Libia

Per le strade di Tripoli: storie di un’identità ferita

In un tendone vicino a Garabulli nella periferia di Tripoli, dove nel 600 A.C. i Fenici tracciavano le rotte per solcare il Mediterraneo, adesso ci sono persone che sperano di imbarcarsi per un viaggio.

Non abbiamo qui lo scopo di descrivere in dettaglio la situazione in Libia o di mostrare quali siano state tutte le motivazioni che hanno portato all’odierna crisi, l’intento è quello di provare a raccontare, senza alcuna pretesa, le condizioni di vita che stanno portando sempre più persone a smarrire la consapevolezza della propria identità.

Dalla caduta del governo di Gheddafi nel 2011, in seguito agli eventi passati alla storia come “primavere arabe”, in Libia si è creato un quadro politico instabile che sta vedendo come protagonisti da un lato il governo di al-Sarrāj, appoggiato dall’ONU, dall’altro il comandante delle forze armate ribelli, Haftar.

Questo scenario non solo sta destabilizzando il Paese, ma sta avendo soprattutto anche degli evidenti risvolti nella politica internazionale, principalmente legati agli interessi economici dovuti ai numerosi giacimenti di petrolio presenti nel suolo libico; gli stati membri dell’ONU hanno dibattiti aperti su quale governo sostenere, Francia e Stati Uniti a favore del generale di Bengasi, mentre Italia e Qatar a favore di al-Sarrāj.

In questo contesto incerto, le coste libiche svolgono oltretutto un ruolo strategico nel fenomeno dell’emigrazione, rappresentando uno dei principali porti di partenza per coloro che non vedono altra alternativa se non lasciare il continente africano.

Sia Libici, sia uomini donne e bambini di tanti altri paesi africani, sono costretti, nell’attesa e nella speranza di partire, a vivere la realtà cruenta delle strade o dei centri di detenzione, come racconta nei suoi reportage Francesca Mannocchi, regista e giornalista italiana che da tempo si occupa di migrazioni e conflitti in paesi del Medio Oriente e Nord Africa.

 

Nelle strade di Tripoli mamme e bambini si trovano costretti a vivere sul ciglio della strada, in condizioni igieniche pessime, senza cibo e acqua, lottando ogni giorno per il futuro dei loro figli.

Uomini e padri di famiglia invece non hanno altra alternativa che arruolarsi in qualsiasi schieramento militare, senza la possibilità di avere più un contatto con i propri cari.

Allo stesso modo Mohammed, prigioniero nel centro di detenzione di Trik El Sika, vive ogni giorno da tre anni insieme a molti altri uomini che sono stati catturati nel tentativo di fuggire dal paese via mare.

Privati dei propri documenti e telefoni, senza la possibilità di lavarsi, di un pasto decente e di bere acqua pulita, con la paura di essere maltrattati e torturati, chiedono aiuto per poter uscire da questa prigione per tornare dalle proprie famiglie o cercare un futuro in Europa.

Le persone si appellano ai giornalisti per mostrare a coloro che promuovono i diritti umani che esistono, in realtà, condizioni di esseri umani, ma senza diritti.

 

Cosa significa parlare d’identità personale in un contesto del genere?

 

Se per identità si intende la possibilità di formare la propria persona grazie alle proprie esperienze di vita e alle proprie aspettative sul futuro, queste persone si trovano invece prive di qualsiasi opportunità di riscatto, costrette a vivere situazioni alienanti in cui la perdita assoluta dei diritti umani accompagna inevitabilmente la perdita di identità e dignità di qualsiasi uomo.

In un presente così difficile e straziante, cercano di non perdere la speranza di un futuro migliore, un futuro in cui poter davvero prendere in mano la propria vita e intraprendere un cammino di pace, giustizia e diritti.

Anche se spesso è difficile farsi toccare da eventi lontani non solo geograficamente, ma anche culturalmente, dalla nostra realtà, la speranza è che queste poche righe possano smuovere le nostre coscienze e farci prendere consapevolezza di ciò che sta accadendo al di là del Mediterraneo.

Cosa possiamo fare noi? Davvero ci vogliamo sentire incolpevoli e assolti di fronte a tutto questo?

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1 Commento. Nuovo commento

  • Grazie per questo articolo ed anche per il precedente. Situazione davvero difficile, resa ancora più inquietante dal recente accordo Turchia-Libia e dalla intenzione russa di inviare mercenari. Al momento unica speranza viene dal sinodo dei vescovi e dei patriarchi in programma a bari a febbraio. Su questo sinodo segnalo l’articolo pubblicato ieri da avvenire sull’iniziativa di alcuni monasteri di clausura mediterranei. Buon Natale.

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