale verso il conflitto arabo-israeliano – un’indifferenza che si nasconde a volte dietro a tantissime iniziative politiche, pubblicazioni e discussioni che a parole mirano a porre fine alla guerra, però in realtà spesso non sono altro che pubblicità per singoli politici o giornalisti; a volte, paradossalmente, alibi per aggressività ed odio Una che ci è riuscita è Manuela Dviri, la mamma di un giovane soldato israeliano ucciso nel 1998 nel Libano. Dalla tormentosa esperienza della madre che ha perso il figlio – vittima di una guerra infinita – nasce il progetto “Saving Children”, nell’ambito del quale vengono salvati migliaia di bambini malati palestinesi che altrimenti non avrebbero avuto la possibilità di essere curati. Pur essendo attaccata su molti fronti, Manuela continua questo progetto, nonché tanti altri, che ha come scopo quello di dare inizio alla collaborazione tra i due popoli, partendo dalle esigenze di base e da cose molto semplici. Manuela non ha paura di scrivere della sua amicizia con donne arabe, che nel corso dell’Intifada del 2000 (la seconda Intifada) si sono trovate dall’altra parte delle barricate e che spesso sono state vittime delle stesse violenze e devono convivere con lo stesso dolore. Analizzando la situazione in Israele, ha più volte scritto e parlato della tragedia della “dolorosa rassegnazione” che porta al “costruire un muro e dimenticare chi c’è dall’altra parte”.

Si potrebbero citare numerosi altri esempi di organizzazioni e progetti che cercano di promuovere la reciproca conoscenza e la riconciliazione tra Israele e Palestina. Basti ricordare The Parents Circle Families Forum – un’organizzazione che riunisce le famiglie che hanno perso un membro nel corso del conflitto. Non è per niente facile tentare di stabilire questo tipo di dialogo. Però il dialogo, per quanto difficilissimo, non ha alternative.

Si potrebbe chiedere chi ha un’identità più salda e matura: un giovane che, avendo perso un parente, va a incontrare qualcuno che ha sofferto lo stesso dolore “dall’altra parte”, oppure un estremista pronto a uccidere persone innocenti pur di intimidire il presunto nemico? La madre inconsolabile che invece di chiudersi nell’immenso dolore si adopera per la promozione del dialogo oppure il politico che usa gli slogan radicali nel tentativo di ottenere popolarità? La risposta sembra ovvia, eppure la cattiva abitudine di paragonare le perdite delle parti rimane troppo forte, come se la sofferenza umana potesse essere calcolata e paragonata.

Non giova a nessuno fare i conti; è sempre vero, come diceva Dostoevskij, che niente al mondo vale una lacrima, anche una sola lacrima, di una bambina martoriata. Ciò non riguarda soltanto Israele e Palestina: troppo spesso anche noi in Occidente siamo pronti ad accettare pregiudizi ed opinioni stereotipati o semplificati su quel conflitto che rimane per molti una realtà incompresa, se non del tutto ignorata.

La guerra tra i figli della stessa famiglia abramitica, rimane una ferita sanguinante, addirittura nel cuore del Mediterraneo. Una piaga che non può essere curata se ognuno di noi non si accinge a chiedere “pace per Gerusalemme” (Sal. 122, 6) e a conoscere meglio quella realtà, per molti versi incredibilmente vicina alla nostra.

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  • Segni di speranza ci sono. Si avvicina a grandi passi l’incontro organizzato dalla Conferenza episcopale italiana che riunirà i vescovi d’Europa, Africa e Asia dal 19 al 23 febbraio. A chiudere i lavori sarà papa Francesco.
    L’evento è stato ribattezzato «sinodo del Mediterraneo» e realizza un sogno caro a Giorgio La Pira, il «sindaco santo» di Firenze: fare del mare che bagna tre continenti un ispiratore di relazioni pacifiche tra i popoli e le religioni.
    Giorgio La Pira e Papa Francesco, il passaggio di testimone nella santità della fratellanza. Preghiamo perché porti buoni frutti di pace.

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