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Per un’umanità un po’ più vicina: uno sguardo alla Grecia

In queste ultime settimane, prima che l’emergenza sanitaria del Covid-19 prendesse il sopravvento sulle nostre vite, un’altra notizia occupava le prime pagine dei giornali e le televisioni: la crisi migratoria al confine tra Turchia e Grecia, paesi in contrasto da decenni.

In seguito all’apertura del confine turco del 27 febbraio, migliaia di persone stanno tentando di oltrepassare la frontiera per arrivare in Grecia e poter raggiungere l’Europa.

 

Come mai proprio adesso sta avvenendo tutto questo?

 

L’Unione Europea nel 2016 ha stipulato un accordo con il governo turco al fine di bloccare e rallentare i flussi migratori, provenienti soprattutto dal Medio Oriente e dalla Siria; si parla di cifre del valore di 6 miliardi di euro, concessi come d’accordo alla Turchia fino al 2019, con lo scopo di garantire un importante controllo al confine con la Grecia, tutelando però diritti e bisogni dei migranti attraverso la costruzione di strutture adeguate in cui poter vivere.

Tutto questo è riuscito in questi ultimi anni a rallentare davvero i flussi migratori, fenomeno però pagato dai migranti stessi, spesso riuniti in veri e propri centri di detenzione e costretti a vivere in condizioni precarie.

Adesso i confini sono stati riaperti, in quanto sovraffollati a causa della crisi in atto a Idlib, nel nord-ovest della Siria, da cui proviene circa un milione di profughi in fuga verso la Turchia.

 

In seguito a questi ultimi avvenimenti, la situazione sta diventando sempre più drammatica e pesante; come si legge sul New York Times, migliaia di migranti, residenti in Turchia, appena saputa la notizia dell’apertura del confine, si sono subito mobilitati, nel timore di perdere questa occasione, per poter raggiungere e oltrepassare la frontiera.

La situazione è resa più difficile dal fatto che il governo greco non ha assolutamente intenzione di aprire i confini, rifiutandosi anche di esaminare le numerose richieste di asilo ricevute ultimamente.

E così uomini, donne e soprattutto bambini di ogni età si trovano costretti a raggiungere la Grecia o via mare, cercando di arrivare sulle isole più vicine, tra cui Lesbo, o via terra, attraverso il confine terrestre di 120 km, segnato in buona parte dal fiume Evros, letto di morte per chi tenta di oltrepassare le sue acque gelide e poco sicure.

Solo poche settimane fa i soldati greci, con lo scopo di difendere il confine, hanno attaccato violentemente con proiettili e gas lacrimogeni giovani e bambini che cercavano di proseguire il loro viaggio, sollecitati tra l’altro anche dalla Turchia, che sta mobilitando l’esercito per spingere i migranti fuori dal paese.

Numerosi sono coloro che non potranno continuare la fuga verso un luogo migliore: persone ferite e rimaste vittime del conflitto.

Altrettanto difficile è la situazione sull’Isola di Lesbo, a Moira, adesso diventato il più grande campo profughi d’Europa.

Inizialmente pensato come struttura per ospitare all’incirca tremila migranti per pochi mesi, in attesa di una nuova collocazione definitiva, dal 2016 ad oggi è andato via via espandendosi, accogliendo adesso oltre ventimila persone, tra cui settemila minori, il 70% dei quali ha meno di dodici anni. Si è trasformato in una vera “città”, tra baracche e tende costruite dalle persone stesse, nel tentativo di garantire un piccolo tetto alle proprie famiglie, come racconta Mohammed, giovane curdo-siriano che da sette mesi vive nella jungle del campo con la moglie e i suoi due figli di cinque e tre anni. Mohammed si è trovato costretto a comprare e recuperare paletti, teli e coperte per poter costruire una tenda-baracca dove poter vivere con la sua famiglia (“La paura del coronavirus nel campo profughi più grande d’Europa”, Internazionale, 12 Marzo 2020).

Come lui, molti altri adesso stanno cercando di sopravvivere nell’hot-spot anche attraverso attività commerciali improvvisate in strada: tra alberi di ulivo e cumuli di immondizia si trovano barbieri, venditori di vestiti usati o di cibo.

Poche le strutture e i centri che garantiscono un’adeguata assistenza sanitaria: le condizioni igieniche sono disastrose, impossibile avere acqua potabile, pochi i bagni disponibili, una sola doccia con acqua costantemente fredda indicativamente deve servire per 100 persone; e in tutto questo, adesso, anche la possibile diffusione del nuovo virus inizia a preoccupare.

L’epidemia inoltre ha fermato momentaneamente molti conflitti in atto, come quello siriano o quello in Yemen, ma purtroppo gli abitanti di queste zone di guerra non possono restare nelle proprie case; l’unica possibilità di salvezza è proprio il raggiungimento del confine tra Turchia e Grecia.

 

In questo difficile momento storico, in cui ad ognuno di noi viene chiesto con responsabilità di fare la propria parte, cercando di restare a casa, il pensiero va a coloro che, invece, una casa, un tetto o un posto stabile in cui vivere non ce l’hanno. Spesso infatti focalizziamo la nostra attenzione su ciò che ci manca e su ciò che vorremmo avere, senza in realtà renderci davvero conto dell’essenziale, di ciò che davvero ogni giorno abbiamo e di cui a volte non riconosciamo l’importanza.

In momenti come questi riusciamo ad apprezzare le piccole cose date spesso per scontate: la libertà di uscire, vedere i propri cari, la garanzia di un lavoro o di avere sempre un pasto in tavola per la famiglia.

Forse adesso, non più presi dalla frenetica quotidianità che prima riempiva le nostre giornate, possiamo avere un’opportunità in più per soffermarci anche sul dolore e sulla sofferenza altrui, spesso dimenticati.

Possiamo sentire più vicina la sofferenza di un padre che tenta di costruire un tetto per la propria famiglia, per ripararsi dalla pioggia e dall’umidità del luogo, la sofferenza di una madre che spera con tutto il cuore di poter garantire un futuro ai propri figli, la possibilità di andare a scuola, di crescere e formarsi, la sofferenza di un bambino, disposto a passare dodici ore in piedi per poter ricevere una mela, forse l’unico pasto della giornata, o di una bambina che si crea bambole e giocattoli con ciò che trova per strada.

Come possiamo non reagire di fronte a tutto questo?

Non possiamo far finta di nulla, anzi, dobbiamo parlarne, dobbiamo far sentire la nostra voce, anche a nome di tutti coloro che non possono farlo e che non sono ascoltati.

Oggi, tutti distanti, ma uniti più che mai, possiamo dunque sentirci un po’ più vicini anche a tutte quelle realtà considerate spesso lontane, provando a rivolgere loro un pensiero o una preghiera, con spirito di fraternità, unione e solidarietà verso l’umanità intera che, oggi come non mai, soffre e lotta insieme nella speranza di un futuro migliore.

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