Arabia Saudita

Tre candidati Sauditi al Nobel per la Pace, fra questi due donne

Non ci si stupisce, purtroppo, a sentir parlare di violazioni dei diritti umani nei Paesi del Golfo, ma ciò che avviene in Arabia Saudita provoca particolare indignazione perché questo Paese, dove si trovano due delle città più importanti per il mondo musulmano, Mecca e Medina, si erge a rappresentante dell’islam nel mondo.
Una rappresentazione indegna per tante ragioni, come la corruzione della classe dirigente, l’uso strumentale e arbitrario della religione, che di fatto diventa uno strumento per il controllo sociale, i legami con le formazioni terroristiche internazionali, le discriminazioni verso le minoranze, la guerra contro lo Yemen, e non da ultimo, le violazioni dei diritti umani. Per chi è musulmano praticante andare in Arabia Saudita dovrebbe essere importante, un pellegrinaggio, invece per tanti lavoratori stranieri è un incubo dal quale si scappa appena possibile. A giudicare dalle condizioni in cui ancora oggi vivono le donne saudite, anche per loro non è facile restare lì.
Non basta poter studiare, lavorare, votare e guidare (con tutte le condizioni e le restrizioni che restano imposte); alle donne manca la libertà di scelta, di denuncia, di impegno sociale, di movimento. Molte donne saudite sono in carcere per aver espresso un dissenso e molte straniere sono maltrattate e considerate al pari di macchine da sfruttare.

Indice che però qualcosa sta cambiando sono le nuove candidature al Premio Nobel per la Pace del 2019: fra queste infatti troviamo tre nomi Sauditi, tra cui quello di due donne attiviste che hanno “richiato” la loro vita per promuovere il rispetto dei diritti umani e che si trovano per questo in carcere.

Lo hanno annunciato tre deputati norvegesi. I candidati, Loujain al Hathloul, Abdullah al Hamid e Nassima al Sada, attualmente detenuti in carcere, hanno “rischiato” la loro vita per promuovere il rispetto dei diritti umani e sono “prigionieri di coscienza”, hanno sottolineato i promotori della candidatura.

Conosciamo meglio i tre attivsti:

Loujain al-Hathloul, attivista dell’Arabia Saudita per i diritti delle donne, è stata arrestata il 4 giugno all’aeroporto internazionale di Dammam. Da lì, è stata costretta a imbarcarsi su un volo per la capitale Riad, in attesa di interrogatori. Pare sia stata presa di mira per il suo pacifico impegno in favore dei diritti delle donne in Arabia Saudita. Il 30 novembre 2014 Loujain al-Hathloul aveva provato a entrare, alla guida di un’automobile, dalla frontiera degli Emirati arabi uniti. Per aver sfidato il divieto di guida per le donne, aveva trascorso 73 giorni in carcere. Nel novembre 2015 Loujain al-Hathloul si era candidata alle elezioni, nella prima occasione in cui la monarchia saudita aveva concesso alle donne l’elettorato attivo e passivo. Nonostante la sua candidatura fosse stata ufficialmente ammessa, il suo nome non era mai stato aggiunto alle liste dei candidati.

Nassima Al Sada è co-fondatrice del Centro per i diritti umani di Al Adala: più volte è stata perseguitata, minacciata, aggredita e privata del diritto di viaggiare all’estero solo a causa del loro attivismo.

Molte di loro restano in carcere senza che sia stata formalizzata alcuna accusa e rischiano fino a 20 anni di detenzione se processate dal tribunale antiterrorismo.

Ha portato avanti campagne nella provincia orientale del Paese in favore dei diritti civili e politici, dei diritti delle donne e di quelli della minoranza sciita che vive nell’est del Paese, mettendo a repentaglio la sua stessa incolumità. Si è candidata alle elezioni locali nel 2015 ma la sua candidatura è stata respinta. È stata anche protagonista della campagna per il diritto di guida delle donne e per la fine del sistema repressivo del tutore maschile.

Il professor Abdullah al-Hamid è invece un avvocato saudita noto per essere uno dei più eminenti difensori dei diritti umani in patria, nonché uno dei promotori della Associazione saudita per i diritti civili e politici. L’anno scorso gli è stato assegnato il Nobel alternativo svedese, il Right Livelihood Award per il suo impegno in una serie infinita di campagne su libertà di espressione, diritti delle donne e la richiesta per l’instaurazione di una monarchia costituzionale.

Non ha potuto però ritirare il premio, poiché con il suo lavoro ha parecchio infastidito la monarchia islamica, che lo ha imprigionato con sentenze di 15 anni di reclusione.

Forse con la possibile assegnazione del Nobel a voci di difesa dei diritti umani cambierà davvero qualcosa? L’Arabia Saudita potrà diventare anche un paese per donne?

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