Siria

Tra tante fragilità, un popolo che cerca riscatto

Ti sei lavato le mani oggi?

Immaginiamo di sì, mentre invece i ragazzi siriani costretti a fuggire dalle loro case bombardate, molto probabilmente questa banale possibilità non l’hanno avuta. E forse neanche ieri, o il giorno prima. E certamente, sarebbe comunque l’ultimo dei loro problemi.

Come loro, sono moltissime le persone che vivono in condizioni di fragilità sotto tanti punti di vista.

La Siria è infatti un paese devastato dalla guerra civile ormai da più di dieci anni (ne abbiamo parlato qui) e mentre i riflettori di tutto il mondo sono puntati sull’avanzare della pandemia, ci siamo scordati che in Siria i conflitti armati non si sono mai fermati.

Con i nostri telegiornali impegnati nella cronaca di pandemia, potremmo esserci persi alcuni passaggi importanti avvenuti nel corso dell’ultimo anno.

Centrale soprattutto la questione di Idlib, situata nel nord-ovest vicino al confine con la Turchia, che è stata a lungo teatro di scontri tra i ribelli e l’esercito di Assad, forte di un alleato come la Russia. La città è tutt’oggi l’unica zona ancora in mano alle forze d’opposizione. I bombardamenti delle forze congiunte di Damasco e Mosca si sono protratti per mesi fino a quando un incontro tra Putin ed Erdoğan ha posto le basi per una tregua che entra in vigore nel marzo 2020.

Il conflitto però è tutt’altro che estinto: negli ultimi mesi, infatti, sul confine iracheno sono aumentate le tensioni. È infatti aumentata la presenza delle truppe iraniane nella zona, con un Iran che appare sempre più isolato sia dal mondo sunnita che da Israele, specie dopo i recenti Accordi di Abramo tra quest’ultimo e alcuni paesi arabi. Proprio Israele, infatti, negli ultimi mesi ha intensificato l’offensiva verso le truppe iraniane con numerosi raid aerei.

Il conflitto ha portato ad un milione di sfollati solo in questa zona. Idlib è di fatto una vera e propria prigione a cielo aperto in cui è impossibile anche solo far pervenire assistenza e aiuto umanitario per i civili.

Sono attualmente 6,6 milioni gli sfollati all’interno del territorio siriano e dal 2011 ad oggi sono almeno 5 milioni coloro che hanno cercato rifugio fuori dai confini. Giordania e Turchia, che pur sono tra gli stati ospitanti la maggior parte dei profughi, hanno spesso respinto l’ingresso di nuovi richiedenti asilo, esponendoli così ad un ulteriore rischio di violenze e persecuzioni.

Un milione e mezzo invece si trovano, ufficiosamente, in Libano, paese che non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra del 1951, che regola le procedure ed il riconoscimento dello status di rifugiato e degli obblighi gravanti sugli stati firmatari.

Non vedendosi riconosciuta alcuna forma di protezione e tutela, ancora una volta i profughi sono costretti a vivere per strada, nelle tende o negli edifici abbandonati.

Di fronte a tali fatti e a questi numeri il rischio maggiore, oltre a quello di rimanere indifferenti, è quello di dimenticarsi l’umanità che sta dietro a tutti quei volti che fuggono dal proprio Paese. Come siamo toccati da queste storie di fragilità?

Probabilmente il primo concetto che ci viene in mente è il senso di sradicamento, non solo dall’ambito geografico ma anche da quello etnico, culturale e sociale. Molto spesso, infatti, i profughi provenienti dalla Siria, così come tutti coloro che fuggono da guerre o altre condizioni di fragilità, si trovano catapultati in ambienti che tendono ad annichilire le differenze culturali portando tutti al semplice e vuoto termine di “profughi”. Anche il concetto di umanità inizia a stravolgersi. Essere profughi, che sia a Lesbo, ad Amman o a Beirut, significa solamente una cosa: essere un peso per le casse dello stato e un problema per la comunità ospitante che di questi tempi sta già affrontando un grave periodo di crisi. Basti pensare a quanto accaduto di recente in Bosnia, a Lipa: di fronte ad immagini di persone a piedi scalzi, immersi nella neve alta, parole come fragilità sembrano solo eufemismi ai nostri occhi se non fosse che, per loro, tutto questo rischia di diventare normale quotidianità.

È anche vero che in certi casi l’esigenza di normalità e di piantare nuove radici supera un passato fatto di odio e rancore, permettendo di guardare oltre la disperazione. Anche in un presente di privazioni, dove tutto sembra consigliare di arrendersi, è sempre possibile risollevare la testa. Ne è un esempio la storia di Anwar al-Bunny che, come riporta The Guardian in una sua inchiesta, era stato arrestato e incarcerato in Siria poiché sostenitore della forza politica che si contrapponeva al regime.

Ecco che, dieci anni dopo, in esilio in Germania, incontra per caso lo stesso uomo che lo aveva interrogato e fatto arrestare. Ma in Anwar non c’è spazio per il rancore e la vendetta. Egli afferma infatti di non provare odio nei confronti quell’uomo a causa di quanto subito, poiché riconosce come vero responsabile delle violenze quel sistema più vasto e corrotto che tentava di cambiare. Oggi Anwar al-Bunni non è “solamente” un noto avvocato che si batte per i diritti umani in Siria, ma rappresenta un simbolo di speranza per tutti coloro che ancora cercano un nuovo inizio lontano dalla propria terra.

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Tra dolore e speranza
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